9 ottobre 1979: la Fiat licenzia 61 operai. E’ l’inizio della fine

Il 9 ottobre 1979, 61 dipendenti Fiat (40 a Mirafiori, 13 a Rivalta e 8 alla Lancia di Chivasso) ricevono una lettera con il seguente testo:

«Le contestiamo formalmente il comportamento da lei sin qui tenuto, consistente nell’aver fornito una prestazione di lavoro non rispondente ai princìpi della diligenza, della correttezza e della buona fede, e nell’avere costantemente mantenuto comportamenti non consoni ai princìpi della civile convivenza sui luoghi di lavoro. In relazione a quanto sopra, e cioè tanto per le modalità della sua prestazione, quanto per il comportamento da lei tenuto in connessione con lo svolgimento dei rapporti di lavoro, ella ci ha procurato grave nocumento morale e materiale. Nel corso di tali circostanze è divenuta impossibile la prosecuzione del suo rapporto di lavoro. A sensi dell’art. 26 disciplina generale sez. III del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria, viene disposta la sua sospensione dal lavoro con effetto immediato. Sue eventuali deduzioni contrarie potranno essere presentate entro sei giorni dalla data di ricevimento della presente».

Le spiegazioni di Annibaldi

Non è un’accusa esplicita di terrorismo ma poco ci manca. Tecnicamente è una sospensione, in sostanza un licenziamento: «In fabbrica da anni non si vive più – dichiara il responsabile Relazioni industriali della Fiat Cesare Annibaldi – e la gente non regge più. Per gente intendo i dirigenti, i capi e la stragrande maggioranza dei lavoratori. Sono i capi che lavorano in fabbrica e vengono alle nostre riunioni, con le unghie nere, a dirci: ‘Fate qualcosa, perché qui va tutto a rotoli’. Non è più tempo di comunicati di generica solidarietà, come azienda siamo parte sociale e intendiamo fare la nostra parte fin in fondo per ristabilire un minimo di civile convivenza sui luoghi di lavoro».

La prima assemblea dei «61» si tiene il giorno successivo. Per l’occasione Lotta continua, dalle cui file provengono alcuni dei licenziati, riapre la storica sede di corso San Maurizio 27. A lume di candela, perché da mesi non si pagano più le bollette. Tutta la città ne parla, e si divide.

Pansa intervista un “capetto”

Giampaolo Pansa ritorna ai cancelli della fabbrica: «Torino, la violenza, il terrorismo. Sulla pelle di questa città ci siamo esercitati tutti per anni. Adesso proviamo ad ascoltare qualche voce di chi sta dentro Torino e dentro le sue paure» scrive su Repubblica dell’11 ottobre 1979. La prima voce è quella di un capo Fiat:

«Dei 61 operai licenziati non voglio dire niente. […] Non dia i miei dati personali e non mi descriva. Dica soltanto che ho una quarantina d’anni e che sono uno dei duemila capisquadra di Mirafiori […]. Prendiamo 100 operai: 30 non vogliono saperne né di sindacato né di niente: la fabbrica è un posto dove bisogna faticare e basta. Altri 30 vogliono una politica sindacale democratica e giusta. 20, 25 sono in balia della prima aria che tira e non sanno da che parte stare. E su questi premono gli ultimi 15 che sono estremisti e cercano ogni occasione per rompere i coglioni, per non lavorare e non far lavorare. 15 sono pochi ma bastano per fare casino se gli altri reagiscono.

Una minoranza che fa quello che vuole

È una minoranza però fa quello che vuole, il loro nemico è il primo capo che hanno sottomano, il caposquadra, quasi fosse la controfigura di Agnelli […]. Capo non rompere o ti facciamo sciopero. Capo vaffanculo. Ehi, Capo sei un bastardo, guarda che ti conosco so dove stai e ti prendo fuori di qui. Capo sei un fascista, ti faremo camminare in carrozzella. Capo non fare rapporto in direzione, altrimenti… bisogna subire. C’è chi subisce piegandosi a gesti meschini. Qualche volta è capitato anche a me […].

Una volta ritornavo a casa e mi riposavo o stavo coi figli o facevo dell’altro lavoro. Adesso penso soltanto a ricaricarmi di energia per affrontare la battaglia del giorno dopo in Fiat. Anche dentro sono cambiato. Si metta al mio posto, al posto di una persona che se fa una cosa gli dicono: sbagli; e se ne fa un’altra gli dicono sempre: bastardo, sbagli. Dai e dai, come fa a non sorgerti il dubbio che forse davvero c’è qualcosa in te che non va? […]

Non sono di destra, leggo l’Unità

No, non sono più iscritto al sindacato. E se in fabbrica non lo critico apertamente è solo per paura. Ho degli estremisti in squadra e non voglio finire al traumatologico. Però non pensi che sia di destra […] ogni giorno leggo due giornali, La Stampa e l’Unità, per fare il confronto.

Capisco che al pugno duro di una volta non si torna più, era ingiusto e comunque oggi sarebbe impossibile, e la parola ‘intimidire’ mi fa paura. Per troppi anni in Fiat l’operaio è stato intimidito. Ma adesso quelli che vogliono lavorare, e sono ancora tanti, non respirano più. […] Torino ormai mi fa paura. Non voglio più abitare a Torino, appena potrò, me ne andrò a stare via».

Parla uno dei 61

Il giorno dopo l’inviato incontra uno dei «61»: «Ero un operaio generico del terzo livello. Secondo la Fiat anche un operaio violento, un quasi terrorista, un aiutante delle Brigate rosse: questo è il bollo che Agnelli sta cercando di mettermi in fronte. […] Sono della provincia di Catanzaro […] sbarco qui nel gennaio del 1969. Non ero mai stato fuori dal paese, Torino mi fa spavento. Grande. Brutta. La nebbia. La neve. Mi sono chiesto: ma dove sei arrivato? […] però io pensavo solo alla Fiat […] ci entro il 28 maggio 1969 […] nel 1970 ho cominciato a darmi un po’ da fare sul problema dell’ambiente della verniciatura.

La verniciatura ti toglie la salute

La situazione era disastrosa e anch’io ne risentivo. Ho perso otto denti. E poi le nausee. L’ulcera duodenale. L’udito scassato. In una parola mi sono mosso quando ho visto che pagavo il posto in Fiat con la pelle […] poi ho fatto un incontro importante: Lotta continua. […] Quella lettera mi bolla come violento, e io la contesto! Certo, i miei scioperi per cambiare l’ambiente li ho fatti. E qualche fastidio alla Fiat l’ho dato, ma come tanti altri […]. Perché allora mi hanno messo fuori? La mia risposta è questa, la Fiat conosce vita, morte e miracoli di ciascuno dei suoi operai.

Io sono un operaio politicizzato. Ho sempre cercato di coinvolgere i miei compagni nei problemi del lavoro, per l’ambiente e per i ritmi. Andavo io a controllare, a parlare, a discutere. Insomma, davo fastidio. Così hanno tirato fuori le vecchie liste: in quelle di Lotta continua c’ero anch’io e mi hanno sbattuto fuori […] adesso ci ho fifa. Ho perso il lavoro, non ho copertura politica, i giornali ci danno addosso, io rischio di compromettermi con tutti.

Ho nostalgia di Lc e della Fiat

Se fossi un violento avrei l’anima in pace. Sarebbe una scelta mia. Invece mi sento condannato dalla Fiat senza prove. […] Come ho nostalgia di Lotta continua, ho nostalgia della Fiat. Sono un emigrato, la Fiat è stata la mia casa per dieci anni […] se i sindacati mollano, Brigate rosse e Prima Linea potranno dire: vedete? Nessuno può difendere la classe operaia, siamo rimasti solo noi e le nostre pistole». Agnelli sacrificali o fiancheggiatori del terrorismo, semplici oppositori o pericolosi violenti?

Soltanto due dei «61» risulteranno effettivamente implicati nella lotta armata; la maggior parte accetterà il licenziamento cercando un nuovo lavoro, altri (meno) si rivolgeranno alla magistratura per ottenere il reintegro in fabbrica. Ma quasi nessuno rientrerà in Fiat. Da quel momento i «61» entrano di diritto nella narrazione collettiva della città e segnano, loro malgrado, un nuovo punto di svolta.

L’analisi di Marco Revelli

«L’omicidio di Carlo Ghiglieno da parte di un gruppo di fuoco di Prima Linea determina uno sbandamento nel quadro di comando aziendale e finisce, con uno straordinario effetto boomerang, per accrescere oltre misura il disorientamento operaio, accelerando i processi – già in corso – di disgregazione e di privatizzazione. Non furono molti gli operai Fiat a compiere la scelta della lotta armata: 62 in tutto, ne segnala il Ministero dell’Interno, di cui due membri della direzione strategica – entrambi delegati sindacali – e molti militanti con ruoli minori, concentrati con maggior intensità alle Presse di Mirafiori.

La devastazione della comunità di fabbrica

Ma l’effetto sulla comunità di fabbrica fu devastante, paragonabile a quello dell’avvelenamento dei pozzi nelle comunità rurali. I delicati canali della comunicazione informale e della fiducia, costruiti pazientemente in anni di conflitto, furono d’improvviso disseccati. Il meccanismo della diffidenza e della paura ritornò a isolare e dividere. Il mito della piena trasparenza dei rapporti interpersonali – l’idea antica che in fabbrica si conoscono gli uomini nella loro piena autenticità – fu infranto.

L’ombra della clandestinità di alcuni finì per rendere ognuno clandestino a ogni altro; per inibire la comunicazione e la solidarietà con chi non si sapeva più quale identità celasse. Divenne impossibile denunciare pubblicamente un capo, quando si rischiava che questo pochi giorni dopo venisse gambizzato.

Tutti diventano clandestini

Divenne difficile continuare a usare lo stesso linguaggio del conflitto, il lessico che per quasi un decennio aveva strutturato un modo d’essere e di comunicare collettivo, una volta fatto proprio dai messaggi di morte dell’area armata. Gli spari delle Br non ruppero il silenzio operaio. Contribuirono a renderlo più avaro, e pesante»

Fonte: S. Caselli – D. Valentini, Anni spietati, Laterza 2012.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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