Ugo M. Tassinari ci racconta “Napolitano. Il Capo della Banda”

Se c’è una cosa che invidio a Ugo M. Tassinari è la sua straordinaria capacità di mantenersi imparziale anche là dove sarebbe umanissimamente comprensibile un moto di sdegno o quantomeno di fastidio.

Ne ho avuto la prova in tutti questi anni, seguendo il suo faticoso (e sofferto, anche) percorso — da storico più che da giornalista — sulle tracce delle ragioni e dei cuori sottesi alla “fascisteria”, con la quale il feeling sembra essersi esaurito: proprio come accade in psicoanalisi, è infinitamente più facile parlare di sé con un estraneo; e quando quell’estraneo riesce a spiegarci cosa pensiamo finiamo per innamorarcene un pochino, salvo poi odiarlo quando scopriamo che ci comprende, sì, ma non ci giustifica né sta “dalla nostra parte”.

Così a maggior ragione gl’invidio quella capacità, adesso che ha avuto il coraggio e la perizia di mettere (a) nudo il re, col suo eccellente Napolitano. Il Capo della Banda (edizioni Sì, Cesena 2014). Perché se tutti, più o meno, in questo sciagurato paese siamo intuitivamente consapevoli del fatto che Giorgio Napolitano è (finora) il peggior presidente della repubblica che ci sia toccato in sorte, non tutti sanno esattamente perché lo è: ma Ugo M. Tassinari ce lo spiega, nei dettagli, con una dovizia di particolari esaustiva e al tempo stesso allarmante.

E lo fa con una lucidità e una spietatezza doppiamente apprezzabili, perché Tassinari proviene dal medesimo PCI di Napolitano — la forbice, nel tempo, si è divaricata come di più non si potrebbe —  ma non per questo esita a scavare per portare alla luce cose che certo non fanno onore alcuno al partito che fu (in un’altra èra) di Gramsci e di Togliatti, a certi suoi quadri, e al mondo “politico” italiano in generale. Scusate se è poco.

È lo stesso Ugo a svelarlo, raccontandoci del suo primo giovanile incontro, nel  1973, con l’allora responsabile nazionale della Cultura venuto ad «illustrare la linea» dopo la tragedia cilena dell’11 settembre di quell’anno. Vale la pena di riportare testualmente il lapidario resoconto del crollo di un’illusione — piccolo dramma personale, che per fortuna evitò a Ugo di finire, chissà, “grigio compagno del PCI” per farne, invece, un ottimo giornalista e un saggista ancora più ottimo (lo so benissimo che non si dice: mi prendo una licenza poetica perché il blog è mio):

Non ricordo un sola frase del lungo, gelido, raffinato ragionamento politico con cui il leader riformista, senza alcuna emozione, ci spiegò che la lezione del Cile era l’esatto opposto di quello che m’era sembrato di capire. Ma il messaggio mi fu chiarissimo. L’errore non era stato, cioè, la mancanza di durezza contro la borghesia compradora e gli apparati militari, ma la presunzione di poter fare da soli, da minoranza governante in regime democratico, senza piegarsi al ricatto dei potentati economici e militari. Contro le velleità avventuriste degli estremisti la via maestra era la politica dei piccoli(ssimi) passi. Pochi giorni dopo, su Rinascita, sarebbe uscito il primo dei tre articoli con cui Enrico Berlinguer lanciava la strategia del compromesso storico. (…)Uscii dalla riunione schiacciato, attonito. Il problema, per me, non era però, come dire, di contenuti ma di senso profondo delle cose e della vita. Nel mio estremismo infantile ero comunista per passione, per emozione, per voglia di fare.

Capii quel giorno che la politica era un’altra cosa, lontana mille anni luce dal mio modo di essere e di vedere. Fu triste e straziante, nei giorni successivi, spiegare ai miei amici che me ne andavo e resistere ai loro tentativi di convincermi a prendere tempo, a pensarci su, a non fare cazzate. Non litigammo neanche: come facevo a spiegargli che io non potevo riconoscermi in un leader di partito che non faceva una piega parlando di una immane tragedia, tutto preso dal ‘ragionamento politico’, impeccabile nella sua monotonìa, nel suo vestito di taglio inglese, nel suo aplomb.(…) ancora non ho finito di elaborare il lutto di quel trauma originario: l’assoluta inconciliabilità tra il mio sogno e la realtà.

Quarant’anni dopo Giorgio Napolitano è ancora lì, algido, impeccabile, assertivo, e con i suoi 88 anni da leader che ha incarnato un’idea della politica come immobilismo si sta trasformando nel corpo stesso (mummificato) del Potere.

Da qui, da questa constatazione che s’invera quotidianamente sotto i nostri occhi, prende le mosse un’indagine sottile e implacabile che svela i retroscena della permanenza inquietante di quest’uomo nei palazzi del potere, delle sue sorprendenti (per noi ingenui) liaisons dangereuses con massoneria, criminalità organizzata, Stati Uniti e poteri forti (passando attraverso personaggi non meno opachi come Berlusconi, Prodi, Monti e il loro entourage), e molto altro — che non anticipo altrimenti vi tolgo tutto il gusto.

Io l’ho letto d’un fiato, e alcuni capitoli li ho pure riletti; non pretendo altrettanto da nessuno ma insomma leggetelo, questo libro: una volta superato lo smarrimento, si potrà comprendere meglio il passato, valutare il presente e — chissà mai? — attrezzarsi per il futuro.

P.S. Grazie, Ugo, gran bel lavoro.


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