29-30.9.75: il delitto del Circeo nel racconto di Albinati

nella foto di scena i tre assassini del delitto del Circeo

La scuola cattolica di Edoardo Albinati vince il premio Strega nel 2016 e diventa nel 2021 un film presentato al festival di Venezia. Il romanzo, dichiaratamente autobiografico, è ambientato nella Roma degli anni Settanta: un quartiere residenziale, una scuola privata. Sembra che nulla di significativo possa accadere, eppure appena lasciato il liceo, alcuni ex alunni (nella foto di scena i tre assassini) compiono uno dei più feroci crimini dell’epoca, il Delitto del Circeo. Edoardo Albinati era un loro compagno di scuola e per quarant’anni ha custodito i segreti di quella “mala educacion”. Eccone il racconto dettagliato. Pubblico l’intero capitolo del volume senza editing né interpolazioni per rispettarne struttura e ritmo narrativo

Verso le undici di sera del 30 settembre 1975, dalla finestra di casa sua, un residente di viale Pola 5 (duecento metri da dove abito io), nota due ragazzi fare manovra per parcheggiare una 127 nel vialetto condominiale, scendere dalla macchina, discutere animatamente e quindi allontanarsi.

Più tardi, nel cuore della notte, viene svegliato da sua madre che dice di aver sentito dei rumori sotto casa, si affaccia di nuovo al davanzale, e vede che il cofano di quella 127 sta vibrando, sobbalza dall’interno, come venisse colpito da qualcuno che vi è chiuso dentro.

Prima telefona ai carabinieri, poi scende in strada e si avvicina alla vettura.

Chiede chi ci sia lì dentro.

Gli risponde una voce di ragazza: «Mi ci hanno messo quelli che hanno rapito Bulgari… sono ferita e sono abbracciata a una morta». E poi: «Apri, non ce la faccio più…».

Nel frattempo è sceso in strada un altro inquilino del palazzo.

«Non te ne andare, loro sono ancora qui vicini!»

Poco dopo sopraggiungono i carabinieri. Forzano il portabagagli da cui provengono i lamenti e le invocazioni di aiuto.

Dentro c’era un oggetto ingombrante avvolto in una coperta, e, dietro di esso, incastrata contro il sedile posteriore, la ragazza ferita che gemeva. I carabinieri fecero fatica a capire cosa stesse dicendo, e a estrarla dall’auto, seminuda e lorda di sangue. Solo quando lei fu quasi emersa dal cofano capirono che ce n’era un’altra, lì dentro; che era il corpo di un’altra ragazza l’oggetto ingombrante nascosto dalla coperta, nudo e senza vita. Tirarono fuori il cadavere e lo depositarono sull’asfalto, dopo averlo sbrogliato dai fogli di cellophane che gli assassini avevano usato per trasportarlo.

Due di loro furono catturati subito. Si aggiravano a piedi nel quartiere e non seppero dare ragione della loro presenza in strada a quell’ora. Rispetto a viale Pola, abitavano per così dire dietro l’angolo, uno in via Capodistria, la strada parallela, anch’essa traversa della via Nomentana, l’altro in via Tolmino. Per una coincidenza, uno fu arrestato sotto casa dell’altro, dove i carabinieri erano andati a bussare alla porta del padre, risultato dai documenti proprietario della Fiat 127. Gli chiesero dove fosse il figlio, che naturalmente non era in casa, e poi andando via, proprio nel cortile del palazzo di via Capodistria, acchiapparono il suo complice.

L’altro venne avvistato sempre lì vicino da un vigile notturno di pattuglia. Richiesto di chiarimenti, si diede alla fuga, mentre il vigile sparava colpi in aria per attirare l’attenzione degli agenti, di cui ormai il QT pullulava dopo il ritrovamento delle due ragazze chiuse nel bagagliaio. L’inseguimento fu lungo e il vigile non ce la faceva più a correre, sicché col fiato mozzo urlò al fuggitivo: «Se non ti fermi, io ti sparo!». Quello si arrestò e si appoggiò a un muro, altrettanto esausto. Mentre il vigile lo raggiungeva puntandogli addosso l’arma, disse: «Non sono stato io a uccidere le ragazze!».

Il terzo responsabile del delitto non verrà mai catturato.

La vicenda è a suo modo abbastanza elementare eppure ingarbugliata, non così semplice da narrare, anche perché, oltre alle due vittime e ai tre colpevoli, coinvolge un discreto numero di comprimari che uno dopo l’altro o a coppie entrano ed escono di scena assai casualmente, senza che sia mai ben chiaro il perché lo facciano, il loro ruolo, e soprattutto i loro spostamenti, i quali, tracciati su una mappa che avesse il QT al suo centro, finirebbero per annerirla di linee. Soltanto gli andirivieni che avvengono quella notte, tra il 30 settembre e il primo ottobre 1975, in viale Pola (una bella stradetta ombreggiata che a tutto somiglia fuorché a un viale, dato che è a una sola corsia, e fino ad allora era nota solo per la presenza della più importante università privata di Roma, che la occupava per un bel tratto), rivelano una frequenza strabiliante, simile alla fibrillazione di un sismografo. Sempre su quell’angusto viale abitano due di quei comprimari, che all’inizio verranno coinvolti nell’inchiesta, interrogati eccetera. È inoltre difficile affermare, onestamente, trattando questa vicenda, dove si trovi di preciso il suo inizio e la sua conclusione. Mi servirò dunque di abbreviazioni, omissioni e semplificazioni.

Facciamo dunque un piccolo passo indietro, a cinque giorni prima, giovedì 25 settembre, quando due ragazze ottengono un passaggio davanti al cinema Empire (viale Regina Margherita, confine meridionale del QT) da un giovane che dice loro di chiamarsi Carlo, anche se non è vero, poiché il suo vero nome è Gian Pietro. Gentile, premuroso, le accompagna alla stazione Termini, da dove potranno prendere la metropolitana per l’EUR. Delle due ragazze, soltanto una, quella dai capelli ricci, D.C., finirà mezza morta dentro il bagagliaio della 127; e il sedicente Carlo (cioè lo stesso studente che aveva spaccato gli occhiali al mio compagno di classe Marco Lodoli), dopo essere stato arrestato a ridosso del delitto, ne verrà riconosciuto estraneo. Insomma, delle tre persone che avviano la vicenda, una soltanto finirà nella villa delle sevizie resa famosa dalle cronache.

Due giorni dopo, sabato 27 settembre, il ragazzo che ha finto di chiamarsi Carlo telefona a D.C. e le propone un appuntamento in un luogo così tipico e caratteristico di quegli anni da essere stato immortalato in film e sceneggiati tv, mentre non giurerei che oggi sia così popolare e frequentato. Si trova sul contrafforte estremo dell’EUR, ai confini anzi per molti sensi già al di fuori dalla città, dove si respira la vicinanza del mare e la luce è diversa, pulita, ventosa; viene chiamato “il Fungo” perché è una torre che in cima si allarga in un grande anello simile appunto al cappello di un fungo, in cui è alloggiato un ristorante panoramico. Una precursione ridotta ma comunque spettacolare e per quei tempi sensazionale, del famoso Landmark di Las Vegas, quello che viene fatto esplodere dagli alieni in Mars Attacks! Luogo storico di ritrovo di fascisti veri e fascistelli di mezza tacca o definibili tali solo per linguaggio e atteggiamento, oppure di chi vi faceva tappa per incontrarsi con amici e poi procedere verso Ostia a farsi il bagno. All’appuntamento, D.C. andò accompagnata non dalla sua amica di due giorni prima, Nadia, che aveva da fare (era al Lunapark con due amiche), ma da un’altra ragazza, diciamo così, una sostituta, la sfortunata R.L., che finirà cadavere sull’asfalto di viale Pola; mentre “Carlo” (ricordo di nuovo, se ce ne fosse bisogno, che non sono io qui a cambiargli nome, prudentemente, ma è lui che fin dall’inizio ha declinato false generalità, e non gli sarà facile spiegare alla polizia il perché di questo suo travisamento: «Lo feci così, senza una ragione precisa…») si presentò insieme a un ragazzo che chiamerò Subdued e ad Angelo, che si era aggregato, pare, per caso, incontrando il sedicente Carlo a piazzale delle Muse. Una mezz’ora di chiacchiere al Fungo e un nuovo appuntamento per il lunedì seguente, davanti al cinema Ambassade, sempre dalle parti dell’EUR, dove, essendo oramai diventati tre i ragazzi, per fare numero pari, ci si ripromette di ripescare Nadia, l’amica del cinema Empire.

Il lunedì però “Carlo” ha da studiare, con un suo compagno di università, quindi deve recarsi a lezione di Analisi, e mancherà all’appuntamento dove invece andranno Angelo e Subdued, scoprendo che anche le ragazze sono soltanto due, le stesse dell’aperitivo al Fungo, dato che Nadia nemmeno stavolta può, è indisposta. Nadia quindi scampa due volte a un amaro destino, prima andandosene a strillare sulle montagne russe del Lunapark dell’EUR con le sue amiche, poi a causa di un mal di pancia. “Carlo” resta ai margini della vicenda malgrado continui a sfiorarla, a incrociarla, dato che quella stessa sera di lunedì 29 settembre (una data che pochi anni prima l’Equipe 84 aveva reso memorabile, interpretando la prima grande hit scritta da Lucio Battisti), mentre le due ragazze sono già prigioniere nella villa del Circeo (ma questo “Carlo” non lo sa…), raggiunge uno degli assassini, Subdued, tornato a Roma, sotto casa sua, e insieme si recano dal terzo, il Legionario, che però non è ancora entrato in prima persona nella dinamica del crimine, il quale dice di essere stanco e di non avere voglia di uscire. Il giorno seguente, solita trafila per “Carlo”, cioè studio-lezione-studio (con alibi non proprio di ferro, comunque convincente), ma, arrivata sera, chi è che va a incontrare, davanti al bar Rocci tra la Nomentana e via di Santa Costanza, all’incirca a mezzanotte? Angelo. Sì, lui. Appiedato. Lo carica su e insieme girovagano per un paio d’ore, senza che il suo amico e compagno di classe accenni al fatto di essere appena ritornato dal Circeo con due ragazze nel portabagagli, avvolte nel cellophane. Prima, affamati, vanno al bar della stazione di piazza Euclide, a mangiare tramezzini, poi a buttare un occhio sulle prostitute di via Veneto, quindi in viale Pola dove Angelo vorrebbe citofonare all’amico sotto casa del quale hanno parcheggiato la 127 qualche ora prima, ma “Carlo” lo convince a desistere. E così colui che ha dato il primo colpo di manovella per avviare il motore del sequestro e dell’omicidio, e nelle sue varie fasi è riuscito a incontrare di persona tutti e tre i sequestratori assassini, ne esce pulito.

Primo ottobre 1975. Appena si fa giorno cominciano le ricerche del luogo misterioso dove si sono svolte le sevizie che hanno ridotto le due ragazze in quello stato. Le frammentarie indicazioni fornite da D.C. («Eravamo già vicini alla Pontina… sulla sinistra vi era un albergo con un’insegna rossa… prendemmo una strada che non era del tutto asfaltata…») sono comunque sufficienti ai carabinieri per dirigersi fuori Roma, oltre Latina, sul Monte Circeo, e dopo averne perlustrato ore e ore le zone più disabitate, individuare verso le quattro del pomeriggio una villa a Punta Rossa, che potrebbe corrispondere a quella descritta dalla superstite. Una portafinestra sul giardino è spalancata, ma non reca segni di forzatura. Finalmente entrano. La casa è a soqquadro, nel soggiorno vi sono tracce di sangue, e del tentativo maldestro di cancellarle, soprattutto schizzi sulla parete dietro l’apparecchio telefonico. Sono passati solo pochi minuti da che gli inquirenti hanno messo piede all’interno della villa del Circeo, e stanno iniziando a raccogliere le prove dei crimini che vi si sono svolti (a sentenza risulteranno: omicidio e tentato omicidio, con le aggravanti dell’intendimento manifesto di assicurarsi l’impunità, l’abiezione del motivo, le sevizie e la crudeltà adoperate, la minorata difesa delle vittime, l’abuso delle relazioni di ospitalità; quindi ratto e violenza carnale; infine porto e detenzione abusiva di arma), quando piombano nella villa la proprietaria e suo figlio, rispettivamente madre e fratello del Legionario. Dichiarano entrambi di aver letto sul “Messaggero” del mattino la notizia del delitto commesso al Circeo, ma che non è questa la ragione per cui sono partiti di corsa da Roma per venire proprio lì. «Avevo da sbrigare faccende di casa» sostiene la signora: la villa era stata lasciata in disordine dopo avervi trascorso il fine settimana precedente.

Anche se, dichiara sempre la madre del Legionario, sulla via del Circeo le si era risvegliata un po’ di apprensione nel fermarsi a comprare un altro giornale, il “Momento-Sera”, e vedervi pubblicata la foto di Angelo accanto alla notizia dei “gravi fatti di sangue” al Circeo; risvegliando il sospetto che suo figlio avesse potuto prestare le chiavi di casa ad Angelo, malgrado l’assoluta proibizione di avere alcun rapporto con quell’individuo.

Anche nell’altro figlio, che l’ha precipitosamente accompagnata sin lì, si era insinuato un “lieve dubbio” insieme alla necessità di sincerarsi che nella casa “fosse tutto in ordine”.

Sia che pensassero che la villa di famiglia fosse in perfetto ordine oppure in disordine, è impossibile che madre e fratello del Legionario quella mattina avessero letto alcuna notizia del delitto. Era stato scoperto a un’ora troppo avanzata della notte, quando “Il Messaggero” era già bell’e stampato e pronto per andare in edicola. Eh, sono le contraddizioni, il nervosismo, la balbuzie argomentativa di chi non si aspettava di incappare in un interrogatorio e dunque non ha fatto in tempo a ricucire gli atti compiuti con un filo di logica. Entrambi ostinatamente negano di aver parlato al telefono o di sapere dove sia il ragazzo ricercato, le cui ricerche, da allora, non cesseranno mai.

Ma torniamo di nuovo indietro di un paio di giorni, cioè a quel famigerato lunedì 29 settembre 1975, davanti al cinema Ambassade. Dovrebbe essere un normale appuntamento tra ragazze e ragazzi. Ma siccome così non è, saltiamo a piè pari i che facciamo, dove si va, al cinema?, l’ingannevole proposta «Andiamo a Lavinio a casa di Carlo, che più tardi ci raggiunge», e trasferiamoci nella villa sul Monte Circeo. È isolata e la strada che vi conduce così impervia che per arrivarci i ragazzi in macchina si sono dovuti fermare più volte a chiedere indicazioni.

Erano circa le sei del pomeriggio, e le ragazze avevano promesso che sarebbero rientrate a casa presto. Angelo aprì con una chiave che aveva finto di trovare vicino al cancello. Non si orientavano bene nella casa, malgrado ci fossero già stati, non trovavano gli interruttori della luce. Ci furono i primi approcci ma le ragazze rifiutarono di spogliarsi. Dissero di essere ancora vergini, e che volevano tornare a casa. Allora uno dei due ragazzi tirò fuori una pistola e le minacciò: «Siamo della banda dei Marsigliesi! Abbiamo dietro tutta la polizia, che ci cerca!» e aggiunse che li avrebbe presto raggiunti il loro capo, Jacques, un tipo terribile. Loro, spaventate, insistettero per essere riportate a Roma. Al che i due le presero e le spinsero dentro un bagno, chiudendo la porta a chiave.

Poco più tardi, quello che io chiamo Subdued se n’era tornato a casa a Roma, a cena dai genitori, e si sarebbe fatto qualche giretto con gli amici, tra il QT e piazzale delle Muse, come ho raccontato all’inizio, prima di ripartire per il Circeo. Alle ragazze Angelo aveva detto che il suo amico se n’era andato a dormire. Fece uscire R.L. dal bagno, poi ve la riportò completamente nuda e chiese a D.C. di uscire dal bagno, rinchiudendo di nuovo R.L. a chiave. Trascinò la ragazza in una camera da letto e la minacciò «Se strilli, ti addobbo». “Addobbare” è un termine neoromanesco, oggi già caduto in disuso, quasi sempre impiegato come avvertimento: “Guarda che t’addobbo” eventualmente precisando “come ’n arbero de Natale”, nel senso “Ti riempio di botte”. Dopodiché Angelo fece spogliare la ragazza e la costrinse a prendere il suo sesso in bocca. Fu in quella circostanza che, per spaventarla o, secondo lui, per instaurare un clima di confidenza reciproca, inventò la bugia di aver partecipato al rapimento Bulgari, avvenuto qualche mese prima.

Nelle sue dichiarazioni agli inquirenti, la ragazza superstite ha raccontato che la notte è proseguita sullo stesso tenore. Era forse l’una, o più tardi ancora, Subdued intanto era tornato da Roma.

«Angelo entrò nuovamente nel bagno. Ci assicurò che ci avrebbe lasciato andare, ma poi disse che se Jacques lo avesse voluto, ci avrebbe dovuto ammazzare. Con Angelo c’era il suo amico. Mi costrinsero a prendere il suo pene in bocca. Lui si arrabbiò, mi disse che non ero buona a fare niente. Poco dopo mi dissero di chiamare la mia amica. “Una delle due la dobbiamo sverginare”. Noi li imploravamo di lasciarci andare e loro ridevano, ci prendevano in giro.»

Poi Subdued mise il suo sesso in bocca a R.L. e promise ad Angelo che l’avrebbe sverginata. Angelo intanto toccava D.C. ma disse che non ce l’avrebbe fatta a sverginarla.

Le rinchiusero di nuovo nel bagno, nude, fino al mattino. Dopo un sonnellino, verso l’alba, spostarono la macchina fuori dal cortile della villa, preoccupati che potesse arrivare il giardiniere e vederla. R.L. continuava a strillare e a lamentarsi e Subdued minacciò le ragazze con la cinghia dei pantaloni, bestemmiando, e urlando «State zitte o vi ammazzo», mentre Angelo le teneva sotto mira con la pistola. Le spostarono da un bagno a un altro, sempre nude, poi le rimisero nel bagno di prima. Fino al pomeriggio di martedì 30 settembre nella villa del Circeo le cose andarono avanti così, o piuttosto si fissarono, ripetendo molte volte gli stessi brevi spezzoni: i ragazzi minacciavano le ragazze sequestrate, le facevano uscire a turno dal bagno, uno di loro obbligava una di loro a prendere il suo sesso in bocca, le ragazze supplicavano, il telefono squillava. Subdued pensò che la cosa più grave che avevano combinato non era di aver messo loro le mani addosso e averle costrette ai rapporti orali, ma di averle chiuse in bagno. Diventava sequestro di persona. Ma dovevano per forza aspettare l’arrivo di Jacques. Intanto, chiuse in bagno, le ragazze avevano combinato un guaio…

E il guaio è che, non si sa come, si rompe il rubinetto del lavandino. In queste case di vacanza gli impianti, poco usati, si deteriorano rapidamente, i tubi si ossidano, le guarnizioni si sbriciolano. L’acqua schizza dal rubinetto spanato e allaga il bagno. I ragazzi si infuriano e prendono a schiaffi le prigioniere. Poi, sempre sotto la minaccia della pistola, le trasferiscono per l’ennesima volta nell’altro bagno, anche questo senza finestre.

Finché verso le quattro del pomeriggio, a rompere lo stallo, arrivò da Roma Jacques, il marsigliese. Il futuro Legionario. Jacques prende subito in mano la situazione. Parla con le ragazze (senza alcun accento francese, com’è ovvio), le rassicura, e spiega loro che non sarà fatto altro male, a patto che giurino di non aprire bocca su quello che è successo fino ad allora. «Se non volete venire a letto con me, non insisto.» Poi però dice che debbono fare l’amore tra loro, davanti a lui. Le costringe ad abbracciarsi e toccarsi. Quindi sceglie R.L. e la conduce in una stanza. Angelo tiene con sé l’altra e tenta nuovamente di penetrarla. Le si getta sopra, le mette un cuscino in faccia, mentre Subdued la prende a calci. D.C. strilla per il dolore e per la paura, e Angelo per quanto si sforzi, strofinando il suo sesso su quello della ragazza e manipolandolo per ottenerne l’erezione, non riesce a penetrarla. Arrabbiato, dice al suo complice di pensarci lui, ma Subdued si rifiuta. «Questa non mi piace.»

Dalla stanza dove s’è chiuso Jacques si sentono le grida dell’altra ragazza. Subdued pensa che Jacques la stia sverginando, apre la porta e vede R.L. sul letto e Jacques che le sta sopra. Entrambi sono nudi. La ragazza strilla per il dolore. Subdued richiude la porta.

Quando uscì dalla stanza, R.L. aveva sangue tra le cosce. Era stranita, le gambe molli. «Posso andare a lavarmi?» chiese con una voce atona. Jacques, completamente nudo, ordinò all’altra ragazza di venire con lui, e che portassero quella di cui aveva appena abusato all’ultimo piano. Con D.C. fu dolce, la baciò, le disse di non preoccuparsi, le avrebbero riportate a casa dopo averle addormentate. Intanto fuori stava facendo buio. Gli occupanti della villa non se ne accorsero perché le finestre erano sempre state tenute chiuse, fin dal pomeriggio precedente.

Il Legionario tirò fuori delle fiale. Aveva anche un laccio emostatico e una siringa. Ridiscese a piano terra portandovi D.C., aprì la scatola delle fiale, ne ruppe quattro in un posacenere riempiendolo di un liquido rosso, lo aspirò e lo iniettò nel braccio della ragazza. Poi salì a fare lo stesso all’altra prigioniera segregata all’ultimo piano. Ridiscese e praticò una seconda iniezione a D.C. poiché la prima non aveva sortito alcun effetto. Quale effetto avrebbe dovuto avere? Addormentarla? Ucciderla? Quindi risalì ancora all’ultimo piano. Intanto Angelo giocherellava con il laccio emostatico dicendo: «Non sapete quanta gente ho strangolato con questo».

I due al piano di sotto cominciarono a rivestirsi. Fecero indossare a D.C. i pantaloni. Dopo aver subìto ulteriori sevizie, simili alle precedenti, D.C. perse i sensi. Loro ne approfittarono per andare a mettere un po’ a posto e asciugare le perdite d’acqua nel bagno. Ma quando tornano in salotto, si accorgono che la ragazza è sveglia e ha in mano la cornetta del telefono. Ha chiamato il 113. «Pronto, mi stanno ammazzando…» Subdued si precipitò su di lei, le strappò il telefono di mano e dopo aver riattaccato le diede un calcio in faccia. Il sangue della ragazza schizzò sulla parete dietro il telefono, imbrattandola. Lei si rialzò e tentò di lanciarsi verso la porta di uscita, rimasta aperta, ma venne anticipata da Subdued che, utilizzando un attrezzo trovato in giardino, la colpì alla testa e in vari punti del corpo. L’attrezzo era un bastone cerchiato di ferro. Il Legionario, ridisceso al piano terra, ordinò di comporre in fretta altri numeri telefonici in modo che non potesse essere rintracciata l’ultima chiamata dalla villa. Gli altri si sbrigarono a farlo. Poi Angelo prese la cinghia dei pantaloni e la strinse al collo di D.C. La trascinò in giro per casa. Lei strillava. «Se strilli ancora, ti strozzo.» Evidentemente lei continuava a strillare e Angelo a stringere, stringere, finché la cinghia si ruppe. Allora lui la colpì col calcio della pistola, mentre Subdued la bastonava ancora con la mazza dal puntale di ferro.

All’ultimo piano della villa del Circeo, R.L. venne annegata dentro la vasca da bagno. Oltre alle evidenze rinvenute, in sede di autopsia, nelle vie respiratorie (fungo schiumoso, enfisema massivo causato da iperestensione polmonare, petecchie emorragiche sottopleuriche – tutti reperti tipici dell’annegamento piuttosto che di una lenta asfissia), anche le ecchimosi e le tumefazioni sul suo volto potevano ritenersi prodotte dalla sommersione violenta e ripetuta della testa di R.L. nella vasca da bagno.

Dunque una delle ragazze era già morta prima che il gruppo iniziasse il suo viaggio di ritorno a Roma. La seconda non dava segni di vita. L’avevano pestata così tanto e così a lungo da essere sfiniti. Subdued la colpì con un ultimo calcio per vedere se era morta o viva. Agli interrogatori sosterrà di averla vista muoversi appena. Sanguinava molto. Per non sporcarsi, Angelo e Subdued arrotolarono il corpo nel cellophane, ma gli scivolava via, gli sfuggiva dalle mani, per cui rimisero il corpo a terra e lo avvolsero in una coperta. Poi lo trasportarono nel bagagliaio della 127, che era stata riportata nel giardino della villa, e chiusero il cofano, lasciando le chiavi nella serratura. A dimostrazione che credevano fosse ancora viva, Subdued dichiarerà agli inquirenti di aver in passato chiuso nel bagagliaio anche il suo cane, per andare a Manziana, a caccia col padre, e ci passava abbastanza aria per respirare. Poi tornarono in casa a dare una pulita veloce, passando uno straccio sul sangue per terra e alle pareti. A trasportare il cadavere di R.L. e ficcarlo nel bagagliaio ci penserà da solo il Legionario. Si avviarono con due macchine, la 127 di Subdued, con le ragazze nel bagagliaio, e la Mini Minor gialla del Legionario, alias Jacques il Marsigliese. Nel trasferimento a Roma Angelo viaggiava con lui. Si fermò a comprare un paio di lattine di Coca-Cola. Quindi, arrivati quasi a viale Pola, si trasferì a bordo della 127.

Durante il viaggio di ritorno la ragazza ancora viva provava a scuotere l’altra con un gomito, ma quella restava inerte. Schiacciata contro di essa, nel buio del bagagliaio, D.C. non riusciva nemmeno a capire dove R.L. avesse la testa e dove i piedi. Ma capiva che era morta. In ogni caso, rinunciò a chiamarla e parlarle per paura che i due se ne accorgessero. Sentì uno di loro che diceva: «Shhh, come dormono bene, queste due…» e poi «Silenzio! che qui ci stanno due morte».

La versione del DdC fornita da Angelo è trasognata, sonnambolica, eppure piena di dettagli, di notazioni e interpretazioni e descrizioni di stati d’animo reali o fittizi. Oltre a raccontare con ogni probabilità parecchie bugie agli inquirenti, Angelo confessa candidamente tutte le bugie raccontate alle ragazze. Ma forse mente anche confessando le bugie. Sono, per così dire, bugie al quadrato. Non solo quelle necessarie a farle cadere in trappola; durante la lunga fase del sequestro, inventa un sacco di storie, di abbellimenti, gli piace esagerare, rovesciare o romanzare i rapporti umani, introducendo momenti di intimità e quasi di ingenuità che danno colore al suo personaggio. I suoi cambi di umore e di atteggiamento sono repentini. Quando ha inizio il sequestro vero e proprio, Angelo narra quel momento come se vi fossero forze incontrollabili che agivano in lui avendo la meglio sulla sua stessa coscienza. «Non mi sono reso conto che chiudendo le ragazze nel bagno la nostra amicizia si sarebbe rotta e che si sarebbe chiuso il dialogo con loro.» Dialogo? Dialogo?! (Ah, quella parola tanto cara ai preti e alla scuola dei preti che lui e io avevamo frequentato fino all’anno prima…) Il dialogo si era chiuso suo malgrado, con dispiacere. La consapevolezza di commettere un reato era passata per la mente di Subdued, ma non per quella di Angelo; e così lui non dà tempo all’amico di esitare e pensarci su, spinge le ragazze nella stanza da bagno e chiude la porta a chiave.

Da quel momento, ogni sorta di ansia e premura costella la notte. «Pensavo che mia madre stava piangendo. Ogni volta che tornavo tardi trovavo la famiglia a pezzi per la preoccupazione.» «Avevo detto di riferire a mio padre che ero ospite di un mio amico nella sua villa al Circeo e il giorno dopo sarei andato al mercato americano di Latina», dove si compravano camicie e jeans come nuovi a poche lire, ma bisognava andarci molto presto. Quando all’alba, nudo, riapre la porta del bagno, e ci ritrova le due ragazze nude e terrorizzate, che pregano in ginocchio di essere lasciate andare, si giustifica dicendo di non poterle accontentare perché nel frattempo sono arrivati altri ricercati, al piano di sopra della villa, e lui non può rivelare loro la presenza degli ostaggi, altrimenti sarebbero guai peggiori. «A questo punto ebbi l’impressione che le ragazze non credessero più alle storie che raccontavo.»

Ma la sequela di bugie e fantasie aveva preso avvio fin dall’inizio. A parte la storia dei Marsigliesi e del rapimento Bulgari, quando le ragazze per la prima volta implorano di essere riportate a casa altrimenti non sapranno cosa dire ai genitori se fanno tardi, in che modo giustificarsi, Angelo suggerisce loro di raccontare una bugia, cioè di essere state fatte salire con la forza su una macchina di balordi che le avevano portate in una pineta. Cioè, consiglia loro di metter su una frottola che è una copia agghiacciante della verità: come se non fossero lui stesso e Subdued, si inventa dei teppisti sequestratori per aiutare le ragazze a venir fuori da quella situazione antipatica. Per commuoverle, racconta che sua madre era morta di dolore mentre lui era in carcere a Marsiglia. Si innervosisce perché il telefono di casa continua a squillare e potrebbero essere i genitori del Legionario, o il Legionario stesso che avvisa che quelli stanno arrivando. Meglio comunque non rispondere. Chiede “in tono scherzoso” alle due ragazze di avere rapporti tra loro: questo perché, a sentir lui, R.L. le aveva confessato di avere un debole per le ragazze e per D.C. in particolare. Pur sentendosi pieno d’angoscia e di pensieri, tra questi fa capolino la consapevolezza che passerà la notte fuori, mettendo in ansia i suoi genitori: «Ma ormai tanto valeva godermela tutta».

Se non agisce in modo razionale, è perché ha molto sonno arretrato. Continuamente si estranea per fare un sonnellino. Dice che la pistola non ce l’aveva lui, ma il suo complice, poi dubita di quel che afferma: «Non so dove avesse preso la pistola e se veramente mi aveva detto così o me lo sono immaginato. Talvolta immagino cose che ritengo vere, che si riferiscono anche a livelli superiori, cioè al sentimento». Angelo confessa infatti di essere sentimentale ed emotivo: non si è mai ripreso dalla fine di un tormentato rapporto con una ragazza che amava, né dal «crollo dei suoi ideali politici». Ha paura di questo e di quello, è allarmato, teso. Poi però promette a D.C. «Adesso ti svergino», e il suo amico rincara la dose, ma solo per spaventarla un po’, «No, ti svergino io con un manico di scopa». Dopo l’arrivo di Jacques la sua tensione sembra calare e subentra in lui uno strano disinteresse verso l’epilogo di una storia che va avanti da troppo tempo. Viene colpito solo da alcuni dettagli: il telefono che vola via dalle mani di D.C. mentre Subdued la colpisce, il cane che da Subdued viene portato «a Manziana», chiuso nel bagagliaio, l’impressione del sangue sul viso di D.C., dopo i calci presi. È quasi cavalleresco nel chiedere alla ragazza se preferisca essere addormentata con un’iniezione, «o se vuoi con una botta in testa». Sulla via Pontina, quando la Mini del Legionario si ferma «proprio davanti a una stazione di polizia» e Angelo scende per comprare le lattine di Coca, scorda di farsi dare il resto dal barista. «Sono sicuro che quelli nel bar si accorsero della mia condizione, ero stravolto, e mi guardavano.» Si sente sempre gli occhi addosso.

Una volta a Roma, i suoi andirivieni nelle poche ore a cavallo tra il 30 settembre e il primo ottobre sono troppo sconclusionati e fitti per poter essere raccontati senza confondersi. Angelo vaga come un automa, affamato ed esaurito, passa e ripassa per viale Pola, l’ultima volta senza nemmeno accorgersi che dove hanno lasciato la 127 ci sono già i carabinieri, cerca solo una fontanella dove lavarsi il viso, «perché la testa mi scoppiava».

Per approfondire

Il delitto

Il padre di tutti i mostri

Le narrazioni

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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