Giorgio Napolitano, l’attuale Presidente di questa Repubblica, è una figura paradigmatica. Di una generazione e di un percorso politico complesso e contradditorio.  Come Ingrao e Scalfari, Pintor, Bocca e Guttuso e la quasi totalità della classe dirigente del dopoguerra, l’inquilino del Quirinale si è formato nei Gruppi Universitari Fascisti, l’ala intransigente del Regime, la “seconda ondata” mussoliniana, la “covata” di Bottai.

In quell’ambiente Napolitano è cresciuto misurandosi con l’ottusità dei gerarchetti e le lezioni di Ugo Spirito sulla “Corporazione proprietaria”; nel suo ateneo partenopeo — un angolo privilegiato — magari avrà letto “l’Universale” o “Vent’Anni”, Ricci e Pallotta, Giani, Montanelli e Rosai. Chissà? Di certo Giorgio era un ragazzo organico alle avanguardie del PNF, alle logiche della rivoluzione mussoliniana. Per i suoi referenti d’allora era “un buon e promettente camerata”.

Poi, dopo il crollo del ’43, Napolitano raggiunse lestamente le fila del partito di Togliatti — la versione partenopea e gradualista, da subito vincente su quella secchiana e resistenziale — e, con intelligenza e caparbietà, si inserì nel gruppo dirigente de “il partito nuovo”. Una scelta consona al personaggio: il PCI togliattiano —costruito non a caso dal “migliore” sotto il sole di Salerno (e la protezione degli anglo-americani) e non nelle brughiere della val Padana ancora contese dai fascisti repubblicani —si rivelò un’architettura politica, efficace, concreta e (per i capi) confortevole.

Nulla di strano. Nulla di nuovo. Il passaggio — spesso morbido, talvolta sofferto, qualche volta traumatico — di larga parte dei quadri giovanili e sindacali del Fascismo (anche repubblicano) nell’antifascismo post-43 e post-45 è stato ampiamente indagato sia nel dopoguerra sia in versione nostalgica e accusatoria — ricordo il salace libro di Nino Tripodi “Camerata dove sei?” — sia in modo analitico e ormai pacato — i lavori di Pietro Neglie, Mirella Serri, Paolo Buchingnami, Giuseppe Parlato —. 

Al di là delle polemiche sui “voltagabbana”  — termine caro all’ex superfascista Lajolo — o delle autoassoluzioni di Zangrandi, in quel clima post bellico non si consumò soltanto un tradimento o un abbandono ma soprattutto una delusione: per molti di quei giovani il Fascismo aveva fallito la sua rivoluzione, la sua missione. Il suo scopo.

Quale fosse però lo scopo ultimo, l’orizzonte privato di Giorgio Napolitano — un’idea felpata quanto algida del potere intrecciata ad un realismo politico avaro e accidioso — pochi, pochissimi lo compresero. Soprattutto i compagni di base del PCI. Per decenni, l’imperturbabile “compagno Giorgio”, incastonato nella cabina di regia di Botteghe Oscure, attraversò con sobria eleganza le turbolente vicende della sinistra italiana. Senza troppo scomporsi approvò ogni svolta e tacitò ogni pulsione estremista: fedele alla “doppiezza” del suo ignifugo maestro, applaudì i tanks sovietici a Budapest e colloquiò cordialmente con l‘ambasciata americana, appoggiò Amendola occhieggiando a Berlinguer, sostenne gli scioperi dell’Autunno caldo mentre contribuiva alla radiazione degli ingenui eretici de “Il Manifesto”. Nel frattempo il nostro strappava, primo dirigente comunista, un biglietto per gli USA e si affacciava — scegliendo le giuste porte — in Europa  ….  

Comprensibile perciò la freddezza se non l’antipatia che Napolitano suscita in una certa sinistra (a destra l’ostilità è scontata o dovrebbe esserlo…). Lo conferma, con ironia e solida documentazione, il nuovo libro Ugo Maria Tassinari “il capo della banda”. Nonostante il titolo decisamente tranchant, lo scrittore napoletano — uomo di raffinata intelligenza e intriganti curiosità — evita il killeraggio e l’insinuazione malevola e  propone un ritratto inusuale, scomodo ma non banale di “re Giorgio”.

Per Tassinari l’ottuagenario del Quirinale è cardine e riferimento per l’opaco progetto di “normalizzazione” voluto dagli ottimati nazionali e dai poteri esogeni.  I ripetuti strappi alla Costituzione, la brusca destituzione di Berlusconi, il commissariamento di palazzo Chigi,  il congelamento del Parlamento, le politiche di folle rigore che ci affliggono hanno in Napolitano l’ispiratore e il garante. Dietro alla retorica delle Istituzioni, l’antico discepolo di Togliatti ha portato “il Paese in una palude senza fine, con l’aumento costante del debito e una crisi industriale senza vie d’uscita stante l’impossibilità, dovuta ai vincoli europei, di rilanciare la domanda interna”.

Tassinari non fa sconti. Nonostante qualche rancore antico — imperdibili le pagine sul suo incontro/scontro con Napolitano in una sede del PCI dopo il golpe cileno — e qualche frettolosità — sarebbe interessante indagare con minuzia il ruolo decisivo del Quirinale nella sventurata guerra di Libia —, l’autore fissa l’orizzonte di king George in una visione laica, neo illuminista, tecnocratica assolutamente sinergica a quel “sogno di fratellanza universale” già annunciato da François Mitterrand, vero riferimento culturale dell’ex “migliorista” e grande “fratello”. Un disegno articolato e ambizioso che ha radici profonde, un gioco di scacchi che non prevede alcun alfiere della sovranità nazionale sulla scacchiera.

 

 

Ugo M. Tassinari

NAPOLITANO, IL CAPO DELLA BANDA

Edizioni Sì – 2014

Ppgg. 110 – Euro, 8.00