18.2.77, gambizzato il capo Fiat Bruno Diotti da una squadra operaia
Capi e sottocapi della Fiat sono i bersagli preferiti dell’insorgenza armata a Torino. Nel 1977 molti cominciano a girare armati. Nel giro di 24 ore, tra il 17 e il 18 febbraio 1977, le Brigate rosse scaricano un caricatore nelle gambe di Mario Scoffone, 37 anni. E’ il capo del personale dello stabilimento di Rivalta. Le «Squadre operaie armate» colpiscono Bruno Diotti, 41 anni, caporeparto delle Meccaniche a Mirafiori. La sigla fino a quel momento è sconosciuta. E’ un’articolazione organizzativa di Prima Linea
L’agguato a notte fonda
La Squadra operaia armata è composta da quattro operai di Mirafiori e irrobustita da due quadri di Prima Linea. Marco Scavino, componente dell’Esecutivo nazionale, e Roberto Sandalo. Il commando colpisce a notte fonda. Alle 5,15. Quando il capo va al lavoro. L’incaricato del ferimento, Antonio Pennacchio, si blocca . Gli subentra Felice Maresca che conosceva bene la vittima. Diotti lo aveva più volte punito con multe. Pennacchio prende le distanze dal gruppo. Arrestato dopo le confessioni di Sandalo, ammette il suo coinvolgimento e accusa i complici.
La ricostruzione giudiziaria
Bruno Diotti è un osso duro. A differenza di altri colleghi feriti decide di rientrare in fabbrica e si impegna anche sul fronte delle Vittime. Quando nel 2010 Nicola Solimano, uno dei leader di Prima Linea, è designato come garante dei detenuti è pronto a dichiararsi contrario nonostante abbia del tutto estinto la pena ( e sia persona altamente qualificata). L’Avvenire lo intervista il 9 maggio 2015, nell’anniversario dell’omicidio di Aldo Moro.
L’impegno dalla parte delle vittime
I loro nomi e le loro storie sono in buona parte custoditi in due stanze di un edificio della provincia di Torino, che ospita la sede dell’Aiviter, l’associazione italiana vittime del terrorismo. Quando entriamo, alle 8.30, il segretario Bruno Diotti è lì già da un’ora, come sempre. Lascia per un attimo il telefono («Scusatemi, sto cercando di rintracciare i parenti di una vittima, per metterli al corrente di ciò che prevede la legge…») e si alza per riceverci.
Nonostante i 74 anni e i segni permanenti di quattro colpi di pistola alle gambe sparatigli dai terroristi nel 1977, ha una tempra e una memoria di ferro: «Spesso chi subiva un attentato, se guariva non se la sentiva di tornare al lavoro precedente. Io lottai tornando alla normalità, al mio incarico di capo reparto. E lo feci, appoggiato dai miei familiari e dai vertici Fiat». Sulla scrivania, il signor Bruno ha una pila di fascicoli.
Al suo fianco, c’è Renata Lombardo, impiegata della Provincia ‘in prestito’ per metà giornata. Le copertine sono una Spoon river del dolore: «Vede, ci sono i familiari di vittime degli anni Settanta, ma anche della strage di Nassiriya, delle bombe a Londra nel 2007 o di un attentato nella metropolitana russa, dove è stato ferito un italiano…». È lui che, dopo l’attentato del Bardo, ha preso contatti con la famiglia Conte e con le altre: «Sono andato al funerale. Vogliamo aiutarli ad affrontare le difficoltà che verranno».
Un’agenzia per la tutela dei diritti
Fondata nel 1985 da Maurizio Puddu (consigliere provinciale Dc gambizzato dalle Br e suo presidente fino alla morte, nel 2007), l’Aiviter si batte a fianco di altre associazioni (come quelle per la strage di Bologna, via dei Georgofili o di Ustica) non solo per la ricerca della verità su autori e mandanti, ma soprattutto per la tutela dei diritti introdotti dalla legge quadro 206 del 2004, che riconosce benefici economici, fiscali, assistenziali e previdenziali a favore delle vittime del terrorismo e dei loro familiari.
Un’assistenza, ricorda Diotti, indispensabile per fronteggiare problemi di ogni tipo: «Dalle cure mediche per chi è sopravvissuto, al sostegno economico per chi non potrà più tornare al lavoro o per i congiunti, fino all’assistenza legale nei processi e alle terapie per sanare ferite meno visibili, come il disturbo post traumatico da stress…».
Molte famiglie non sanno di avere diritto ai benefici: «È accaduto anche a noi – racconta la 51enne Nadia Borello, figlia di Giuseppe, capo reparto della Fiat a Mirafiori, ferito nel 1976 e deceduto qualche anno fa –. Fu Diotti a rintracciarci, dopo molte ricerche, e a farcelo sapere».
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