Andreotti e Pecorelli: giusta la sentenza di assoluzione
Di Andreotti, morto oggi, diranno tutto il bene e tutto il male del mondo. Io mi limiterò a raccontare quello che so sui temi su cui ho specifica competenza. Il delitto Pecorelli quindi, dall’accusa come mandante all’assoluzione finale. Sull’argomento ho scritto con una certa profondità due volte: nella prima edizione di Fascisteria (2001) e nella rubrica “Controcanto” che ho tenuto per qualche mese nel portale “Notte Criminale” di Alessandro Ambrosini e Marina Angelo, nell’inverno del 2010. In questa sede ho rafforzato le mie argomentazioni sull’innocenza di Massimo Carminati, il neofascista e poi bandito accusato di essere il killer del giornalista: perché ho avuto modo di leggere i verbali di Abbatino (prima mi ero accontentato dei libri che li sintetizzavano, da Bianconi a Flamigni). E qui emerge con chiarezza un dato: Carminati stringe i rapporti con la banda della Magliana tra tarda primavera ed estate del 1979, quindi almeno 2-3 mesi dopo il delitto. Mi sembra quindi del tutto ovvio che i banditi non affidassero un così delicato “contratto” a un semisconosciuto. Qui il capitolo di Fascisteria sul delitto Pecorelli, seguirà in un altro post gli articoli pubblicati su Notte Criminale. Il testo che segue è diverso dall’originale a stampa. Le note sono state integrate nel testo, per una più agevole lettura sono stati omessi i riferimenti bibliografici
Massimo Carminati è arrestato per aver fornito il mitra al Supersismi utilizzato nel principale depistaggio sulla strage di Bologna [ma alla fine sarà assolto, nda] nell’aprile del 1993, nel blitz scatenato dalle rivelazioni di Abbatino, uno dei pochi soci fondatori ancora vivo, l’ultimo arrestato, in Venezuela, dove era riparato per sottrarsi alle ricerche incrociate. Le confessioni di “Crispino”, il rapitore di Aleandri, scateneranno un’altra ondata di “pentimenti” e nuovi guai giudiziari per Carminati, “accusato” da Fabiola Moretti (“proprio Abbruciati mi disse – racconta Fabiola – di aver dato l’incarico a Massimo Carminati”), e dal marito, Antonio Mancini, l’“accattone”, che collabora con i giudici ma conserva un’alta considerazione della propria personalità criminale: “Per i miei trascorsi, per le lunghe carcerazioni subite, per la dignità sempre dimostrata e per il rispetto del codice di omertà al quale mi sono sempre attenuto, nell’ambiente carcerario sono sempre stato considerato una specie di mito (…) io so’ un delinquente serio, un appartenente alla banda della Magliana, so’ la storia della malavita”
Per la coppia Carminati, con il mafioso Michelangelo La Barbera, ha ucciso Mino Pecorelli, il giornalista con ottime entrature negli ambienti dei servizi segreti e della massoneria che era entrato in conflitto con Gelli e Andreotti. “L’eliminazione di Pecorelli era stata fatta – spiega Fabiola Moretti – nell’interesse della mafia siciliana e di gruppi di potere massonico ed era stata ordinata da Claudio Vitalone, il magistrato. Vitalone non aveva direttamente commissionato l’omicidio ad Abbruciati, ma lo aveva fatto attraverso altre persone. Il delitto era servito a noi della Magliana per favorire la crescita del gruppo, agevolando entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere”. La replica di Vitalone – protagonista di un rabbioso confronto con la donna – è sprezzante:“Ma che c’entra la morte di Pecorelli con la mafia? Pecorelli era uomo legato ai servizi segreti. È lì che dovrebbero scavare. Io sono una vittima di una provocazione politica”.
E’ proprio la Moretti, all’epoca del delitto compagna di Abbruciati e spacciatrice di eroina, ad offrirne un ritratto non compiaciuto eppure ammirato. A lei, di famiglia proletaria, il neofascista che si era voluto fare bandito non piaceva: “Lo sentivo diverso da noi. Noi commettevamo certe azioni perché avevamo bisogno di vivere, e non conoscevamo altro modo che quello per vivere. Massimo Carminati e i fascisti come lui commettevano le stesse azioni per gusto, per fanatismo ideologico, e ne ricavavano anche soldi, ma il movente primo era l’ideologia. Per questo non mi piaceva, e lo dissi a brutto muso a Danilo, il quale invece la pensava diversamente, mi diceva che Massimo era un bravo ragazzo, lo stimava moltissimo (…) Massimo era un tipo taciturno, serio, educato rispetto alla media delle persone che frequentavamo (…) Era stato coinvolto in un conflitto a fuoco, diceva sempre che dopo quell’episodio in cui sarebbe potuto morire, ogni giorno in più di vita era tanto di guadagnato, mostrando così una sorta di disinteresse per la morte”. Su una circostanza la Moretti è imprecisa: al valico di frontiera con la Svizzera non ci fu conflitto a fuoco, ma i poliziotti – informati da Cristiano Fioravanti – appostati spararono a freddo, senza dare l’alt e furono sottoposti a procedimento giudiziario (ovviamente senza conseguenze).
Pecorelli – un giornalista dallo stile allusivo e ricattatorio – era ben informato su molti misteri d’Italia, dal caso Moro allo scandalo dei petroli e a tanti aveva dato fastidio. Aveva frequenti contatti con i servizi segreti e aveva regolarmente preso la tessera della P2 ma non aveva esitato a dimettersi, nel 1978, quando le richieste di sostegno finanziario a OP erano state deluse, ripagando Gelli in contanti, con un ritratto feroce quanto veridico: “Ex nazista, agente dei servizi segreti argentini, amico personale di Lopez Rega e fondatore degli squadroni della morte AAA in America latina, legato alla Cia, a Connally e ai falchi americani”. Che poi nel corso dello stesso articolo Pecorelli tentasse di smontare le accuse, arrivando a disegnare un ritratto di Gelli sincero democratico, partigiano combattente e amico di Ceausescu non è cosa di cui far conto. Il giornalista era maestro nel gioco – in cui erano specializzati i professionisti del depistaggio – di rivelare verità sconcertanti per poi buttare tutto sul ridicolo come se fossero false. Un mese prima di essere ammazzato aveva rilanciato la sfida, pubblicando l’elenco dei 56 fascisti pistoiesi “venduti” da Gelli al CNL per acquisire benemerenze antifasciste, prime vittime del suo doppiogiochismo. La sera in cui è ucciso Pecorelli aveva in agenda un appuntamento “a cena con Licio”. Non è dato sapere chi sia, ma può essere il capo della P2.
Qualcuno ha richiamato l’attenzione sull’inquietante riferimento che Pecorelli fa – in una “telecronaca” del ritrovamento del cadavere di Moro a via Caetani pubblicata su OP del 23 maggio 1978 – alla circostanza che la Renault 4 era stata abbandonata dai brigatisti a ridosso del teatro di Balbo, un importante rudere dell’antica Roma. All’epoca nulla si sapeva di Gladio, del ruolo di Moro come garante della fedeltà atlantica con l’uso spregiudicato degli omissis nelle operazioni sporche del Sifar e del Sid, delle ammissioni del leader dc – sottovalutate dalle Br – sulla struttura di sicurezza Nato usata in chiave anti–Pci. Pecorelli sapeva e fece sapere nel solito stile. Del resto era circondato di collaboratori ad ampio spettro ideologico che gli garantivano una copertura informativa a 360°: da Sergio Te, avanguardista, il primo – sul Secolo d’Italia – a parlare di omicidio dopo la scomparsa di Armando Calzolari, il tesoriere del Fronte nazionale, a Paolo Patrizi che le sue prime esperienze redazionali le aveva consumate nella Classe, il settimanale romano del ‘68 del gruppo che avrebbe dato vita a Potere operaio. Sarà naturalmente Te, all’epoca direttore responsabile Costruiamo l’azione, il successore di Pecorelli.
È del resto bizzarro il percorso del “mandato” dell’omicidio, per come lo ricostruiscono i magistrati di Perugia. L’omicidio Pecorelli, per Tommaso Buscetta, è “Cosa nostra”: a Rio de Janeiro nel 1982 don Tano Badalamenti avrebbe spiegato a don Masino “che l’omicidio Pecorelli era stato fatto eseguire da lui e da Bontate su richiesta dei cugini Salvo (…) che ne avevano chiesto l’uccisione perché disturbava politicamente (…) a chiedere quell’esecuzione ai Salvo fu Giulio Andreotti”. A sua volta Salvatore Cancemi, sostituto di Calò e poi collaboratore di giustizia, riferisce “con assoluta certezza quello che Pippo Calò mi disse: che esso fu voluto e organizzato da uomini d’onore di Cosa Nostra. Calò ne parlava come di una cosa nella quale era entrato pure lui. E mi spiegò che dell’esecuzione materiale si era occupata la decina romana di Stefano Bontate (…) Il supporto logistico agli uomini che dovevano eseguire l’omicidio è stato dato da persona che, conoscendo la città, potevano studiare il posto più idoneo per eseguire il delitto, indicare vie di fuga, assicurare ospitalità agli esecutori venuti da fuori. Non è un mistero per nessuno quanto Danilo Abbruciati fosse persona molto vicina a Calò”. La circostanza non desta meraviglia: all’epoca la Commissione di Cosa nostra era ancora controllata dai “palermitani” e gli “affari” erano gestiti unitariamente con i “corleonesi”. Così alla fine degli anni ‘70 non esisteva ancora come realtà unitaria la banda della Magliana. Agli inizi del 1979 il processo di aggregazione dei migliori elementi della malavita romana in un’organizzazione capace di garantire il controllo del territorio e di scongiurare, dopo la bancarotta dei “marsigliesi”, nuove “invasioni” è appena avviato: per gli esperti di fusione si può parlare solo nell’autunno 1980, nella campagna per vendicare Giuseppucci, assassinato dalla famiglia Proietti per allungare le mani sulle scommesse ippiche clandestine. Lascia perplessi l’ipotesi che Vitalone – per commissionare un omicidio a Roma – debba cercare i killer a Palermo, avendo linee di collegamento dirette con Abbruciati: suo fratello Wilfredo difende di molti affiliati della banda e sarà accusato del riciclaggio di Bot rubati per 700 milioni, consegnati da Diotallevi a Carboni e da questi girati a Calvi.
Aldilà delle semplificazioni giornalistiche, che per anni hanno ricondotto tutte le attività criminali a Roma alla banda della Magliana, i “bravi ragazzi” sono stati solo una componente, sia pure significativa, di un articolato complesso politico–affaristico–criminale. A Roma hanno continuato ad esistere batterie indipendenti di rapinatori e di sequestratori, come hanno mantenuto il controllo di numerose “piazze” bande autonome di spacciatori. Il giro degli strozzini e dei “finanzieri sporchi” (Balducci, Sbarra, lo stesso Diotallevi) sarà percepito dai “bravi ragazzi” come una realtà contigua ma non organica alla banda. La resa dei conti finale agli inizi degli anni ‘90 avrà per oggetto la gestione dei proventi del riciclaggio di denaro sporco e vedrà schierati su opposti fronti i “duri e puri” della Magliana (Edoardo Toscano, i fratelli Carnovale) ridotti in miseria da anni di stravizi e dalla sospensione delle attività per le lunghe carcerazioni e i testaccini, gli eredi di Abbruciati che si erano arricchiti reinvestendo i soldi nel giro degli strozzini.Il punto d’intersezione di queste diverse realtà era stato rappresentato da Danilo Abbruciati, capo di una batteria di rapinatori, uomo di fiducia di Calò che dei “colletti bianchi” era la stella polare. La difesa di Vitalone – l’omicidio Pecorelli è affare da servizi segreti – trova conferma nella richiesta della Procura di Perugia di annettere al processo la posizione di Mario Fabbri, n.3 del Sisde, del suo vice Giancarlo Paoletti e del suo collaboratore Vittorio Faranda accusati di false dichiarazioni per aver negato, con ostinazione degna di miglior causa, le visite in carcere (in epoca successiva al delitto) ad Abbruciati. Di diverso parere il giudice dell’udienza preliminare che nell’ottobre 1995 ha disposto il rinvio a giudizio dei tre funzionari con rito immediato in un procedimento separato dal principale che vede alla sbarra mandanti (Andreotti e Vitalone), organizzatori (Calò e Badalamenti) ed esecutori (La Barbera e Carminati). Al rinvio a giudizio Vitalone, consigliere della corte d’Appello di Firenze, ha chiesto al Csm di essere sollevato dalle funzioni fino alla definizione della posizione giudiziaria.
All’inizio del processo ai tre 007, nel marzo ’96, la Moretti si sta curando da una malattia nervosa e non si presenta a testimoniare. Pochi giorni dopo è coinvolta in una retata contro una banda attiva sul litorale pontino, collegata alla ’ndrangheta e al clan dei “casalesi”. Lei è accusata di un traffico di droga precedente la collaborazione. I giornali parlano di arresto ma l’avvocato smentisce. In un appartamento di Aprilia sono arrestati in quattro, accusati di aver rapinato furgoni portavalori. In un assalto, nel dicembre ’92, sono state usate armi da guerra ed è finito con una sparatoria con i carabinieri. Ai quattro è contestata la banda armata: due di loro hanno precedenti politici, al seguito di Egidio Giuliani. Benito Allatta, figlio di Pompeo, l’omicida di Sezze Romano, era accusato dell’attentato a Palazzo Marino di Milano alla vigilia della strage di Bologna, Fabio Zanini era stato arrestato nella primavera dell’81, a venti anni, per il covo di Torvajanica. La sentenza del processo di Perugia smonta la credibilità della Moretti: sono tutti assolti gli imputati, da Andreotti a Carminati, l’accusatrice è indagata per calunnia.
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