16.9.1866: rivolta del Sette e mezzo o la Comune di Palermo
Il 16 settembre 1866 Palermo insorge. E’ la rivolta del Sette e mezzo. I giorni dell’insurrezione. Finì schiacciata dalle cannonate della flotta reduce da Lissa. E’ una rivolta di popolo. Parte dalle campagne ma è diretta da capi artigiani e da leader della sinistra socialista. Anticipa la Comune di Parigi di 5 anni. Non si sanno esattamente i morti della brutale repressione perché subito dopo si scatenò il colera. Ma a dare la misura della durezza degli scontri aiutano i duecento militari morti …
16 settembre 1866, l’insurrezione
Palermo insorge contro lo Stato d’Italia. Lo Stato della Torino sabauda. Cinque anni prima che la Comune di Parigi insorga contro lo Stato di Versailles. D’altronde, la primavera dei popoli del 1848, le rivoluzioni europee che scoppiarono contro le monarchie della Restaurazione, erano iniziate a Palermo il 12 gennaio. La Polonia, l’Ungheria, la Francia e la Prussia verranno dopo.
Palermo è fiera della sua storia di insurrezioni.
Le speranze del 1860 sono andate deluse. I proclami della dittatura garibaldina – «Noi siamo con voi, e non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra» – sono ormai echi nel vento. Sono tornati gattopardi e cappelli a comandare, a arricchirsi. Anche delle terre confiscate alla Chiesa. Lo Stato d’Italia, con l’aumento dell’esazione fiscale e il corso forzoso dei biglietti di banca che ha fatto lievitare i prezzi, ha imposto anche la coscrizione obbligatoria. Le braccia più forti sono sottratte al lavoro.
C’è una nuova guerra, e i generaloni d’Italia hanno già saputo perdere a Custoza e Lissa. Serve carne da cannone. Cresce la renitenza alla leva, ci si rifugia nelle campagne. Lo Stato ha risposto con la guerra al brigantaggio, mandando eserciti di piemontesi. E gli editti comunali si preoccupano del “decoro”. Che non si dovesse ingombrare la via con utensili, o cucinare sulla strada o stender panni (…)
L’assalto di centinaia di contadini
All’alba del 16, centinaia di contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell’impresa garibaldina, assalirono la città. In un niente, Palermo insorse. Ai contadini si era aggiunto il popolo minuto, artigiani dei mestieri, operai, donne, scatenando una rivolta che parse indomabile. Presero il Palazzo di Città, costruirono barricate, assaltarono Poste e Delegazioni di Polizia.
Più volte si tentò l’assalto all’Ucciardone. Ai repubblicani, che avevano scatenato la rivolta – riuscendo dove avevano fallito l’anno precedente – si unirono preti e monache, frati e suorine: i conventi e i campanili divennero luoghi dei rivoltosi o dove si curavano i feriti. Come in ogni rivolta di popolo, interessi diversi, e a volte distanti, si unirono. Viva la Repubblica, si gridò. Viva Santa Rosalia, si gridò. Il Sindaco, la Giunta, generali e benestanti, aristocratici e borghesi fuggirono verso il Palazzo Reale, asserragliandosi e a un certo punto ipotizzando una resa e una trattativa, da dove chiesero rinforzi, l’intervento della Marina e del regio esercito.
La rappresaglia terribile dei piemontesi
Arrivarono le navi, e bombardarono a mitraglia e polvere, compiendo stragi e sventrando la città. Sbarcarono i soldati, ma vennero respinti, più volte. Per sette giorni, Palermo resistette. Poi, arrivarono altre navi e vomitarono migliaia e migliaia di militari. Palermo capitolò. La repressione fu brutale: bisognava punire chi aveva osato ribellarsi, cancellarne perfino la memoria. I generali italiani, proprio come quelli francesi che saranno battuti dai Prussiani, perdono le loro guerre ma si rifanno contro le proprie popolazioni, mostrando la faccia feroce. L’Italia era questa cosa qui. Rimarrà così.
L’insurrezione del 1866 non ha più i caratteri delle rivoluzioni nazionali: la Nascita della Nazione, l’Italia, è già accaduta. E non ha ancora i caratteri delle rivoluzioni sociali. E non perché la sua economia del capitale fosse “arretrata”; i Fasci siciliani, con le loro Leghe, le Camere del Lavoro, le lotte per un giusto salario e la distribuzione delle terre, la costruzione, insomma, del socialismo e del movimento operaio – un’indicazione che verrà da qui: la Sicilia è fiera delle sue battaglie per la democrazia e il lavoro – è ancora da venire.
Un’insurrezione di popolo contro lo Stato
In questo tempo tra il “non più” e il “non ancora” scoppia il 1866. Che non è più una rivoluzione dell’Ottocento e non è ancora una battaglia del Novecento. È una rivoluzione “urbana” – Palermo è una metropoli europea – ma dove la campagna, il “rurale”, la Provincia, hanno un ruolo determinante. È, insomma, un’insurrezione di popolo – proprio come sarà la Comune di Parigi – contro lo Stato, e la forma propria che esso ha assunto, e che segnerà i destini dell’Italia: accantonato ogni progetto regionalista e federativo, di una lunga tradizione di pensiero, e repubblicano e cattolico, l’Italia s’è data una forma centralizzata riproponendo ovunque il “modello piemontese” assolutista dello Stato sabaudo: la Sicilia sarà sempre come un “territorio d’oltremare” – «i Regi dominii al di là del Faro» – da riconquistare e ricondurre all’ordine; ogni rivolta sarà malandrina e brigantesca contro la legalità della proprietà e dello Stato.
Il 1866 di Palermo non vara nuove Costituzioni, non proclama nuovi assetti istituzionali, non declama nuove libertà. Non ha poeti, non ha cantori, non ha fotografi, non ha pittori. Il 1866 prende e toglie. Prende le ricchezze dove sa che sono accumulate, e le distribuisce. Toglie denari, vestiti, medicine, armi e cibarie, e le distribuisce. Il comando della rivolta e della resistenza è nelle mani dei rappresentanti delle corporazioni di arti mestieri e capi-squadra – spesso uomini del 1860, quando non del 1848. Essi sanno cos’è l’organizzazione, sanno come si fa un’insurrezione.
Per sette giorni, uomini e donne e ragazzi, organizzano le barricate, si danno i cambi, si allertano, respingono i tentativi dell’esercito italiano, portano i dispacci da un capo all’altro della città, si curano le ferite, cucinano e mangiano, tra processioni, urla, suoni di banda e di fucile. Sparano. Sperano che altrove scoppino insurrezioni, in Sicilia, in Italia. Resteranno soli. Soli contro tutto lo Stato d’Italia.
FONTE: ANTUDO/LANFRANCO CAMINITI
La mostra sulla Comune di Palermo
Le cause
La crescente miseria della popolazione, il colera e le sue 3 977 vittime in città e circondario[9], l’integralismo dei funzionari statali (con un eccesso di miopia era anche stata abolita la ricorrenza del 4 settembre di Santa Rosalia, protettrice di Palermo), le pesanti misure poliziesche e i vessatori balzelli introdotti.
«I funzionari, per lo più settentrionali… consideravano spesso le popolazioni affidate alle loro cure come non ancora pervenute al loro stesso grado di civiltà, come barbari o semibarbari… Questo estremo disprezzo, intollerabile per un popolo d’antica civiltà come quello siciliano, unitamente a molte altre cause tra cui, non secondarie, la crescente miseria, l’introduzione di misure poliziesche inutilmente vessatorie e di nuovi e gravosi balzelli, provocava l’impossibile: l’alleanza tattica dei gruppi filoborbonici con i circoli del radicalismo democratico, cioè l’ala oltranzista del vecchio partito filo-garibaldino, e di questi due con gli autonomisti e gli indipendentisti, componenti politiche quest’ultime perennemente presenti nella storia dell’isola.[10]»
(Paolo Alatri)
La rivolta
Insorsero migliaia di persone, anche armate e provenienti dai paesi vicini. All’alba del 16 settembre la città risultava essere invasa dalle bande provenienti dalle contrade circostanti, comandate da Salvatore Nobile, implicato nel processo a Giuseppe Badia (1824-1888), comandante garibaldino succeduto a Giovanni Corrao dopo il suo assassinio ad opera della mafia alla testa del gruppo radicale-internazionalista e dal monrealese Salvatore Miceli, già comandante di gruppi volontari (i picciotti) nelle sommosse del 1848 e nel 1860. Questi era appena uscito dal carcere grazie all’intervento del questore Pinna, da alcuni accusato di fiancheggiare, in modo discreto, i rivoltosi. Alcune delle loro bande si unirono a quelle cittadine e assieme ebbero ragione dei vari presidi governativi grazie alle armi già trovate in alcuni magazzini mentre altre bande incendiavano i registri della leva.
La leadership
Quasi 4.000 rivoltosi assalirono prefettura e questura, uccidendo l’ispettore generale del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza. La città restò in mano agli insorti e la rivolta si estese nei giorni seguenti anche nei paesi limitrofi, come Monreale, Altofonte e Misilmeri: fu stimato che in totale gli insorti armati fossero circa 35.000 in provincia di Palermo. Il 18 settembre, a Palermo, si costituisce il Comitato rivoluzionario al quale aderiscono anche alcuni siciliani dell’aristocrazia (…). Segretario del Comitato divenne il mazziniano (e futuro bakuninista) Francesco Bonafede[15] che fu, secondo alcuni, “il capo effettivo e l’autore dei proclami”
La reazione governativa
Il governo italiano decise di adottare contro il popolo palermitano una dura repressione, mobilitando l’esercito comandato da Raffaele Cadorna. Il 27 settembre 1866 venne dichiarato lo stato di assedio, e le navi della Regia Marina, con la nave ammiraglia Re di Portogallo, bombardarono la città (così come avevano fatto i borbonici nel 1860). Dopo lo sbarco dei fanti della “Real Marina” Palermo fu riconquistata da circa 40.000 soldati in sette giorni e mezzo.
Oltre 200 furono i militari morti, tra cui 42 carabinieri; non vi è un numero ufficiale di vittime civili nella popolazione, anche perché immediatamente dopo si diffuse il colera. Furono arrestati 2.427 civili, 297 furono processati e 127 condannati.[18] La repressione venne testimoniata solo dai ricordi delle vittime e da una rara lettera, quella dell’ufficiale dei granatieri Antonio Cattaneo, riportata dallo storico Francesco Brancato che dice testualmente: «Qualche vendetta la facemmo anche noi, fucilando quanti ci capitavano; anzi, il giorno 23, condotti fuori porta circa 80 arrestati con le armi alle mani il giorno prima, si posero in un fosso e ci si fece tanto fuoco addosso finché bastò per ucciderli tutti. In una chiesa, un ufficiale visto due frati che suonavano a stormo li fucilò con le corde in mano…».
I documenti ufficiali dei tribunali militari furono probabilmente distrutti dai bombardamenti di Palermo durante la seconda guerra mondiale.
«Dei 127 imputati dichiarati colpevoli dai tribunali militari quasi tutti avevano un’occupazione nel settore artigianale o commerciale o nei servizi: osti, carrettieri, facchini, garzoni, fruttivendoli, panettieri, macellai e barbieri. Nella lista dei condannati c’erano anche commercianti, agricoltori, falegnami, sarti, conciatori, fabbri, cordai, carpentieri e muratori… ma anche sette poliziotti o soldati, una guardia campestre e altri sette ufficiali di basso rango. I tribunali comminarono pure 8 condanne a morte, 48 ergastoli, 17 condanne ai lavori forzati, disciolsero i conventi e 256 frati furono spediti al confino. Ma le cause della rivolta restarono irrisolte ed appena un anno ed un mese dopo, il 21 ottobre del 1867, sul Monte Pellegrino, in modo che fosse visibile a tutta la città e dal mare, venne issata da ignoti un enorme bandiera rossa.»
(Paolo Alatri)
FONTE: WIKIPEDIA
Lascia un commento