Ugo Maria Tassinari. Napolitano, il capo della banda…

È una questione di sangue. È una questione di cuore. È una questione di metabolismo. Quando s’invecchia ci s’acquieta, molti credono per saggezza, in realtà ci s’acquieta per stanchezza. È per questo che molti vecchi, soprattutto quelli che sono inaciditi con l’età ma non lo vogliono dare a vedere, sembrano saggi, rispondono con magniloquente lontananza, appaiono distaccati dall’alto del loro scranno. Sono pronti ad una magnanimità di superficie.

Del resto ce l’ha detto assai bene Fabrizio de Andrè “si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”. È per questo che i nostri Presidenti della Repubblica, alla testa della gerontocrazia italica, sembrano essere così saggi, così buoni, così senza macchia, così disinteressati.

Guardate Napolitano, guardate Scalfaro. Persino “nonno” Pertini nel suo infantilismo giocoso ci spinge a tenere considerazioni. È solo stanchezza del corpo. Quello che risuona intatto invece è l’ego spropositato, le intenzioni personalistiche, la fame di potere, la volontà di eternarsi, nascondendo le giovanili raccapriccianti esuberanze e gli scheletri negli armadi.

È forse per fare giustizia di tutto questo, mentre i più s’apprestano a limare, pronto per l’uso, il “coccodrillo” per il nostro attuale Presidente che, come una benedizione, arriva nelle librerie un saggio breve e caustico, ma non per questo meno vero, Napolitano. Il capo della banda per mano di Ugo Maria Tassinari (Edizioni Sì, 2014, euro 9,50 CLICCA QUI) che, con coraggio quasi temerario, se ne frega di tessere le lodi in vita di un candidato, dopo mummificazione, alla santificazione.

Il saggio già dal titolo porta la sua cifra e il suo destino. Solleverà un polverone di critiche e un vespaio di proteste. Già, perché l’epiteto di “capo della banda” non può impunemente essere affibbiato a un Presidente che, nei toni dei suoi interessati sodali (vecchi e nuovi), è descritto come il Salvatore della Patria, lo scudo inossidabile contro i rigurgiti populisti, la disgregazione nazionale e motore infaticabile e morale contro la politica immorale della nostra classe dirigente.

È con puntigliosa precisione che Tassinari smonta la parabola politica di Napolitano con l’intento di mostrarcelo così come mai la vulgata a lui favorevole l’ha descritto. Ne risulta un quadretto ben poco idilliaco, non certo da Padre delle Patria, né tantomeno da disinteressato salvatore della macilenta e sbrecciata Repubblica Italiana. Ma quello che più impressiona è la coerenza dimostrata da Napolitano in ogni passaggio della sua carriera politica che quasi mai ha battuto un colpo a vuoto e anche quando ha dovuto far buon viso a cattivo gioco si è poi subito rimessa in carreggiata curandosi soltanto, in estrema e semplicistica sintesi, del suo interesse primo: eternarsi per pura sete di potere, per volontà di espansione del suo ego, utilizzando tutti i mezzi a disposizione per restare sempre a galla e rilanciarsi.

Tassinari inanella una serie di circostanze che ci fanno capire di che pasta è fatto l’uomo e fino a che punto si è servito delle Istituzioni e delle sue buone frequentazioni per dispiegare, lungo il corso di tutta la vita, il suo disegno autoreferenziale. A partire dagli esordi, quando dai salotti monarchici e liberali, deciderà di iscriversi al Partito Comunista senza probabilmente, già da allora, condividerne l’ideologia: “Entrai nel Pci senza sapere molto di marxismo”.

Per passare agli anni che vanno dai fatti dell’Ungheria alla caduta del Muro di Berlino tutti giocati, sul fronte estero, nel tentativo di traghettare il partito e il paese nel campo della Nato, utilizzando il filo diretto che lo collegava a Kissinger e ai circoli a lui vicini, grazie forse, come viene solo ipotizzato, alla sua vicinanza alla Massoneria. Primo comunista ad essere invitato negli USA.

Sul fronte interno brigando per acquisire potere nei posti chiave del partito e cercando di accaparrarsi quelle poltrone istituzionali che gli avrebbero garantito un potere forte e duraturo. Tanto che il ciclone di Mani Pulite lo trova abbarbicato sullo scranno del Parlamento come Presidente della Camera. Ciclone che non lo scalfirà neanche un po’. Anche in questa occasione “non si lascia travolgere dagli eventi, opponendosi fermamente all’ipotesi di scioglimento anticipato del Parlamento degli inquisiti”.

Nel capitolo su Berlusconi poi il profilo tracciato è quanto mai ambiguo, se si ripensa a cosa fu capace di fare “nella gestione delle crisi di governo è emersa con assoluta chiarezza la capacità di Napolitano nello spingersi al limite delle sue competenze, operando precise scelte politiche”. Basti vedere con quale diverso approccio il Presidente abbia gestito la perdita della maggioranza da parte di Prodi (inverno 2006) e di Berlusconi (autunno 2010).

Mentre con Prodi senza alcuna remora sciolse le camere, con Berlusconi è stato capace di inventarsi una piroetta che è ancora oggi, in tutta la sua truculenza, sotto gli occhi di tutti. “Neanche le dimissioni di Berlusconi sotto le pressioni dell’Unione Europea e della drammatica crisi dello spread, che produce una nuova fuga dalla maggioranza, convince il Capo dello Stato a sciogliere le Camere. Napolitano tira dal cappello magico la soluzione del coniglio Monti, promosso senatore a vita e proiettato in pochi giorni al governo delle larghe intese”. Il tutto mascherato dietro il paravento della catastrofe imminente e sotto il cappello dell’unica cosa saggia da fare per il bene della Patria. Insomma cinica solenne ipocrisia di chi si sente autorizzato all’uso degli strumenti di potere, di cui il suo ruolo può beneficiare, estendendoli a proprio capriccio ben oltre i limiti istituzionali previsti.

La carrellata prosegue ed è lunga, seguiranno i giorni di Enrico Letta, suo pupillo. E infine tutta la querelle sulle intercettazioni e del suo veto, per non portare la sua testimonianza di fronte ai giudici antimafia. Un quadro non certo cristallino che Tassinari suggella nelle sue conclusioni, in cui ci ricorda l’amore di Napolitano per la Patria ed il suo bene, con una memoria del suo “coraggio” e di quella propensione all’opportunismo che lo caratterizzerà in tutta la sua vita.

“Chiudo questo libro il 25 Aprile 2014. Giorgio Napolitano sta celebrando a Roma la ricorrenza più importante della Repubblica. Sta parlando della guerra di Liberazione, durante la quale molti giovani persero la vita in nome della Libertà e della Democrazia. Giorgio Napolitano si guardò bene dal parteciparvi, in qualsivoglia modo. Si prese ‘un periodo di riflessione’, dopo la breve esperienza della Gioventù Universitaria Fascista cui aveva aderito, come peraltro la gran massa dei giovani studenti di allora. Con il 25 luglio 1943 (la caduta del regime) e il successivo 8 settembre, “qualcuno di noi (non io) prese subito contatto con il Partito comunista”, altri, “con i venti giorni di terrore nazista a Napoli” e “l’occupazione nazista del Nord, presero la via della Resistenza”… “Io deluso e confuso, mi misi da parte, mi presi un periodo di riflessione”. Stette a Capri, dove conobbe Curzio Malaparte. Poi, passata la tempesta e tornata la democrazia, nel 1945 si iscrisse al Pci. E’ lui stesso a raccontarlo, nella sua autobiografia, “Dal Pci al Socialismo europeo””.

Forse non è ancora il tempo dei giudizi. Certo è che il lettore depresso e deluso dalla palude in cui viviamo in questi giorni, non potrà certo riaversi dal suo umor nero. Avrà però materia solida, seppur acida, per riflettere sulle troppo facili santificazioni che tutti noi tendiamo, per un mai estinto desiderio di “lieto fine”, ad accettare bovinamente.

Mario Grossi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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