È appena cessato l’eco dell’atroce delitto del Circeo, e gli intellettuali si rifiutano di accettare l’idea che a uccidere Pier Paolo Pasolini la notte del 2 novembre sia stato solo uno squallido marchettaro di Pietralata, Pino Pelosi, che una strage familiare rilancia il dibattito sulla dilagante superviolenza. Il 13 novembre 1975, verso le 21,30, in una villetta alla periferia di Vercelli, in via Caduti nei Lager, 9, Doretta Graneris, 18 anni, il suo fidanzato, Guido Badini, 21 anni, e un altro ragazzo con cui aveva avuto rapporti sessuali, Antonio D’Elia, 19 anni, sterminano la famiglia della ragazza: il padre Sergio, la madre Itala Zambon, il fratello tredicenne Paolo, i nonni materni Romolo Zambon e Margherita Baucero e perfino il cane di casa .
E’ una famiglia benestante: grazie al lavoro del padre e al sostegno del nonno hanno accumulato beni per duecento milioni. Una famiglia severa che le concede poche libertà e la fa crescere con una sensazione di soffocamento. Una sensazione che si accentua quando, tre anni prima, conosce il grande amore. La ragazza, da quando è diventata maggiorenne, il 16 febbraio, ha “alzato la cresta”. Si è diplomata all’istituto d’arte e vuole iscriversi all’università ma i genitori, molto attenti a difendere il patrimonio e le conquiste sociali, si oppongono. Ritengono un “cacciatore di dote” e uno scialacquatore: si è rapidamente “bruciato” un bel gruzzolo ereditato per la morte precoce, in rapida sequenza, dei genitori. Lui la istiga alla ribellione: è una testa calda, frequenta l’ambiente del Msi, è un autista spericolato, adora le armi (ha 40 pistole) e la pratica culturista. Ma è lei, racconterà agli inquirenti il fidanzato, la figura dominante, nonostante i tre anni di differenza, che sono parecchi da giovani:
La vedevo come madre, del resto lei assumeva sempre più un atteggiamento materno nei miei confronti, diceva che provava tenerezza come per un figlio (…) la portavo spesso a ballare e lei ballava con gli altri (…) mi sentivo inferiore, sia a livello fisico che mentale (…) non ero un amatore eccezionale: negli ultimi tempi avevo addirittura difficoltà nei rapporti sessuali. (…) Lei era molto esigente (…) mi dovevo dare da fare per portarla all’orgasmo, per me era più un lavoro che altro.
E’ lei a innescare la precipitazione nell’abisso. Quando finiscono i soldi ereditati da Guido, Doretta gli dice per scherzo «Uccidiamoli e intaschiamo l’eredità». Un’uscita che diventa per Badini un’ossessione concreta. Non li fermeranno neanche i tentativi andati a vuoto di ingaggiare un killer.
Per forzare la mano ai genitori e avere il consenso alle nozze e “quello che le spetta” (i mobili regalati: costeranno cinque milioni), vanno a vivere da un parente di Guido a Novara. Il padre cede e si avviano le pratiche nuziali. È tutto un teatrino: il piano omicida è stato già concordato. Doretta coinvolge uno sbandato conosciuto in un bar di Novara, Antonio D’Elia, con precedenti per violenza sessuale. Elargendogli i suoi favori lo convince a partecipare all’impresa. La coppia ruba una Simca, lui affitta all’Aci di Novara una 500 per il cambio.
Entrano tutti e tre e Doretta presenta Antonio come l’amico che ha dato un passaggio perché si era rotta la macchina. Lei si assenta un attimo. Con la scusa di recuperare un fazzoletto dal cappotto, lascia il salotto, dove la famiglia è riunita a guardare la televisione. È il segnale della carneficina: 18 colpi di calibro 9. I due uomini sono uccisi con un solo colpo alla nuca. La nonna terrorizzata cade a terra ed è finita con un proiettile alla testa. Madre e figlio tentano di scappare. L’ultima a morire è la donna, che si è infilata sotto al tavolo. Il cane è abbattuto per impedire che i latrati richiamino l’attenzione dei vicini.
Poi la fuga, la ricerca affannosa di un alibi, le armi gettate nel Sesia. Ma a tradirli è un errore banale: un bossolo ritrovato nell’auto di Badini. A indirizzare subito gli investigatori sulla pista giusta è la freddezza dimostrata dalla ragazza all’annuncio della strage.
Dopo aver accompagnato Antonio a Trecate, io e Guido siamo andati a trovare un amico e insieme siamo andati a mangiare una pizza. Avevamo fame. Ero un po’ arrabbiata con il mio fidanzato, tanto è vero che per tutta la strada non gli ho rivolto la parola.
Doretta ammette subito il movente economico:
Li odiavo tutti (…) volevamo fare la bella vita (…) Avevamo bisogno di soldi, sapevo che i miei avevano i milioni, oro, gioielli. Volevamo sposarci, io e Guido. Loro erano ricchi e noi no.
Della sera del delitto Giorgio, l’amico ignaro di tutto, racconterà:
Lui aveva l’aria soddisfatta di chi ha appena eseguito un ottimo lavoro. Ora so perché.
Così sarà stato anche per Doretta Graneris che pochi giorni dopo confesserà:
ho fatto l’amore per tutta la notte col mio fidanzato.
Per l’occasione, evidentemente, l’adrenalina aveva corroborato lo “scarso” fidanzato per una performance sessuale speciale. Quando la portano in questura, la “belva di Vercelli”, da tutti definita fragile e gentile, non è ammanettata. Alla voce dalla folla che le urla «Ma non ti vergogni?» replica fredda «Non me ne importa molto» poi, dopo una pausa di riflessione precisa «Un pochettino».
Le confessioni di Guido orientano le indagini verso l’ambiente neofascista che frequentava: finisce in galera per concorso in omicidio Mario Binaghi. È un picchiatore extraparlamentare ma convince il giudice che non è disposto a fare il killer per soldi ed è scarcerato. I periti confermano la subalternità di Guido, un «mediocre, perfido e millantatore», che ricorre a versioni mistificatorie e contraddittorie dei fatti e all’interpretazione soggettiva della realtà con grossolana modificazione dei dati obiettivi della realtà stessa.
Il primario psichiatrico di Novara, professor Borgna, parla di
una personalità contraddistinta da una connotazione sessuale distorta (…) da una sudditanza nei confronti della figura femminile.
Per un altro perito invece Badini si realizza solo con la pistola. Lei ha un quoziente superiore alla media, è lucida, non perde il controllo dei nervi. Ha una personalità segnata dall’odio: per se stessa (si sente timida, complessata e brutta), per Guido, a cui rinfaccia il plagio. Rettifica le prime dichiarazioni che avevano alleggerito la posizione del fidanzato:
Ha sparato prima con la sua, poi con la pistola che avevo nella borsa. Quindi mi ha trascinata giù dalle scale e siamo andati via.
Lo scambio di accuse è un classico in questo genere di delitti. Quello che però Guido non può accollare alla fidanzata è l’omicidio di una prostituta novarese, compiuto a luglio per compiacere una sua più matura amica, che si era lamentata della concorrenza. Così finiscono alla sbarra come mandanti anche la donna e il suo “pappone”, un camionista. È Doretta Graneris a svelare l’episodio. Guido si difende sostenendo che ha solo fornito la pistola. In udienza cambia versione e con impressionante cinismo ammette: solo dopo aver ucciso la donna, con cui si era appartato, si fa spiegare perché occorreva ammazzarla. Un omicidio fatto come piacere a un amico, per di più “comunista”.
Completano la sbarra altri due neofascisti. Il “ducetto” di Trecate, Antonio Coriolani, accusato di complicità nella strage per aver fornito la tanica di benzina usata per bruciare l’auto. Ammette di essere stato “invitato” da Guido ma sostiene di aver respinto l’offerta perché aveva un impegno con il dentista. Anche Guido Marsigliese si circonda di teschi e busti di Mussolini e sa della strage.
Sono condannati a 14 e 13 anni mentre la prostituta e il magnaccia sono assolti. Lo spirito dei tempi e qualche elemento “oggettivo” spingono verso la pista nera. Evidentemente si faceva fatica ad accettare che la “belva di Vercelli” sia la madre di un nuovo tipo di crimine: lo sterminio della famiglia per ingordigia consumistica. Seguiranno i Maso, i Carretta, i Del Grande. Diversa la molla di un altro delitto in coppia, con lei dominante: Erika e Omar.
Doretta confida all’avvocato che Guido trasportava armi da Genova a Milano. In aula lui alluderà all’ambiente:
Io il delitto me lo sono caricato per evitare fastidi a qualcuno.
Il primo difensore di Doretta Graneris rinuncia all’incarico poi si presenta a testimoniare in aula: per lui l’eredità non bastava a motivare la strage. E così uno dei cronisti principe delle “piste nere”, l’inviato di il Giorno Marco Nozza si convince che si tratta di una vendetta politica. Perché Doretta teme di essere fatta fuori in carcere?
Sergio Graneris è un ex partigiano. Potrebbe essere stato coinvolto nell’esecuzione del prefetto repubblichino di Novara, Vezzalini, responsabile della strage di Ferrara (11 detenuti massacrati per rappresaglia) e ucciso nei giorni della Liberazione. L’ipotesi è che Badini abbia ucciso la prostituta per allenarsi, poi abbia tentato di mettere su un commando tra i camerati di Trecate che si defilano ma non lo denunciano e infine abbia consumato la strage alla men peggio, con Doretta e il suo amico. Ad ogni modo la pista nera non entra nel processo.
Il processo di primo grado finisce nel 1978. I tentativi di ottenere la semilibertà falliscono per entrambi e la condanna all’ergastolo è inevitabile. Ci vorranno altri vent’anni per arrivare alla sentenza definitiva della Cassazione. Dopo le schermaglie processuali le distanze tra i due si accentuano durante l’esecuzione della pena
Doretta Graneris sceglie di riprendere gli studi e si laurea in Architettura. Ottiene così la semilibertà nel 1992 e la libertà condizionale che estingue la pena nel 2000. La scarcerazione comunque provoca accese polemiche nei tanti supporter del “buttare le chiavi”: particolarmente indignati per il crimine tanto orribile.
Nei primi anni di carcere si costruisce l’immagine del detenuto modello. Ma nel 1987, proprio quando la legge Gozzini comincia ad aprire concrete prospettive di salvezza per i detenuti, si gioca la semilibertà. In un messaggio scritto con inchiostro simpatico chiede a un amico di procurargli armi per un regolamento di conti. Resta blindato fino al 1994 ma si rimette ben presto nei guai. Nel 1997 torna in carcere a Brescia con l’accusa di traffico di droga. E non è finita ancora.
Nell’ottobre 2025, alla vigilia del cinquantennale della strage di Vercelli, finisce agli arresti domiciliari: un anno e mezzo prima avrebbe fornito armi al commando che gambizzò l’imprenditore Angelo Ferandi a Montichiari. In casa sua sono trovate pistole, fucili a canne mozze e munizioni militari del tipo usato per il ferimento. Il giudice lo ritiene «figura di riferimento per chi intende procurarsi armi», ma gli concede la custodia attenuata per ragioni di età.
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