26.10.76: impiccato in cella Giuseppe Vesco, terza vittima della strage di Alcamo
Il 13 febbraio 1976 fu fermato un carrozziere di Partinico considerato vicino agli anarchici, Giuseppe Vesco, accusato della strage di Alcamo Marina. Nella notte tra il 26 ed il 27 gennaio 1976 due carabinieri, il diciannovenne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, erano stati ritrovati assassinati nella casermetta “Alkamar” dei Carabinieri nella località turistica di Alcamo Marina. A seguito di una perquisizione in auto e nell’abitazione di Vesco, i Carabinieri avrebbero trovato l’arma utilizzata durante l’agguato e una pistola d’ordinanza rubata ai due militari. Dopo diversi processi, la strage è ancora irrisolta.
Le confessioni dopo le torture
Vesco, sottoposto a tortura dai Carabinieri, confessò la strage e accusò tre giovani alcamesi suoi amici, Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli e un conoscente di Partinico, Giovanni Mandalà. Ferrantelli e Santangelo erano minorenni all’epoca dei fatti. Tutti, tranne Giovanni Mandalà, nell’arco di qualche ora, interrogati dai carabinieri di Alcamo, confessavano le rispettive responsabilità.
Gulotta fu torturato per una notte intera da un numero imprecisato di Carabinieri che si accanirono su di lui per ore con pugni, calci, sputi, minacce con le armi d’ordinanza e bastonate.
Vesco ritrattò subito dopo. Fu trovato impiccato in carcere il 26 ottobre successivo, sebbene avesse una sola mano.
La ricostruzione di Veltroni
La vicenda di Gulotta, che si fa 22 anni di carcere da innocente prima di avere giustizia, ce la racconta Walter Veltroni nel suo libro”Storie che parlano di noi”
Voleva essere reclutato dalla Guardia di Finanza, Giuseppe Gulotta, ragazzo di Alcamo. Aveva diciotto anni, compiuti il 7 agosto 1975. Era andato a Roma, aveva riempito un mucchio di scartoffie e firmato un sacco di documenti. Gli avevano detto che era andato bene e che un giorno sarebbe stato assunto e forse la sua prima destinazione sarebbe stata l’isola d’Elba. Fin da ragazzo aveva lavorato, dal barbiere al manovale. Ma lo Stato che voleva servire lo ha sbattuto in galera per ventidue anni, innocente. Parlo con lui, sopravvissuto all’ingiustizia.
L’arresto a tradimento
«Quando, la sera del 12 febbraio del 1976, sono venuti a prendermi, i carabinieri mi hanno detto che avevano bisogno di me per informazioni. Mi è sembrato normale: ho pensato che, giustamente, la Guardia di Finanza voleva sapere tutto di me, prima di farmi indossare la divisa grigioverde. Ma quando sono uscito fuori, alle dieci di sera, c’erano troppe macchine ad attendermi. A fine gennaio erano stati uccisi due ragazzi dell’Arma, nella caserma di Alcamo Marina. Trucidati. Si chiamavano Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, uno aveva trentacinque anni, l’altro solo diciotto. La mia stessa età. Un assassinio che sconvolse la mia città, la Sicilia e l’Italia intera.
Una notte di violenze
«Mi portano in caserma e lì mi tengono in una stanza un paio d’ore. Io chiedevo perché mi trattenessero, ma loro mi intimavano di stare zitto e che prima o poi mi avrebbero detto le ragioni. All’improvviso, verso la mezzanotte, si apre la porta ed entra un bel numero di carabinieri. Mi afferrano con forza, mi mettono su una sedia. Mi legano mani e piedi alla sedia e iniziano a bastonarmi a tirar i pugni e schiaffi. “Dai, confessa, sappiamo tutto.” Sembrava uno di quei film in cui c’è il poliziotto buono e quello cattivo: uno cerca di convincerti con le parole, l’altro con le mazzate.
È stata una notte tremenda, uscivano e rientravano, quando ritornavano mi dicevano che gli altri avevano confessato, ma non mi dicevano chi erano questi “altri”. Io non capivo di cosa parlassero, mi sembrava tutto assurdo, un incubo inspiegabile. Io ripetevo solo che non sapevo nulla, non mi rendevo conto di quello che improvvisamente mi stava succedendo, del gorgo in cui ero precipitato. A un certo punto mi dissero che ero accusato dell’assassinio dei due carabinieri di Alcamo Marina.
Io continuavo a pregare, in quella notte infame, che non sapevo nulla, non c’entravo nulla. Ero un ragazzo di diciotto anni e volevo solo tornare a casa mia. Ma la parola “nulla” era una miccia che li accendeva, appena la pronunciavo, partivano i pugni. Così tutta la notte.
La mattina il crollo
C’era un uomo in divisa, sembrava un ufficiale. Io non sapevo chi fosse, non conoscevo la natura dei gradi. La mattina sono svenuto, il mio fisico non ce l’ha fatta più; me la sono anche fatta addosso. Quando sono rinvenuto, gli ho detto che avrei confessato quello che volevano, tutto quello che volevano, purché la facessero finita. È così che mi sono autoaccusato.
Mi hanno dato pugni, schiaffi, tirate di capelli, calci nelle gambe… Mi hanno puntato la pistola in faccia, facendomi sentire il rumore, mi hanno afferrato e strizzato i testicoli. Mi urlavano di farmela pure addosso, dopo una notte intera, che tanto non mi avrebbero mai fatto andare in bagno.
“E’ andata così, vero?”
«Avevo diciotto anni, ero terrorizzato. Volevo solo che finisse, che finisse presto. Mi dicevano che se non confessavo non sarei mai più uscito. Avevo dolore e paura. Qualsiasi ragazzo della mia età, che non aveva mai avuto nulla a che fare con quelle cose, avrebbe confessato di tutto… E così ho fatto io, Giuseppe Gulotta. Con questo nome e cognome mi hanno fatto firmare un verbale in cui mi autoaccusavo di aver ucciso due ragazzi.
Funzionava in questo modo: loro ricostruivano come volevano gli eventi di quella notte del 27 gennaio, io dovevo confermare ogni frase da loro pronunciata. Loro dicevano: “È andata così, vero?”. E io dovevo rispondere solo “Sì”. Così fu redatto il verbale. Al momento della firma non volevo più sottoscrivere quella follia. Fui strattonato e uno mi sibilò: “È meglio che firmi, altrimenti ricominciamo come e peggio di prima”.
Il mio nome lo aveva fatto un ragazzo che conoscevo, al quale i carabinieri avevano inflitto la stessa pena.»
Giuseppe Vesco e la finta pista rossa
Questo ragazzo si chiama Giuseppe Vesco, è un giovane fragile, con idee e comportamenti confusi. Gli manca un braccio, perduto nel maneggiare da bambino una bomba della guerra. Fin dalle prime ore successive alla strage di Alcamo, esattamente come sarà per la morte di Giuseppe Impastato, viene fatta circolare la «pista rossa». Vesco non ha alcun precedente politico, ma improvvisamente si dichiara membro di sconosciute formazioni armate siciliane. La verità sulla notte dell’arresto la racconterà alla Commissione antimafia Nicola Biondo, un giornalista che ha seguito da sempre questa vicenda.
Giuseppe Vesco è torturato con l’acqua e sale
A Vesco hanno fatto bere, mentre era legato, acqua e sale, un metodo di tortura ben conosciuto. E poi: «Viene recuperato in questa caserma un telefono da campo, vengono scoperchiati i fili, Vesco viene denudato quasi completamente e vengono attaccati gli elettrodi ai suoi testicoli».
Per chi non lo avesse mai visto, neanche nei film, un telefono da campo è una scatoletta coi fili e la rotella. Ogni giro di rotella è una scarica. Vesco fa così il nome del capobanda, dell’uomo adulto, che magari poteva avere qualche «pregiudizio di polizia» – si diceva un tempo – o qualche parentela. È Giovanni Mandalà, fa il bottaio, viene da una famiglia molto umile e vive a Partinico, a pochissimi chilometri da Alcamo, in provincia di Palermo…
Un’interminabile sequela di processi
Dunque il cerchio si stringe. Vesco ha fatto, in quelle condizioni, il nome di Gulotta e di due suoi amici. Tutti insieme, per capirsi, avevano festeggiato il diciottesimo compleanno di Gulotta, solo qualche mese prima. Vesco, per essere credibile, ha aggiunto, o gli hanno fatto aggiungere, l’indicazione di un adulto, Mandalà. Una persona che Gulotta neanche conosceva.
Il caso è chiuso. Tutti hanno confessato. Seguirà un’interminabile sequenza di processi, appelli, sentenze della Cassazione.
Le confessioni di un torturatore di Giuseppe Vesco
«Una sera uno dei miei figli ha trovato sul sito di un programma Rai il messaggio di un tal Seddik74 che diceva di sapere e di voler dire la verità sugli interrogatori per la strage di Alcamo Marina. Seddik era uno dei carabinieri che aveva partecipato alle indagini. Decise di raccontare la verità. Venimmo interrogati dalla procura di Trapani. Riscontrarono che raccontavamo le stesse cose. Anche se i luoghi delle violenze erano stati prudentemente trasformati, nuovi arredamenti e nuove tinte alle pareti.
«Il processo di revisione inizia finalmente nel 2010, dura due anni. Grazie alle testimonianze e alle intercettazioni dei sospettati si arriva alla verità. Nel 2012 viene decretata l’assoluzione per tutti. “Per non aver commesso il fatto.” La sentenza è arrivata, è assurdo, esattamente lo stesso giorno del mio arresto. Ma trentasei anni dopo, ventidue dei quali trascorsi in carcere. Anni che ho regalato allo Stato. Ho perduto il mio tempo migliore. Avevo diciotto anni, ero un ragazzo. Quando sono stato assolto ne avevo cinquantacinque. Una vita spezzata a metà.»
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