14 maggio 1977. Il racconto di Mario Ferrandi: così ho ucciso Antonio Custra

La sparatoria del 14 maggio 1977 a via De Amicis a Milano è uno degli episodi più noti degli anni di piombo in Italia, grazie alle immagini che colgono alcuni giovani militanti del Collettivo Romana Vittoria far fuoco sulla polizia, uccidendo un poliziotto, Antonio Custra. Fotografie che sono entrate nell’immaginario collettivo come icone della violenza politica, della “compagna P38”: il giovane che a gambe larga spara a due mani è forse l’immagine più nota di quegli anni, insieme alla foto del cadavere di Moro nel bagagliaio della R4. L’anno scorso, in occasione del 40ennale, l’Alter ugo ha dedicato uno speciale all’omicidio Custrà, con due articoli (leggi1, leggi2), una videointervista al giudice Salvini, la pubblicazione integrale della sua sentenza ordinanza. nel rimandare a tutti i materiali editi, quest’anno diamo la parola al responsabile della morte, Mario Ferrandi

antonio custraSi presenta con una parola sola: «Eccomi». Mario Ferrandi porta con una certa disinvoltura i suoi 51 anni. Il peso degli Anni di piombo è tutto dentro ed affiora un po’ alla volta, nelle pause e nella scelta del vocabolario, senza mai essere dichiarato esplicitamente. «Come vede non mi sottraggo: Antonia Custra ha detto che vuole la faccia. dell’assassino di suo padre, la mia, da odiare, e io sono qua. Ho letto e riletto l’intervista concessa sabato a Il Giornale dalla Custra: è uno schiaffo violentissimo, durissimo, che io non voglio attenuare».
Il tavolo di una pizzeria della periferia milanese, il Giornale con le immagini di quel tragico 14 maggio 1977, la battaglia fra gli autonomi e la polizia conclusa con la morte del vicebrigadiere Antonio Custra, il papà di Antonia che nascerà orfana un mese e mezzo più tardi. La pagina più famosa dell’album del terrorismo italiano.
«Quel che accadde quel giorno si può spiegare solo se si torna al clima di quegli anni. Noi eravamo stati addestrati in cascina a sparare, a difenderci, a contrattaccare: ci aveva insegnato il mestiere uno studente, Roberto Serafini, poi caduto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Quando dico noi, dico una generazione, ma in particolare noi autonomi, autonomi di Rosso, autonomi del collettivo Romana Vittoria. Io, Giuseppe Memeo», che poi sarebbe entrato nei Pac e avrebbe ucciso l’orefice Pierluigi Torregiani, «Marco Barbone», che poi avrebbe sparato a Walter Tobagi, tanti altri che poi sarebbero entrati in Prima linea. «Portavamo le armi alle manifestazioni ed io ero il capo di quella struttura: di quello che accadde io porto tutta la responsabilità».
Certo, non è facile seguire Ferrandi nel suo ragionamento. Occorre immaginare i servizi d’ordine dei cortei di allora: tante, tantissime armi, con una facilità sbalorditiva. «Il punto è che quel giorno la situazione degenerò come mai era successo e per fortuna, a mia memoria, mai sarebbe accaduto in seguito. Via De Amicis diventò un teatro di guerra, come se Milano fosse Beirut, per un minuto, un minuto e mezzo. Il tempo del botto e dello spegnimento di due candelotti lacrimogeni».
Come mai? «Fu una maledetta fatalità. Noi eravamo andati a protestare davanti a San Vittore: eravamo due o tremila, ma Scalzone e altri leader ci avevano detto di rientrare nel corteo più grande, in piazza Duomo. Dunque percorrevamo via Olona, con l’intento di imboccare via Carducci, quando sul fianco, in fondo a via De Amicis qualcuno notò il Terzo celere della polizia. Io credo che loro non sapessero di noi, così come noi non sapevamo che erano lì. Qualcuno dirottò immediatamente un autobus, lo mise di traverso e gli diede fuoco. Io gridai: “Romana fuori”. Immediatamente i miei, una ventina armati di tutto punto, entrarono in via De Amicis con l’intento di tenere a bada il nemico, la polizia, e di lasciar sfilare il corteo».
Una sequenza di un minuto, un minuto e mezzo. Quella immortalata da cinque fotografi che riprendono gli spezzoni di guerriglia e in particolare Giuseppe Memeo, la calibro 22 impugnata a due mani, che spara ad altezza d’uomo. Ferrandi tace per alcuni secondi, poi consegna la cornice di quella giornata: «La maggior parte di quello che sto raccontando è frutto della meticolosa ricostruzione condotta insieme al giudice istruttore Guido Salvini più di dieci anni dopo i fatti: un lavoro monumentale a cui tutti gli imputati hanno contribuito, tassello per tassello». La narrazione può riprendere: «Accadde un altra circostanza imprevedibile: una molotov, spenta, piovve proprio di fianco a Memeo». Che si trovava all’altezza del numero civico 59, dove c’era e c’è anche oggi una copisteria. «Probabilmente Memeo perse la testa e cominciò a sparare ad altezza d’uomo con la sua calibro 22. E poco mancò, come si vede nella foto pubblicata dal Giornale, che colpisse il sottoscritto, qualche metro più avanti. A quel punto, in automatico partirono gli altri: nessuno capiva bene cosa stesse succedendo, ma fra il fumo, la polvere, i candelotti, le grida, cominciammo a sparare. Si usciva a turno allo scoperto, si sparava, si rientrava in posizione coperta».
Dopo Memeo, toccò a Barbone che aveva fra le mani un fucile a canne mozze: Barbone ferì gravemente l’edicolante Marzio Golinelli. «Quando fu il momento, sparai ad altezza d’uomo due o tre proiettili con la mia calibro 7.65. Non vidi cadere nessuno ma occorre tener presente che i poliziotti erano a centotrenta metri di distanza. Ripeto, non voglio assolutamente sminuire il mio ruolo per quella tragedia, dico solo quello che ricordo. So che finalmente quando la calma tornò io ero convinto che fosse morto qualcuno di noi». Memeo aveva provocato un disastro. «Ci rimasi di sasso quando scoprii, la sera, che per terra era rimasto un agente».
«Scappammo via, tutti. Pensavo che ci avrebbero preso. Io mi rifugiai nei pressi di Roma». Probabilmente, con l’aiuto della rete di Valerio Morucci.
«Dopo l’estate, compimmo un’inchiesta interna: i giornali dicevano che Custra era stato colpito da una calibro 6.35, ma nessuno di noi aveva un’arma di questo tipo. Un mistero. Poi, più di dieci anni dopo, il giudice Guido Salvini ci disse che la verità era un’altra: a sparare il colpo mortale era stata una calibro 7.65. Quel giorno erano entrate in azione quattro calibro 7.65: una non fu mai individuata; un’altra era in mano a Walter Azzolini», uno studente del Cattaneo, già uscito di scena nel primo processo. «Rimanevamo io e Enrico Pasini Gatti. Pasini Gatti disse di aver sparato soltanto in aria. Alla fine, Salvini si convinse che il colpo mortale era partito dalla mia pistola».
Mario Ferrandi è uscito dal carcere nel 1991: «Non amo la retorica, ho cercato di riparare, lavorando per cinque anni con don Mazzi per liberare il Parco Lambro dagli spacciatori. Ora lavoro come informatico, precario, e sono qua. Pronto a rispondere, per quel che posso, alle domande di Antonia Custra e di chi, da una parte e dall’altra, ha perso il padre. E vuole sapere perché una generazione ha imbracciato il fucile».

FONTE: Intervista di Stefano Zurlo (Il Giornale) a Mario Ferrandi, maggio 2007

 

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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