17 febbraio 77. La cacciata di Lama. Tre testimonianze

cacciata di lama

L’accanito dibattito tra violenza di massa e violenza d’avanguardia ha attraversato appassionatamente l’intero “decennio rosso”, dal 1 marzo ’68 al 16 marzo ’78. Un tema che diventa centrale in tutte le assemblee del ’77 e trova le sue date simbolo nel 17 febbraio (la cacciata di Lama dalla Sapienza) e nel 12 marzo (il corteo insurrezionale). Allo showdown con Pci e sindacato abbiamo dedicato ampio spazio (vedi in fondo). Perciò oggi ricorriamo ancora una volta al formidabile lavoro di Claudio Del Bello per il ventennale “Una sparatoria tranquilla”. Estrapolando le riflessioni e i racconti di due protagonisti e di un convitato di pietra…

Vincenzo Miliucci (Volsci)

Ma anche adesso, a vent’anni di distanza, uno si domanda: “Ma perché Lama doveva venire all’Università come se dovesse liberarla dalla peste, a bonificare, a disinfettare”… Era un movimento delimitato, un movimento studentesco… viene in mente l’episodio dello scorso dicembre ’96, quando i fascistelli occupano l’aula Galasso di Giurisprudenza con il beneplacito di quel… del preside… dando la possibilità ai compagni di riorganizzarsi, rintuzzare la provocazione e liberare l’Università nella notte del 14 dicembre… S’innesca una piccola forma di movimento, però a nessun Cofferati della situazione viene in testa di andare a liberare l’Università dalla presenza dei compagni… e invece allora venne organizzata quella provocazione… Allora ero delegato di reparto dell’ENEL… il 15 febbraio, tutti i quadri sindacali hanno il permesso sindacale garantito per andare all’Università, messi in libertà dalle aziende per andare a sostenere Lama…

La telecronaca

D – Ho sempre sentito dire che Lama fosse andato all’Università con un enorme servizio d’ordine, tale comunque da non poter essere spazzato via con facilità… e che i compagni non fossero molti.

Lama si portò appresso circa duemila persone… in permesso sindacale e funzionari della C.G.I.L., in più il servizio d’ordine della F.G.C.I. e del P.C.I…. Ricorda che nelle vicinanze dell’Università, a via dei Frentani, c’era la Federazione del Partito comunista… Dall’altra parte noi quanti potevamo essere?… Un centinaio di delegati operai e dei lavoratori delle aziende di Roma che vennero anch’essi in permesso sindacale, ma per schierarsi con la massa degli studenti. La piazza della Minerva era piena… Loro arrivarono alle sei della mattina e si misero ai cancelli per non far entrare nessuno… una vera e propria operazione poliziesca…

D -… ma appunto, la cacciata di Lama, da un punto di vista militare, di forze in campo e di dislocazione, non doveva accadere…

Erano stupidi… venivano a cacciare chi stava a casa sua… con quale pretesa?… Senza contare il tam tam che fece affluire tantissimi compagni… Ci fronteggiavamo lungo la diagonale che puoi tracciare dallo spigolo di Fisica allo spigolo di Lettere… su quella diagonale si fronteggiavano i due cordoni di servizio d’ordine… mentre Lama sparava le sue minacce a 20000 Watt da un camioncino, si fronteggiavano e ondeggiavano… Ci fu uno sciocco servitore del servizio d’ordine del P.C.I. di via dei Frentani… un certo Ughetto, un becalino che aveva per occhiali due fondi di bottiglia, che brandiva un estintore enorme e stupidamente cominciò a scaricarlo sugli studenti…

E quello fu il segnale per mandarli affanculo definitivamente… da una parte il servizio d’ordine, dall’altra gli Indiani metropolitani che stavano radunati sulla scalinata verso la biblioteca… avevano fabbricato un pupazzo con un cartello su cui avevano scritto “Nessuno Lama”… un bel messaggio, che fece il giro del mondo mediatico. Fu cacciato a spintoni, rincorso verso l’uscita di viale Regina Elena: un filmato lo riproduce sconvolto, sudaticcio, ansimante, preoccupato di finire catturato, lui, capo delle “giubbe blu”, dagli Indiani-autonomi. I sindacalisti “occupanti” vennero disarmati e sbattuti fuori a calci. Ma i compagni se la presero essenzialmente con le sponde e la carrozzeria del camioncino-palco. Il “Dodge rosso”, simbolo della Camera del lavoro di Roma il cui segretario del ’77, Bruno Vettraino, in una recente confessione a “la Repubblica”, racconta i retroscena che portarono le Botteghe oscure nelle persone di Pecchioli (…) Chiaromonte e Pajetta a decidere di bruciare Lama pur di dare una lezione agli studenti; Veltroni e Asor Rosa contribuirono all’operazione – il libello asorrosiano sulle “Due società” era finalizzato alla demolizione del movimento, di qualsiasi istanza si opponesse al compromesso storico.

Alla cacciata di Lama poi segue il tentativo da parte della polizia, non essendo stata sufficiente la prova dell’imbonitore ufficiale del sistema. Erano già presenti all’entrata principale, e cominciarono a sparare… Fino a quando i compagni trovano i sampietrini e altro materiale, resistono… poi se ne vanno per non essere arrestati. Questa fu la giornata del 17 di febbraio che Rossana Rossanda bollò come “giovedì nero”… il “manifesto“, la parte storica del “manifesto”, cioè Pintor, Rossanda e Parlato, si schierò completamente dalla parte di Lama e della C.G.I.L…. non ebbero un sussulto, non foss’altro per dovere di cronaca…

Raul Mordenti (Gli undici)

Non sarai la “destra” ma certo sei molto netto nella demarcazione da tutto il resto, da tutti i comportamenti, anche nei confronti di quelli del 12 marzo. Facciamo un passo indietro, torniamo al 17 febbraio. Lama… Su Lama la sinistra si divise, anzi si lacerò. Che posizione prendesti allora? Che ne pensi adesso, anche alla luce della crisi del sindacato?

Confesso di avere vissuto la mattinata di Lama come una delle più tragiche e disperate della mia vita – forse questo è davvero un mio tratto “di destra”, perché so di altri compagni che ricordano quel giorno come un giorno felice… ma il fatto personale conta davvero poco. Conta invece molto il significato politico di quella vera e propria provocazione: nel buon vecchio linguaggio del movimento operaio – che troppo facilmente abbiamo abbandonato – non c’è altra

parola che ‘provocazione’ per definire la decisione di intervenire dentro un’Università occupata, senza cercare il consenso degli occupanti ed anzi negando loro perfino il diritto di parola, preceduti

da una serie di articoli che invocavano lo sgombero dell’occupazione e accompagnati da un servizio d’ordine arrogante quanto nervoso ed impreparato. Mi è di qualche conforto che, almeno a vent’anni di distanza, il carattere provocatorio di quell’iniziativa sia emerso con chiarezza praticamente in tutte le ricostruzioni… Certo, se si voleva determinare una frattura il più possibile profonda fra i nuovi soggetti sociali che si esprimevano nel Movimento del ’77 e il grosso della classe operaia organizzata sindacalmente, allora quella scelta di Lama (o meglio del P.C.I. per lui) non fu una scelta sbagliata; intendo dire che ci fu probabilmente chi nel gruppo dirigente del P.C.I. di allora scelse di sospingere il Movimento in una posizione estremista per limitarne il “contagio” e rafforzare la politica di consociazione e di “sacrifici” che allora si inaugurava.

Ma appare oggi chiaro il carattere miope e suicida di una tale scelta: penso si possa dire che la fine del sindacato italiano e della sua positiva “anomalia” sia rappresentata simbolicamente da quella giornata. Finisce lì il sindacato dei Consigli di fabbrica – “mucchietti di cenere” ebbe a definirli lo stesso Lama – il sindacato della F.L.M., della lotta sociale alla nocività e agli infortuni, delle “150 ore”, il sindacato che si poneva come interlocutore politico inevitabile e privilegiato del conflitto, come possibile asse di unificazione sociale (anche se non ancora politica) del fronte anticapitalista diffuso.

Se quel sindacalismo muore lì, di converso nasce allora da lì anche il decennio di Craxi, la sconfitta sulla scala mobile, la rinunzia ad organizzare conflitto, sostituendo sempre più – in un vorticoso circolo vizioso che si autoalimenta – la perdita del consenso sociale con il rafforzamento del ruolo istituzionale del sindacato stesso, fino all’affermazione, nei fatti, del modello cislino, di un sindacato consociativo, guardiano della “politica dei redditi” e organo dello Stato, che oggi è di fronte a noi. Forse la storia del movimento operaio si può fare anche con i “se”, perché essa ripropone periodicamente delle scelte di fondo.

Ebbene pensiamo che cosa sarebbero stati gli anni settanta se di fronte al ’68 la scelta del P.C.I. fosse stata, invece della famosa iniziativa di Longo, un bell’intervento di servizio d’ordine contro le occupazioni; e pensiamo dunque che cosa sarebbero stati gli anni ’80 se il sindacato C.G.I.L. avesse scelto nel ’77 di essere fedele alla sua più profonda natura storica e teorica di sindacato “di classe” – e non solo “di mestiere” – se cioè si fosse posto in concreto il problema di essere, in forme del tutto inedite e nuove, anche il luogo dell’organizzazione dei nuovi soggetti produttivi emersi col e nel ’77, anche dei lavoratori post-fordisti, anche dei “non garantiti” – come allora si diceva, assai imprecisamente… come se gli operai di fabbrica fossero “garantiti”!

E veniamo al P.C.I. Quali furono secondo te le sue responsabilità nella repressione del Movimento – ma già hai accennato a questo – e nella gestione della “fermezza”? E allora, più in generale, se è vero, come molti sostengono, che forme di consociativismo e di retorica dell’unita nazionale crearono il clima in cui fiorì e si caratterizzò il Movimento del ’77, è possibile un parallelo con la realtà attuale?

Quando si parla delle gravissime responsabilità di Lama si rischia di essere ingenerosi, perché la vera responsabilità politica appartiene sempre al Partito, e dunque in questo caso a Berlinguer e al suo gruppo. Per questo, sia detto fra parentesi, io credo che la riproposizione acritica che periodicamente si tende a fare dentro Rifondazione del nome di Berlinguer sia tutt’uno con la formidabile rimozione che si è fatta del ’77 e del comportamento che il P.C.I. assunse allora.

E’ un discorso delicato e sgradevole, ma sarebbe opportunistico da parte mia non farlo; direi, in estrema sintesi, che i Partiti operai e comunisti possono commettere degli errori, anche gravi, anche gravissimi, ma inoltre – e sono tutt’altra cosa – possono commettere anche delle infamie: il voto ai crediti di guerra da parte della socialdemocrazia tedesca nel ’14 o l’uccisione di Rosa Luxemburg non furono solo errori, furono infamie, così come l’appoggio della sinistra francese alla guerra in Algeria, e così via. Ebbene io credo che l’appoggio entusiasta fornito dal P.C.I. di Berlinguer alla repressione più violenta ed illegale contro il Movimento del ’77 fu un’infamia, non fu solo un errore.

Si trattò da parte di Cossiga della più radicale e duratura violazione della legalità costituzionale nella nostra storia repubblicana, che il P.C.I. appoggiò con l’entusiasmo tipico dei neofiti. Nessun discorso sul terrorismo poteva giustificare quel consenso, ma occorre anche ricordare che il terrorismo si rafforzò proprio e solo dopo quell’ondata repressiva, e anzi se ne alimentò direttamente. Cortei di massa e pacifici assaliti brutalmente dalla polizia, continuo uso delle armi da fuoco da parte delle squadre speciali e di agenti in borghese, uccisione di compagne e compagni colpevoli solo di manifestare, sospensione dei diritti costituzionali a Roma con proibizione dei cortei e perfino di tutte le pubbliche riunioni – ricorderò sempre il 25 aprile celebrato clandestinamente, nello spogliatoio di un campo di calcio…

Il P.C.I. di Berlinguer appoggiò tutto questo, votò la fiducia a Cossiga in Parlamento il giorno dopo l’assassinio di Giorgiana Masi, benché Cossiga avesse mentito spudoratamente alla Camera dichiarando che la Polizia in borghese non aveva sparato, e “l’Unità” scrisse su quel delitto cose davvero vergognose.

Mario Moretti (Brigate rosse)

Nell’intervista che hai fatto con Rossanda dici che il movimento del ’77 sorprese anche le B.R., o comunque te, che in quell’anno eri a Roma. Si trattava solo di un problema di comprensione che riguardava i vostri strumenti di analisi oppure, visto ex-post, quel movimento aveva caratteristiche nuove, tali da spiazzare anche le B.R.? E quali erano, se c’erano, questi problemi (di comprensione di classe, comportamentali, ideologici)? Insomma, cosa ti sorprese?

La frattura definitiva tra il movimento e tutte le organizzazioni precedenti. Noi bene o male provenivamo da partiti, sindacati, vari organismi di base legati al mondo del lavoro: pur staccandocene, avevamo per lungo tempo conservato una specie di “imprinting” che ci obbligava a ritenerli degli interlocutori. Avversari acerrimi ma comunque interlocutori. Col ’77 la sinistra storica ha consumato anche l’ultimo dei suoi equivoci e il movimento non ha più legami di alcun genere con questa realtà politica: adesso sono soltanto nemici, “naturalmente” nemici. E non per colpa del movimento.

All’interno della base sociale tradizionale delle B.R., quella dentro cui sono nate e sono vissute per un decennio, l’episodio della cacciata di Lama dall’Università era perfino difficilmente concepibile. Tra parentesi: è stata una cosa straordinaria, rimarrà certamente come il “fatto” più emblematico di quel movimento. Il resto in gran parte sparirà, erano solo discorsi, quel fatto invece continuerà a parlare per decenni – spero per sempre – e a dire l’essenziale politico dello scontro che si è giocato, delle forze in campo, e di chi stava con chi. Ma ripeto, una cosa del genere si provi ad immaginarla in una fabbrica: non ci si riesce.

Lì magari lo scontro era anche molto più duro, molto più motivato ed articolato, noi eravamo altro su tutte le questioni ed era guerra con il sindacalismo istituzionale. Ma il capo carismatico del sindacalismo italiano che deve scendere di corsa, prima che glielo distruggano, dal camion dove credeva di poter tenere un comizio e che deve scappare a gambe levate (il tutto doviziosamente documentato dalla televisione di Stato) rappresenta visivamente una frattura insanabile tra due mondi, una voragine tra due modi di pensare.

Dice di un’alterità che non potrà più essere ricondotta ad un linguaggio comune. La violenza non c’entra in questo discorso, è un di più: la frattura è politica e culturale, ed è definitiva. La “politica” dei Lama non sarà più nell’orizzonte di nessun movimento possibile, né operaio, né studentesco, né giovanile, né “autonomo”. Come passaggio storico non è da poco.

Così, all’impronta, quale impressione ti dava quella strana massa di strane figure che attraversava Roma e l’Italia chiedendo la soddisfazione immediata dei bisogni e una società radicalmente altra da questa? (…)

 La ricerca comune era interamente dedicata ad individuare e sperimentare percorsi collettivi e ad organizzarsi per conquistarli. E qui, a mio avviso, entra con prepotenza un tema che giudico nevralgico nei rapporti tra B.R. e Movimento: la concezione del potere e quella della politica. Noi eravamo leninisti, non “m-l” ma certamente leninisti, e la lotta politica, per noi, era lotta per la conquista del potere. L’organizzazione, lo strumento che inventava il modo per vincere, dava attuazione alla necessità di avere successo. Questo non è “un” argomento: questo è “l”‘argomento, e ci torneremo.

Nel ’77 la politica, intesa in questo modo, rimane sullo sfondo. Sì, è stato un movimento assai complesso, articolato e con molte componenti: non mancavano quelli che concepivano la lotta per il potere come noi. Ma anche se numericamente rilevanti, non avevano peso strategico. Ciò che si agitava allora era un magma confuso, una “teoria dei bisogni”  formato piazza, un urlo forse liberatorio nel quale l’organizzazione era, molto semplicemente, la scelta del momento per appropriarsi delle “cose”. Anche cose “alte” intendiamoci, come spazi di agibilità di democrazia diretta…

Non voglio dire che migliaia di ragazzi e di ragazze cercavano solo di rosicchiare un maggior consumo di merci. Ma credo che farei torto a quella “terribile bellezza” se le attribuissi oggi una particolare determinazione politica. E la carica utopica che avevano – per esempio, distruggere il potere, e non prenderlo – cui non corrispondeva nessuna idea strategica dell’organizzazione, mi faceva presagire una dolorosa e catastrofica sconfitta.

Nell’intervista di Rossanda dici che i giovani del ’77 entrati nelle B.R. sono “cambiati loro”. Non pensi che comunque, vista la loro diversa esperienza rispetto alle vostre, abbiano introdotto anche elementi di alterità rispetto alla storia classica delle B.R.?

Ma c’è una storia classica delle B.R. e una no? Io credo che tutta la storia delle B.R., durante l’intero arco della sua esistenza, sia impregnata di un contenuto univoco: lotta armata per il potere. Fuori da questo non esistono le B.R. Perciò dico che i compagni che venivano nelle B.R. provenendo da altre esperienze del movimento del ’77 (bisogni immediati, espropri di massa, violenza diffusa eccetera) “cambiavano loro”: assumevano cioè il contenuto fondamentale della strategia delle B.R. E non solo perché questo era obbligatorio per un’organizzazione politicamente unitaria, ma perché chi veniva con noi veniva proprio per cambiare e per crescere. O comunque veniva avendo alle spalle quasi sempre il fallimento della sua realtà movimentista precedente: cosa che, pensavo allora e penso anche oggi, lo induceva a una rielaborazione delle sue concezioni politiche e a una benevola riconsiderazione sull’importanza dell’organizzazione. Certo, alcune differenze – accenti, direi – si facevano sentire. 

Per approfondire

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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