27 luglio 1996: la strage alle Olimpiadi di Atlanta

Strage alle olimpiadi di atlanta; il primo sospettato è l'eroe per caso

Della strage alle Olimpiadi di Atlanta mi sono occupato nel mio libro sulla violenza politico-religiosa negli Stati Uniti, scritto di getto dopo l’attacco all’America dell’11 settembre, In God We Kill, con particolare attenzione alle espressioni di lotta armata della destra radicale

Le misure di sicurezza ad Atlanta sono le più costose (300 milioni di dollari) nella sto­ria delle Olimpiadi. Impegnano 40mila uomini (30mila poliziotti di 50 agenzie e 10mila militari di quattro divisioni). Beverly J. Harvard, da due anni capo della polizia di Atlanta (cinque divisioni, 2300 uo­mini, bud­get annuo di 80 milioni di dollari) è la prima afro-america­na diplomata all’accade­mia dello FBI ma il compito di difendere le Olimpiadi è di Bill Rathburn, il suo collega di Dallas.

Una straordinaria macchina tecnologica

Uno sbruffone. All’inaugurazione dichiara: “Atlan­ta è a prova di Ufo”. I suoi uomini sono severissimi solo con i reietti. I controlli fiscali sono circoscritti agli edifici che ospitano mass media e manifestazioni sportive. Fuori dagli impianti vige l’anarchia nonostante futuristici siste­mi antisabotaggio: telecamere a circuito chiuso nascoste ovunque, sistemi di telefonia cellulare digitale.

I badge (rilasciati a 10mila atleti, 11mila giornalisti, 30mila funzionari e 15mila accompagnatori) consentono una schedatura di mas­sa. E poi c’è la carta di identificazione della mano, con dati tridimensionali per tutti quelli che hanno a che fare coi Giochi. La schermatura teoricamente perfetta di una task force dotata di ogni strumento dai robot antibomba agli elicotteri, dai di­rigibili ai reparti biologici, cibernetici, antiatomici non funziona.

Ventidue minuti di preavviso

Il parco del Centenario, costato agli sponsor 50 miliardi e inaugurato da pochi giorni, è il solo luogo di ritrovo aperto al pubblico, senza biglietti né controlli speciali, scenario ideale per uno spettacolare attentato. Alle 0.58 del 27 luglio 1996 da una cabina pub­blica vicina, tra Becker e Spring Street, un bianco del Sud telefona al 911: “C’è una bomba al Parco Olimpico. Avete mezz’ora di tempo per ritrovarla”. La security mobilita duemila uomini in meno di 10 minuti: la zona è cir­condata.

L’ordigno rudimentale ma efficace (polvere pirica e chiodi compressi nella sezione di un tubo di ferro) esplode vicino al centro stampa all’1,20, mentre decine di migliaia di persone assistono a un concerto rock. Sono uccisi una 44enne negra di Albany e un cameraman turco, accorso sul posto e stroncato da un infarto, 112 i feriti, due gravissimi.

Due morti ma ne volevano di più

La bomba collocata sotto una torretta di tubi coperta da teloni, con i fari dell’amplificazione era orientata per colpire la folla ma lo zainetto è stato spostato e gran parte dell’energia si è scaricata verso l’alto, incrinando la struttura e scavando un cratere profondo un metro. Gli agenti trovano altre tre pipe-bomb collegate in sequenza. L’avvertimento telefonico serve ad allontanare i civili e ad attirare la polizia, ma restano solo feriti sei agenti a cavallo e un investigatore

. Joe Roy, direttore della Task Force del SPLC, chiama in causa le milizie: “Il movimento vede le Olimpiadi come una vetrina del Nuovo Ordine Mondiale, tutte le nazioni del mondo si riuniscono in spirito di pace e armonia, e questo a loro non piace”. Il ragionamento terroristico è lineare: il governo è il grande agente e vi sono parecchi ebrei nel consorzio che finanzia l’organizzazione. Atlanta è una città nera governata da neri, il copresidente è Andrew Young, braccio destro di Martin Luther King nella battaglia per i diritti civili. In quattro giorni gli sponsor impongono la riapertura del Parco.

I primi sospetti sulla Milizia

I commilitoni dei miliziani di estrema destra arrestati di aprile, i primi sospettati, si difendono contrattando, tramite l’avvocatessa Nancy Lord. La donna è stata il candidato vicepresidente del Partito Libertario nel 1992. Sostenuta da James J. Johnson, il portavoce dell’OUM, fornisce alla polizia i nomi di due sospetti, gli informatori del blitz di primavera. La vicenda prende toni da soap: il miliziano lascia la famiglia e si trasferisce in Georgia al seguito dell’avvocato.

La coppia continua a far danni: la moglie di uno degli arrestati li scova mentre scavano nel suo terreno. Un tentativo grave di alterare le prove che può consentire al giudice di escludere il difensore dal processo. Alla fine, comunque, gli informatori reggono il confronto in aula.

L’eroe per caso nel tritacarne

Le indagini si concentrano su Richard Jewell, la guardia privata assunta dall’AT&T per la security del suo padiglione. E’ il 33enne obeso e solitario che ha trovato lo zaino con la bomba. Lui si pavoneggia con giornali e tv: “Se non ci fossi stato io sarebbe stata una carneficina”. E invece lo sospettano d’aver collocato l’ordigno per recitare la parte dell’eroe. Due giorni dopo la strage l’Atlanta Journal rilancia le voci, tutte infon­date: lo zainetto era suo, qualcuno lo ha visto allenarsi in campagna con le bombe, si è allonta­nato prima dell’esplosione.

Molti testi­moni riferiscono: “C’era uno della security grande e gros­so che ci pregava di allontanarci perché era stato trovato un pac­co e dentro poteva esserci una bomba”. La polizia scopre che l’evacuazione è cominciata un minuto prima della telefonata. Ma nessuna ciocca dei capelli rossi di Jewell mostra tracce di esplosivo. Anche la voce non corrisponde a quella registrata. I timbri sono differenti: Richard ha un grosso accento del sud, meno marcato nel telefonista che è del Nord Carolina.

La cattiveria di un amico

Un amico aggiunge un mattone al castello: un mese prima, sorseggiando una birra, gli ha preannunciato: “Tra poco sarò famoso”. Quando legge sui giornali del suo eroismo, inquietato della coincidenza, telefona ai federali, che cominciano a inanellare violazioni in serie dei diritti civili dell’eroe per caso.

Un agente si fa invitare a pranzo per fare due chiacchiere ma porta sotto la camicia mi­crofono e registratore. Pochi giorni dopo l’innocente è convocato alla sede FBI. Chi lo interroga approfitta della sua vanagloria e gli fa credere che deve gi­rare un video per l’adde­stramento degli agenti: le domande sono tutte sull’attentato, ma nessuno gli ricorda i diritti.

Una telefo­nata del direttore Louis Freeh interrompe il falso inter­rogatorio. Solo a questo punto scatta una perquisizione domiciliare di 12 ore a cui Jewell assiste impassibile in mutande e canotta, occhi bassi e baffetti biondicci da bu­rino americano, seduto sulle scale fuori dalla casa materna.

“Un granchio grosso così”

La polizia porta via il furgone per sottoporlo ad accurate analisi chimiche. Viene rivoltato anche il cottage sugli Appalachi. Nel corso di un secondo interrogatorio l’uomo ribadisce la totale innocenza e indignato ripete: “State prendendo un granchio grosso così”. Un cordone di poliziotti circon­da la casa. Nessuno può entrare né uscire. Una sorta di arresto domiciliare, con la scusa di proteggerlo dalla morbosa curiosità dei media (ma anche dalla vendetta di qualche giustiziere).

Centinaia di fotografi e opera­tori tv si accalcano sul bordo della strada tra pulmini con antenne paraboliche, ponti per le di­rette, ombrelloni, sdraio, camper per riposarsi. Un gigantesco agente difende le strisce gialle per isolare la casa e scoraggia le in­cursioni. Jewell formalmente è libero di muoversi. Ma in realtà non può.

Una storia di ordinaria disperazione

Si sca­va nel suo passa­to di ordinaria disperazione. L’università mollata perché la madre divorziata non ce la fa a pagarla. La sfilza di lavoretti precari. Il posto da agente di custodia in una cittadina del Nord Georgia, da cui si dimette per diventare davvero poliziotto. Il licenziamento da vice­sceriffo nella contea di Habersham, per “eccesso di zelo”. Ha provocato un incidente mortale per inseguire uno che correva troppo.

Al Piedmont College lo cacciano perché i suoi atteggiamenti da sceriffo fanno rivoltare gli studenti. Questo buco nero attira gli inquirenti. Il fanatismo, la mania di grandezza, la passione per le pistole e i forum paramilitari su Internet. La procura per scagionarlo ci mette 88 giorni che Jewell trascorre barricato in casa. (1 – continua)

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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