18 gennaio 1976: la seconda cattura di Renato Curcio

Nel libro intervista con Mario Scialoja “A viso aperto” Curcio ricostruisce la catena di errori umani dei brigatisti che portarono al suo secondo arresto

Dalla morte di tua moglie e il tuo arresto a Milano passano sette mesi. Hai detto che dopo il disastro della cascina Spiotta non ti sei tirato indietro: quali sono stati in quel momento i vostri problemi?

È stato un periodo di crisi: convulso e carico di nervosismo. Poco dopo la morte di Margherita riunimmo la direzione strategica. I principali argomenti sul tappeto erano tre: l’autocritica per il modo superficiale in cui ci eravamo comportati, il vuoto lasciato da Margherita nella direzione della colonna torinese, l’urgente necessità di trovare dei soldi.

La prima cattura di Curcio

Incominciammo a ragionare sul fatto che anche le azioni meglio congegnate erano esposte ai rischi delle variabili umane: se non si poteva evitare l’imprevisto, bisognava comunque fare il possibile per ridurre al minimo l’area di rischio preventivabile. Decidemmo quindi di stabilire nuove e più rigide regole di sicurezza moltiplicando ogni tipo di cautela. D’altra parte, destinammo Zuffada e Casaletti al potenziamento della colonna di Torino. E discutemmo a lungo del modo in cui riprendere la nostra campagna di autofinanziamento. Spiegai che mi sembrava difficile e azzardato, dopo quanto era successo, ritentare un altro sequestro di persona. Ci trovammo più o meno tutti d’accordo nel tornare al vecchio metodo.

Cioè ricominciare a rapinare le banche?

Era il sistema più collaudato per procurarci denaro. Nell’estate ’75 ci lanciammo in una vasta campagna di espropri in tutta Italia che ci portò in tasca un gruzzolo equivalente a quello che avrebbe dovuto fruttarci il sequestro Gancia. Il fatto curioso è che per semplificare il lavoro preparatorio degli espropri tornammo a rapinare banche che avevamo già ripulito negli anni precedenti. E il sistema funzionò benissimo. In una filiale toscana, per esempio, il cassiere mi riconobbe: «Ma come, ancora qui! So che mi vuoi ripetere che non farete violenze, che la banca è assicurata… Allora ecco i soldi, senza problemi: però non sei così bravo, se venivi ieri prendevi il doppio». Purtroppo, se le rapine filarono lisce, e ogni tanto anche allegre, altre cose continuarono a incepparsi. Cominciò una serie nera di disavventure e di arresti.

Provocata da cosa?

Soprattutto dalla disattenzione e dal nervosismo. Zuffada e Casaletti, in partenza per Torino, decisero di dormire una notte in un appartamento vicino all’imbocco dell’autostrada. Doveva trattarsi di un rifugio sicuro, ma i compagni a cui spettava il compito di gestire le case si erano dimenticati che era invece in qualche modo collegato a un altro appartamento caduto da tempo in mano alla polizia. I carabinieri lo tenevano sotto controllo e quando si accorsero dell’arrivo di qualcuno fecero irruzione e arrestarono i due compagni. Di fatto creò un clima di forte tensione tra i brigatisti delle forze clandestine.

Tanto che in un solo giorno a Milano mi toccò affrontare i problemi creati da tre incidenti d’auto capitati a militanti della mia colonna. Io stesso non fui risparmiato da quella spirale di distrazioni. La casa dove dovevo andare a stare provvisoriamente dopo la morte di Margherita mi era stata garantita come assolutamente sicura: invece la prima sera, controllando dalla finestra, mi accorsi che per la strada andavano avanti e indietro due uomini sospetti. Me la squagliai all’istante e pochi minuti più tardi la polizia arrivò e trovò l’appartamento vuoto. Mi era andata bene, ma c’era mancato un pelo.

Il 18 febbraio 1976 i carabinieri invece riescono ad arrivare in tempo e a catturarti nel tuo appartamento di via Maderno: anche questa volta per colpa di una vostra distrazione?

La catena di episodi che portò all’arresto di Nadia Mantovani e mio fu più complessa. Alla crisi organizzativo-logistica delle Br milanesi si era aggiunta una nuova tensione politica interna dovuta alla «separazione consensuale» dal gruppo di Fabrizio Pelli e Corrado Alunni. Due compagni praticamente nati con la nostra organizzazione – il primo venuto dal calderone di Reggio Emilia e il secondo dai ranghi battaglieri della Sit-Siemens – che, probabilmente, spinti dalle difficoltà che stavamo affrontando, cominciarono a spostarsi verso un’idea di lotta meno centrata sulla presenza dell’organizzazione e più aperta alle istanze degli operai autonomi. Con loro ebbi una chiara discussione e mi sembrò che sopravvalutassero la consistenza dei segnali che venivano dalle fabbriche e dai quartieri: gli dissi che la cosa migliore a tal punto era una separazione senza traumi.

Così si allontanarono dalle Br e si unirono ad altri compagni con i quali, di lì a poco, diedero vita alle Formazioni comuniste combattenti. Tutti questi travagli interni, insieme all’affacciarsi di un nuovo scontento sociale e alla comparsa di nuovi modelli di rivolta, ci spinsero a riflessioni severe sul nostro futuro. Cosa era finito della nostra storia? Cosa poteva ancora essere portato avanti? Come doveva essere la nuova generazione Br? Per discutere di questi temi avevo convocato, tra Natale ’75 e i primi giorni dell’anno nuovo, una riunione di direzione delle colonne di Torino e di Milano. Ci dovevamo incontrare in una località sciistica della valle di San Pellegrino, nel Bergamasco. Aspettai su in montagna vari giorni, ma non vedendo arrivare Angelo Basone e Vincenzo Guagliardo mi preoccupai parecchio e decisi di tornare a Milano per capire quello che era suo cesso.

Cosa era successo?

Da quanto ho appurato successivamente, il patatrac fu causato da un’incuria di Basone che aveva posteggiato la sua auto in una zona dove si doveva tenere un mercatino rionale. I vigili spostarono la macchina e si accorsero che aveva una targa falsa. Avvertirono i carabinieri i quali, seguendo Basone, arrivarono alla Mantovani e all’appartamento che abitava assieme a me.

Il tuo secondo arresto non è incruento come il primo: questa volta c’è una sparatoria. Volevi vendere cara la pelle?

Non si trattava di vendere più o meno caro niente. Ho aperto il fuoco soprattutto per far sapere a tutto il quartiere che l’appartamento di via Maderno era stato scoperto, evitando così che potesse trasformarsi in una trappola per altri compagni. Una volta ottenuto questo risultato, visto che non era possibile fare nient’altro, la pelle me la sono conservata e mi sono arreso.

Assieme alla Mantovani ero appena arrivato dalla montagna e ci stavamo vestendo da città per andare in giro per trattorie a vedere di rintracciare qualche compagno che ci potesse informare sull’accaduto. Stavamo per uscire quando, all’improvviso, sentiamo un fortissimo colpo contro la porta. Qualcuno tenta di buttarla giù. Ma non cede: c’era un grande gancio di ferro ad angolo che la rendeva molto resistente.

«Siamo carabinieri, aprite, non avete scampo!», urlano da fuori. Non apriamo e non rispondiamo. Cerco subito di immaginare una via di fuga. L’appartamento era un attico con un grande terrazzo confinante con altri. Si può provare da lì, penso. Usciamo sul terrazzo e, mentre scavalchiamo il muretto che ci separa dal vicino, mi accorgo che sul campanile della chiesa di fronte sono appostati due uomini armati che ci stanno tenendo sotto tiro. Con una precipitosa ritirata torniamo in casa: meglio tentare di mantenere per un po’ la posizione al coperto e sollevare una gran cagnara, che farsi stecchire come allodole sui tetti.

Comincia allora una violenta sparatoria attraverso il portoncino d’ingresso che dura una ventina di minuti. Nell’appartamento le pallottole piovono come nel Far West. Di rimbalzo vengo colpito alla spalla e sanguino abbondantemente. Dalla finestra vedo che per la strada si è radunata molta gente: la cosa mi rassicura e decido che è inutile continuare.

Tra una scarica e l’altra un carabiniere intanto grida: «Mantovani, vieni fuori! Sono il colonnello Cucchetti, ti do la mia parola, se esci con le mani alzate non ti succede niente…». Mantovani? Resto perplesso: quel cognome non mi dice nulla. Chiamo Nadia, di cui conoscevo solo il nome di battaglia, e le chiedo: «Sei tu Mantovani?». Mi risponde di sì. Allora, penso, questi non sanno che qui dentro ci sono anche io.

E che non lo sapessero lo verifico subito dopo. «Smettete di sparare, mi arrendo, esco…», grido più forte possibile. Apro a fatica la porta che è ridotta un colabrodo. Mi saltano addosso in dieci e, dopo avermi gratificato dell’inevitabile razione di insulti e di botte, uno dei carabinieri mi guarda con attenzione, poi, tra lo stupore dei suoi colleghi, esclama: «Ma questo è Curcio!». Quando mi caricano a forza sulla macchina nei loro occhi c’è aria di festa.

E Nadia Mantovani?

Viene portata via anche lei in un’altra auto. Io comunque l’avevo tenuta fuori dallo scontro a fuoco: si era riparata in una stanza interna e non aveva sparato un solo colpo. Lei non c’entrava molto con la faccenda delle Br, era una compagna che veniva dall’esperienza di Potere operaio a Mestre e, proprio perché era fuori dalle nostre storie, le avevo chiesto di abitare in casa con me: una norma di sicurezza stabiliva che i clandestini vivessero negli appartamenti a coppie regolari per apparire più «normali» possibile.

Tu sei ferito e sanguini: i carabinieri ti portano in ospedale?

Non subito. In via Maderno c’è una gran folla che si agita. Dalla spalla il sangue mi esce a fiotti e infilo un dito nel buco della ferita per comprimere la vena: la cosa funziona. Nell’Alfetta dove vengo buttato a spintoni salgono il capitano Digatì e un paio di carabinieri. Uno di questi, impressionato dal clima di tensione che c’è intorno a noi, grida a quello al volante: «Dai, dai, parti… Vai via, vai via !». Al che il capitano si gira di scatto verso di me e mi appioppa una grandissima sberla: «Guarda che qua comando io, e non te», sibila. «Ma non ho aperto bocca», ribatto seccato. Lui allora capisce l’errore: «Mi scusi, pensavo che avesse voluto interferire».

Quando arrivo nella caserma di via Moscova si scatena una specie di braccio di ferro tra il nucleo speciale dei carabinieri di Dalla Chiesa e quelli del gruppo Milano 3 del colonnello Cucchetti che aveva guidato l’operazione del mio arresto. Gli uomini di Dalla Chiesa si fanno sotto minacciosi: mi vogliono prendere, non so bene se per pestarmi, passarmi a fil di spada, o interrogarmi senza troppe formalità. Il colonnello Cucchetti però mi protegge: mi piazza intorno una scorta armata, urla agli altri di allontanarsi e mi fa portare in una stanza dando ordine che nessuno si avvicini.

Nel gran trambusto, per i corridoi ci deve essere anche un giornalista del «Giornale nuovo» perché nei giorni successivi leggerò che mi avevano fatto un’intervista, cosa non vera, e addirittura che avevo mandato un messaggio segreto a Montanelli, cosa ancor più fantasiosa.

Fatto sta che rimango per più di un’ora chiuso in un bugigattolo, con il dito infilato nel buco della spalla, mentre fuori infuriano le rivalità intestine all’Arma. Alla fine una pattuglia mi viene a prelevare e mi trasporta a sirene spiegate al pronto soccorso di un grande ospedale. E lì c’è un altro scontro. Questa volta tra carabinieri e medici: i medici non vogliono i carabinieri nella sala operatoria, ma alla fine i carabinieri hanno la meglio e un paio di militari entra per sorvegliarmi a vista anche durante l’intervento. Un chirurgo, gentilissimo e abile, mi taglia la spalla da dietro e toglie la pallottola che si era fermata a pochi millimetri dalla giuntura.

Appena finita l’operazione mi rimettono in piedi alla meglio e partiamo di corsa verso San Vittore. Dove vengo chiuso in una delle microscopiche e nauseabonde cellette di isolamento. Per una settimana non potrò neanche cambiare i vestiti. Rimarrò così come ero: lercio di sangue e di sudore, traboccante di sconforto per gli errori accumulati.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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