26 settembre 2006: liberata dopo 23 anni Silvia Baraldini

 

Il 26 settembre 2006, grazie all’indulto, dopo 16 anni di carcere speciale in America, 2 a Rebibbia e 5 di arresti domiciliari, è tornata libera Silvia Baraldini, militante comunista dell’Organizzazione 19 maggio, attivista per i  diritti umani degli afroamericani, condannata a 44 anni di carcere per associazione sovversiva, concorso in evasione, concorso in due tentate rapine, oltraggio alla corte (per essersi rifiutata di “infamare” i suoi compagni). In realtà nei suoi confronti fu applicata la legge Rico, la normativa contro la criminalità organizzata che permette di caricare su ciascun imputato i crimini della gang.

Una condanna enorme se si pensa che, come canta Francesco Guccini, “Silvia non ha mai ucciso e non ha mai rubato niente“. Anche se, in effetti, ha partecipato a rapine per finanziare una rete militante di sostegno alla lotta di liberazione del popolo afroamericano…

Quella che segue è la prima intervista che ha potuto rilasciare nel 1992 a Famiglia cristiana.

Per la prima volta il governo degli Stati Uniti ha concesso un colloquio con Silvia Baraldini, condannata a 43 anni per terrorismo

Franca Zambonini
Famiglia Cristiana n.46
18 novembre 1992

I capelli sono tutti grigi, tagliati corti. Gli occhi celeste chiaro guardano dritto. Il parlare è preciso e non emotivo, con punte di ironia e perfino qualche risata che libera dalla tensione. Nelle cinque ore passate con lei, Silvia Baraldini mi è parsa nel complesso serena per essere una donna di 44 anni condannata dalla giustizia americana a 43 anni di carcere.

Ne ha già scontati dieci in varie prigioni degli Stati Uniti. Adesso è detenuta nell’unità di massima sicurezza della Federal Correction Institution. La prigione federale di Marianna, Florida.

Questa è la prima intervista che le è stato concesso di rilasciare. Né io né Silvia sappiamo spiegarci perché. Forse, ma è solo una mia ipotesi, il permesso d’incontrarci rappresenta un minuscolo gesto di comprensione dopo che a Silvia è arrivata, proprio in questi giorni, l’ultima botta. Le autorità americane hanno respinto per la seconda volta la richiesta delle autorità italiane di estradarla per farle scontare il resto della pena in un carcere nostrano. Eppure in suo favore erano intervenuti negli anni Cossiga, Andreotti, De Michelis, Martelli, dall’alto dei loro incarichi pubblici. Niente da fare.

“Ma no, non è stata questa gran botta. Me l’aspettavo. Il trauma vero l’ho avuto quando mi hanno negato l’estradizione la prima volta, il 20 dicembre del 1990. Comincia a prepararti per il ritorno, mi scrivevano i miei amici dall’ Italia. Quel “no” inatteso è stato uno choc duro da assorbire”.

L’estradizione era stata chiesta in base alla Convenzione di Strasburgo, che concede a un condannato in un altro Paese di scontare la pena in un carcere del Paese d’origine. Perché nel suo caso gli americani hanno detto no, pur avendo sottoscritto la Convenzione?

“Ho molti dubbi sul comportamento delle autorità italiane. Il periodo in cui fu avanzata la richiesta coincideva con lo scandalo della filiale di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro, che aveva prestato miliardi a Saddam Hussein. Adesso i giornali rivelano che alcuni politici italiani fecero pressioni presso l’allora ministro della Giustizia Richard Thornburg affinché il ruolo dei funzionari italiani della Bnl in quella vicenda venisse ignorato o non sottolineato. La mia idea è che gli italiani non hanno voluto imporsi con due interventi contemporanei: uno, molto delicato, a favore della Bnl e uno, molto sgradevole, a favore di una persona scomoda come me, cittadina italiana condannata in America per atti di terrorismo”.

Il rifiuto è stato motivato dal viceministro della Giustizia Robert S. Mueller dal “nostro timore che, nel caso tornasse in Italia, la Baraldini sconterebbe una pena sostanzialmente minore di quella comminatale negli Stati Uniti. Tale eventualità sarebbe per noi inaccettabile per i seguenti motivi:

  1. L’estrema gravità dei reati di cui si è resa responsabile;
  2. Il suo protratto rifiuto a collaborare;
  3. L’assenza di pentimento;
  4. il nostro convincimento che, in caso venisse posta in libertà, la Baraldini tornerebbe a svolgere attività delittuose pregiudizievoli per gli Stati Uniti”.

Silvia ha la sua spiegazione: “Dovevo collaborare con l’ Fbi, questo è il punto vero. Quando sono stata arrestata, il 9 novembre del 1982, gli agenti della squadra antiterrorismo dell’Fbi mi hanno offerto 25 mila dollari (in lire, 30 milioni, ndr) per denunciare i compagni. Nel settembre dell’ 85 sono tornati alla carica. Questa volta mi offrivano la libertà. Ho detto di no. Non si sono fatti più vivi. Forse aspettano un mio segnale. Ma per loro non ne ho. Non potrò mai scambiare la mia vita con quella degli altri”.

Non ha mai ucciso nessuno, né sparato contro nessuno. È stata condannata a 40 anni per “cospirazione” in base alla legge “Rico”. Più altri tre anni per “sprezzo contro la Corte”. “Rico” è la sigla di Racketeering Influenced and Corrupt Organization Act. La legge promulgata per colpire la mafia e la criminalità organizzata. Chi fa parte di un’associazione per delinquere diventa automaticamente corresponsabile dei suoi reati più gravi. La “Rico” è stata estesa ai movimenti terroristici.

“Io non sono una terrorista, ma una prigioniera politica. In pratica mi sono stati imputati solo due reati concreti. La partecipazione all’evasione della rivoluzionaria nera Joanne Chesimard, che è scappata a Cuba. Un tentativo di rapina che non è mai successa. Il resto me lo hanno addossato con la legge “Rico”. Hanno paura che se vengo estradata in Italia sarò scarcerata molto presto? Io non l’ho mai pensato. Non vedo in Italia tutte queste scarcerazioni. E temono che se per assurdo tornassi in libertà potrei rappresentare un pericolo per l’America? Ma andiamo, è assolutamente ridicolo che il Paese più potente del mondo abbia paura della povera Baraldini”.

Allora, perché vuol venire a scontare la pena in Italia?

“Dopo la morte di mia sorella Marina, mia madre è rimasta sola, voglio esserle vicina anche se in prigione. E poi perché credo che qualsiasi carcere italiano sia meglio di quelli americani, che sono efficienti, pulitissimi, organizzatissimi, ma ignorano i bisogni delle persone detenute”.

Rassegnata?

“No, per favore, non voglio usare questa parola. Ho vissuto finora con la speranza di essere estradata. Quindi con un piede emotivo in Italia e l’altro reale negli Stati Uniti. Ma ora la realtà è che sono in una prigione americana e ci resterò a lungo.

Questa certezza mi aiuta a darmi uno scopo qui in carcere. Non è questione di resistere. Il 9 novembre finiscono i miei primi dieci anni di detenzione, ne ho passate di peggio e ho dimostrato di saper resistere. Non è neanche questione di sopravvivere al regime carcerario, ma di viverci. Mi sono riorganizzata su questa base. Ho ripreso a studiare per quella laurea in storia che non avevo mai preso”.

Nell’inferno di Lexington

“La mattina lavoro alla biblioteca legale del carcere. Aiuto le altre detenute a scrivere ai giudici, agli avvocati. Poi faccio esercizio fisico, voglio tenermi in forma. Siccome sono la nona nella graduatoria di anzianità carceraria ho ottenuto il privilegio di una cella singola. Questo è un carcere di massima sicurezza, cioè con un livello molto sofisticato di custodia, altoparlanti in cella e il controllo di ogni conversazione, e anche piccoli trasferimenti per una visita sanitaria esigono le manette e la cosiddetta “scatola nera” che non ti permette di muovere le mani… Ma insomma, una come me che ha passato 19 mesi nell’inferno di Lexington qui respira”.

L’inferno di Lexington. Un carcere sotterraneo, sofisticatamente persecutorio inventato per tre detenute irreducibili e la Baraldini era una delle tre: isolamento totale, luci sempre accese, oltraggiose perquisizioni, bagni senza porte, e per tre mesi di fila la tortura della sveglia notturna ogni venti minuti. Con un trattamento simile, noi che eravamo tutte e tre persone adattabili e perfino allegre, ci comportavamo come belve feroci”. Dopo una campagna di denuncia da parte di Amnesty International contro il carcere di Lexington, definito la vergogna di un Paese civile, gli Stati Uniti sono stati costretti a chiuderlo.

A Lexington Silvia si è ammalata di cancro. Attribuisce la malattia a una somatizzazione delle torture psicologiche. È stata trasferita a Rochester e operata due volte, le hanno tolto l’utero. Poi è stata mandata a Marianna.

Marianna, nel Nord della Florida, sorge ai lati della Statale 90. Una cittadina incredibilmente lunga e stretta, sparsa qua e là, due miglia separano la Chiesa Battista dell’Est dalla Chiesa Battista dell’Ovest, il tribunale è distante tre miglia dalla posta, dall’unico motel alla prigione corrono cinque miglia.

Questo nonsenso geografico è stato fondato da uno scozzese di cui non si ricorda il nome, mentre si ricorda quello della moglie: Marianna, appunto. È in mezzo a foreste e acquitrini, i grandi alberi hanno quelle lunghe barbe pendenti che si vedono in tutte le foto della Florida, fa molto caldo e umido, un tempo era il regno degli indiani Seminole, e Seminole si chiama il grande lago. Attira cacciatori e pescatori, produce cocomeri, meloni e zucche venduti in capanne ai lati della strada. Ha una sola industria, la Federal Correction Institution, la prigione federale, molto moderna, costruita nell’88, sparsa anch’essa per miglia su una pianura ondulata e rapata di ogni vegetazione che non sia l’erbetta.

L’Unità femminile di massima sicurezza è a un paio di miglia dall’ingresso centrale, isolata rispetto agli altri edifici. Il mio arrivo è stato preceduto da un lungo carteggio col Dipartimento di Giustizia: mi sono impegnata a studiare le otto pagine del regolamento federale sui rapporti carcerari con la stampa, ad assumermi le eventuali conseguenze dei rischi connessi ad una visita alla prigione, a non introdurre né armi né droga, si capisce, ma neppure soldi, o libri o fogli di carta, a non rivolgere la parola a nessun’altra detenuta che non fosse la Baraldini.

Quando mi presento, alle otto e mezzo di un mattino caldo e nebbioso, le formalità sono tutte gentilmente facilitate. Nessuna perquisizione, borsa, giornali e giacca in un armadietto di cui tengo la chiave, posso portare in mano il registratore, la macchina fotografica e il fazzoletto. Mi stampano sulla mano sinistra un marchio con inchiostro invisibile. Io non lo vedo, ma lo vedono gli occhietti elettronici che mi seguono localizzando ogni mio movimento; una detenuta potrebbe impadronirsi dei miei vestiti per tentare la fuga, ma non di quel mio marchio invisibile senza il quale non farebbe un passo.

Silvia m’è venuta incontro nella stanzetta separata del parlatorio, insieme con la guardiana che assisterà al nostro colloquio. Indossa una maglietta bianca sui jeans, una maglietta “militante” contro l’Aids, con le parole: “Ignoranza uguale Paura, Silenzio uguale Morte”. è un po’ ingrassata rispetto alle sue ultime foto.

“Sì, sto bene. Ho il senso dell’umorismo, mi adatto, riesco a mangiare perfino quel cibo indescrivibile che passano nelle carceri americane”.

Non ha pena per la sua giovinezza sprecata, gli anni migliori buttati via?

“Accetto le conseguenze delle decisioni che ho preso. Non puoi tirarti indietro se scopri che le cose sono più dure di come te le figuravi. E poi in prigione ti inventi una vita che ha valori e significato. Vorrei convincere la gente che non sono una vittima delle circostanze, ma una responsabile delle mie scelte. Anche nei periodi più duri, quando ero rabbiosa e malata, ho cercato il lato positivo. Manca la libertà, che è fondamentale. Ma ho interessi, amicizie.

A Lexington vincemmo la battaglia contro quel carcere disumano, che non poteva continuare ad esistere per essere usato contro altri dopo di noi. Oggi la maggior parte di noi detenute politiche ci occupiamo di migliorare le condizioni in carcere, abbiamo la capacità organizzativa imparata nei movimenti, i nostri contatti e gruppi di opinione ci danno risorse che possono essere utili alle altre. Qui per esempio, facciamo lavoro di informazione sull’Aids per le detenute: l’ottanta per cento sono condannate per reati di droga. L’Aids è l’epidemia delle carceri americane, una tragedia ignorata dalle autorità”.

“Una brava ragazza con idee sbagliate”

Sua madre Maria Dolores, che vive a Roma, ha detto di lei: “Silvia è una brava ragazza, sono le sue idee ad essere sbagliate”. Riferisco il giudizio e Silvia ha una di quelle risate così sorprendenti dentro queste mura sinistre tinte di bianco accecante “Con mia madre ho un rapporto franco e aperto. La mia detenzione ci ha forzate a parlarci in maniera brutalmente onesta. Per lei e per la mia povera sorella Marina dev’essere stato un gran passo, molto sofferto, quando hanno deciso di appoggiarmi”.

Le sorelle Baraldini, nate a Roma, raggiunsero i genitori negli Stati Uniti quando Silvia aveva 14 anni e Marina 10. Il padre, Michele, era prima dipendente dell’Olivetti a New York, poi impiegato all’ambasciata italiana a Washington (è morto di infarto nel ’68). “In America ci sentimmo subito due spaesate. Marina, soprattutto, non si è mai abituata; finita l’università è tornata in Europa, a 22 anni. Era una ragazza particolarmente intelligente e delicata, ha trovato subito lavoro, prima al Parlamento europeo e poi alla Cee”.

Le due ragazze volevano cambiare il mondo, anche se attraverso strade opposte. La vicenda di Marina, che in Italia aveva smosso l’opinione pubblica in favore della sorella, è tragicamente finita nel 1988. L’aereo su cui viaggiava come capo della missione europea di aiuto ai Paesi del Sahel, è esploso sulla Nigeria, forse per una bomba. Silvia piange ricordando la sorella: “Specialmente negli ultimi tempi avevamo imparato ad appoggiarci a vicenda. Mi sconvolge il pensiero che, se mai tornerò in Italia, non la troverò più”.

Il primo incontro di Silvia con la politica risale al suo ultimo anno di liceo quando entrò a far parte di un gruppo studentesco che appoggiava la protesta per i diritti civili dei neri. Poi si iscrisse all’università statale del Wisconsin, la più impegnata degli Stati Uniti, dove uno sciopero contro la partecipazione americana alla guerra del Vietnam raccoglieva diecimila studenti e durava un mese. Era il leggendario Sessantotto, così esaltante e così infido.

“Io mi trovai molto naturalmente nel cuore del dissenso giovanile. Ho lasciato l’università nel ’70, per impegnarmi a tempo pieno nel movimento di protesta. Parlavo nelle chiese a favore dei diritti dei neri, sono entrata nel comitato di difesa politica di una ventina di Pantere Nere coinvolte in un processo. Infine ho fatto parte del movimento comunista “19 Maggio”, che si ispirava a Malcolm X il rivoluzionario nero. L’accusa contro di me è di essere passata da un appoggio verbale a fatti rivoluzionari”.

È vero?

“Questo non l’ho mai detto e non lo dico adesso, perché la mia risposta coinvolgerebbe altre persone. Non posso anteporre il mio benessere a quello di altri. La posizione mia e dei compagni è sempre stata una responsabilità politica collettiva ma non una confessione individuale. D’accordo i tempi sono cambiati. Ma ha ragione Renato Curcio quando sostiene che occorre una soluzione collettiva alla tragedia di quegli anni. Riconosco i cambiamenti enormi del decennio, però preferisco finire la mia condanna, anche se singolarmente ingiusta e persecutoria, piuttosto che compromettere altri compagni”.

Si definirebbe un’irriducibile?

“No, questa parola ha un significato politico col quale non sono d’accordo. Anche se le mie idee in molte cose sono cambiate, non posso usare questi cambiamenti per giustificare un pentimentismo che mi porterebbe a collaborare. La pago cara, ma non sono l’unica”.

Come vede il futuro?

“Resterò in prigione fino al 2011, con gli sconti per il lavoro e la buona condotta. E a quel punto, finalmente, mi butteranno fuori dagli Stati Uniti e tornerò in Italia”.

Di che cosa ha paura?

“Mi è successo tanto di tutto che il mio concetto della paura è cambiato. In prigione ho imparato a non reagire immediatamente, ma prima a respirare a fondo, poi aspettare un giorno o due poi valutare le possibilità, e infine scegliere la decisione migliore. Così ho meno paura. Credo sia una buona regola anche per chi sta fuori”.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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