Giugno 1937: il leader del Poum Andres Nin torturato e ucciso dagli agenti sovietici

Nin, Andrés. – Uomo politico spagnolo (Vandrell, Tarragona, 1892  – Madrid 1937). Fu tra i fondatori del Partito comunista di Spagna e segretario dell’Internazionale sindacale rossa, motivo per cui dal 1922 al 1930 visse in URSS, finché ne venne espulso perché su posizioni trotskiste. Fondò nel 1935 il Partido obrero de unificación marxista, che fu tra le forze attive del governo autonomo di Catalogna. Durante la guerra civile contribuì alla causa repubblicana e cercò di fondere l’autonomismo catalano con un radicale antifascismo, in polemica con la politica di alleanze del fronte popolare. Fu ucciso da agenti sovietici.

Così in dieci righe il dizionario biografico Treccani presenta la figura del leader della sinistra antistalinista nella guerra civile spagnola. La data della morte è incerta. Catturato dagli sgherri stalinisti il 16 giugno con tutto il gruppo dirigente del Poum è ucciso dopo alcuni giorni di tortura perché non cede e non è disponibile a una confessione da “processo di Mosca”. Per restare a Wikipedia, la versione inglese fissa la data al 20 giugno, la pagina spagnola mette un punto interrogativo al 22 giugno, quella italiana accetta la seconda data (e toglie il punto interrogativo).

Il racconto di Hernandez Tomas

Figlio di contadini e militante del PCE sin dal 1921, Jesús Hernández Tomás (1907-1971) fece una brillante carriera nelle file dello stalinismo spagnolo: tornato dall’URSS nel 1931 dopo avervi seguito i corsi alla Scuola Leninista di Mosca, a partire dal 1932 fu membro dell’Ufficio Politico del PCE e redattore capo dell’organo del partito Mundo Obrero, venne eletto deputato nel 1936 e fu ministro della Pubblica Istruzione del governo presieduto dal socialista Francisco Largo Caballero, del quale provocò la crisi nel maggio 1937 su ordine degli emissari di Stalin, Togliatti in testa.

Dopo la vittoria di Franco emigrò nell’URSS, e successivamente in Messico. Espulso dal PCE nel 1943, nove anni dopo ultimò la stesura di un volume autobiografico che contiene, tra l’altro, importanti rivelazioni sulla presenza e sul ruolo di Togliatti in Spagna. Da questo libro (Yo fuí un ministro de Stalin, Editorial América, México 1953) sono tratti i brani qui pubblicati. La fonte è un dossier curato da Paolo Casciola, autore di una biografia di Pietro Tresso, leader trotskista italiano, ucciso da partigiani stalinisti francesi nel 1944. L’oggetto il ruolo diretto di Togliatti nella liquidazione del leader del Poum.

Gli arresti del Poum decisi dai sovietici

«Poco fa mi hanno chiamato al Comitato Centrale» spiegò [il colonnello Ortega]. «Togliatti, Codovilla, la Pasionaria e Checa vi si trovavano con Orlov. Mi hanno ordinato di trasmettere per via telegrafica al compagno Burillo (il comandante delle Guardie d’assalto che operava a Barcellona già da alcune settimane come sovrintendente all’ordine pubblico) il mandato di arresto di Nin, Gorkin, Andrade, Gironella, Arquer e tutti gli elementi del POUM indicati da Antonov-Ovseenko o Staševskij (il primo operava in Catalogna come Console, mentre il secondo era addetto commerciale dell’URSS). Le pattuglie di polizia che dovevano agire si trovavano già a Barcellona.» […] Né Díaz [segretario generale del PCE] né io aprimmo bocca. Qualsiasi spiegazione avrebbe rivelato, più di quanto non si presagisse, il disaccordo esistente tra i membri dell’Ufficio Politico e quello nostro con la delegazione sovietica. Pochi minuti dopo eravamo in strada. Ci congedammo da Ortega. Salimmo sulla mia automobile e ci dirigemmo alla sede del Comitato Centrale. […]

La Pasionaria: una cosa insignificante

«Chi ha ordinato ad Ortega di inoltrare i mandati di arresto contro gli uomini del POUM?» chiese Díaz. «Noi» rispose la Pasionaria. «Non volevamo disturbarti per una cosa tanto insignificante… Che importanza può avere la detenzione ad opera della polizia di un pugno di provocatori e di spie?» domandò poi con malevolenza. «La detenzione degli uomini del POUM non è un affare poliziesco, ma politico» replicò Díaz. Codovilla sorrideva con una malvagità quasi sadica. Stringeva tra le mani la sua piccola pipa. E senza abbandonare il suo atteggiamento insolente dichiarò: «Pepe [José Díaz] dovrebbe prendersi delle vacanze. L’eccesso di lavoro e la malattia lo hanno esaurito. Queste reazioni sono il riflesso di uno stato di ipertensione. Il fatto che i compagni non vogliano disturbarti con delle sciocchezze è perfettamente comprensibile, viste le tue condizioni di salute. […]» Era un avvertimento rivolto a Díaz affinché si allontanasse per un certo periodo dal lavoro di direzione. La delegazione sovietica incominciava ad adottare delle misure precauzionali. «Dopo verrà il mio turno» mi dissi mentalmente. […]

La rabbia del presidente Negrin

Quarantotto ore dopo una chiamata urgente della Presidenza della Repubblica mi fece sapere che Negrín mi attendeva nel suo ufficio. Non appena vi entrai, il presidente congedò la stenografa alla quale stava dettando e, senza tanti preamboli, mi chiese: «Che ne avete fatto di Nin?» «Di Nin? Non so cosa gli sia successo» dissi, ed era vero. Negrín, con evidente collera, mi spiegò che il Ministro degli Interni lo aveva messo al corrente di tutta una serie di soprusi commessi a Barcellona dalla polizia sovietica, che agiva come se fosse a casa sua, senza nemmeno prendersi il disturbo di avvertire le autorità spagnole, foss’anche soltanto per delicatezza, della detenzione di cittadini spagnoli; che tali prigionieri venivano trasferiti da una parte all’altra senza alcun mandato né autorizzazione giudiziaria e rinchiusi in prigioni speciali, completamente al di fuori del controllo delle legittime autorità; che alcuni dei detenuti erano stati condotti a Valencia, ma Andrés Nin era scomparso.

La Generalitat attacca la Gpu

Il Presidente della Generalitat [il governo catalano] gli aveva telefonato, allarmato e offeso, definendo il modo di agire di Orlov e della GPU [cioè dei servizi segreti staliniani] in territorio catalano come un attentato ai diritti civili. Non sapevo cosa rispondergli. Potevo dirgli che la pensavo come lui, come Zugazagoitia, come Companys, e che anch’io mi chiedevo dove stesse Nin e aborrivo Orlov e la sua sbirraglia. Ma non mi decidevo a farlo. […] Negrín insistette: «Nin è un ex consigliere della Generalitat di Catalogna. Se esistono a suo carico le prove di un delitto, esse dovranno essere sottoposte al tribunale per le garanzie costituzionali.»

«Suppongo» dissi «che la scomparsa di Nin sia dovuta ad un eccesso di zelo dei “tovarišč” [“compagni”, in russo], che lo terranno prigioniero in uno dei loro carceri, ma non credo che la sua vita corra alcun pericolo.» […] Promettendogli di appurare cosa vi fosse di certo a proposito del sequestro di Nin e di informarlo immediatamente, mi congedai da lui. Mi recai immediatamente alla sede del nostro partito. Nell’ufficio di Díaz […] trovai Codovilla e Togliatti. La meraviglia si dipinse sui loro volti quando riferii della conversazione avuta con Negrín. Non potei sapere se facessero sul serio o se si trattasse di una commedia.

Il silenzio di Palmiro Togliatti

Codovilla avanzò la supposizione che i compagni del «servizio speciale» avessero tenuto prigioniero Nin allo scopo di interrogarlo o di sbrigare alcune pratiche prima di consegnarlo alle autorità. Togliatti, impenetrabile e già riavutosi dalla sua sorpresa vera o presunta, non diceva nulla. Di fronte alla mia insistenza sul fatto che avremmo dovuto sapere qualcosa di più prima delle quattro pomeridiane, ora in cui avrebbe avuto inizio la riunione del Consiglio dei Ministri, egli aprì la bocca soltanto per dire che non dovevamo prendere la cosa sul tragico, dal momento che i compagni del «servizio» sapevano quello che facevano, non erano nuovi a quel genere di cose e, prima di ogni altra cosa, erano dei politici. Promise di recarsi all’ambasciata [sovietica] per informarsi dell’accaduto. E vi si recò. [Al ritorno, Togliatti] ci disse che all’ambasciata non ne sapevano nulla, né di dove si trovasse Nin, né di dove fosse Orlov. Tutto il mio nervosismo e la mia inquietudine esplosero irosamente.

Dissi loro che non avrei assistito al Consiglio dei Ministri, che non volevo essere lo zimbello di Orlov e compagnia in una faccenda che sin dal primo momento mi era sembrata losca e inopportuna. «Non mostrarsi ed evitare il dibattito significherebbe dar prova di grande inettitudine. Eludete il caso concreto di Nin e fatevi forti dell’esistenza di prove che dimostrano che i dirigenti del POUM erano in contatto con il nemico. Non scendete sul loro terreno. Sollevate il dibattito attorno all’esistenza o all’inesistenza di un’organizzazione spionistica. Una volta dimostrata, come è possibile fare, l’esistenza di tale organizzazione, lo scandalo del dove si trova Nin perderà importanza. E quando Nin ricomparirà, sarà già colpevole di tradimento.»

Tutti colpevoli del delitto

Da questa affermazione di Togliatti dedussi che egli era già a conoscenza di tutta la trama imbastita da Orlov e che la sua visita all’ambasciata non era stata inutile. […] Del crimine contro Andrés Nin non furono responsabili soltanto gli autori materiali del delitto. Lo fummo tutti quanti, per sottomissione o per timore nei confronti di Mosca. Pur avendolo potuto impedire, con la nostra condotta lo facilitammo. In seguito, la consapevolezza della nostra complicità mise a tacere le lingue o, come nel nostro caso, aggiunse l’infamia al delitto. […]

Andrés Nin, il vecchio amico di Lenin, di Kamenev, di Zinov’ev e di Trotsky, venne assassinato in Spagna dalla stessa mano che in Russia aveva sterminato fisicamente tutta la vecchia guardia bolscevica. Ecco la storia di questo delitto.

Orlov e la sua banda sequestrarono Nin al fine di strappargli una confessione «volontaria» con cui egli avrebbe dovuto riconoscere il suo ruolo di spia al servizio di Franco. Gli aguzzini, esperti nell’arte di «piegare» i prigionieri politici e nell’ottenere confessioni «volontarie», credettero di trovare nelle precarie condizioni di salute di Andrés Nin un materiale adeguato per offrire a Stalin il successo voluto.

Ma Nin regge la tortura

Gli interrogatori si susseguirono notte e giorno, senza inizio né fine, nel corso di giornate lunghe dieci, venti o quaranta ore, senza interruzione. […] Con Nin, Orlov incominciò facendo uso del metodo «secco». Un continuo susseguirsi di «confessa», «parla», «ammetti», «ti conviene», «puoi salvarti», «è meglio per te», alternando i consigli alle minacce e agli insulti. Si tratta di un procedimento scientifico tendente ad esaurire l’energia mentale del prigioniero e a demoralizzarlo.

La fatica fisica lo vince a poco a poco, l’assenza di sonno gli ottunde i sensi e la tensione nervosa lo distrugge. Così viene minata la sua volontà. […] Ma Nin non capitolava. Resisteva fino a svenire. I suoi carnefici si spazientivano. Decisero di abbandonare il metodo «secco». D’ora innanzi l’integrità e la capacità di resistenza fisica dell’uomo sarebbero state messe alla prova dal sangue vivo, dalla pelle lacerata, dai muscoli fatti a pezzi.

Nin sopportò la crudeltà della tortura e il dolore causatogli dai raffinati tormenti cui lo sottoposero. In capo a pochi giorni la sua figura umana si era trasformata in una massa informe di carne tumefatta. Orlov, preso dalla frenesia e impazzito per paura di un insuccesso che avrebbe potuto significare la propria liquidazione, sbavava di rabbia di fronte a quell’uomo malaticcio che agonizzava senza «confessare», senza compromettere se stesso né i suoi compagni di partito, che con una sola parola detta da lui sarebbero stati condotti davanti al plotone di esecuzione, con gran giubilo e soddisfazione del padrone di tutte le Russie. La vita di Nin si stava spegnendo. […]

L’esecuzione e il finto sequestro

Quella situazione non poteva protrarsi ancora per molto. Lasciarlo in vita significava andare incontro ad un duplice scandalo. Tutto il mondo avrebbe potuto appurare i terribili tormenti fisici cui egli era stato sottoposto e, quel che era peggio, Nin poteva denunciare tutta l’infame trama ordita dagli sbirri di Stalin in Spagna. Allora i carnefici decisero di finirlo. Quei professionisti del crimine pensarono a come farlo. Dargli il colpo di grazia e abbandonarlo in un fosso? Assassinarlo e seppellirlo? Bruciarlo e spargere al vento le sue ceneri?

Ognuna di queste soluzioni aveva però lo svantaggio di non esonerare la GPU dalla responsabilità del crimine, dal momento che era risaputo che l’artefice del sequestro era proprio la GPU. Occorreva dunque trovare una soluzione che, scagionando la GPU dalla responsabilità della «scomparsa» di Nin, accusasse nello stesso tempo Nin, mettendo a nudo i suoi rapporti con il nemico.

Il piano diabolico di Vidali

La soluzione venne ideata, sembra, dalla mente diabolica di uno dei più crudeli collaboratori di Orlov, il «comandante Carlos» (Vittorio Vidali, come si chiama in Italia, o Arturo Sormenti e Carlos Contreras, come si era fatto e si faceva chiamare in Messico e in Spagna). Il suo piano fu il seguente: simulare un rapimento ad opera di agenti della Gestapo travestiti da uomini delle Brigate Internazionali, un assalto alla prigione di Alcalá de Henares e una nuova «scomparsa» di Nin. Dopo di che si sarebbe sparsa in giro la voce che i nazisti lo avevano «liberato». Ciò avrebbe dimostrato i contatti di Nin con il fascismo nazionale e internazionale. Nel frattempo Nin sarebbe stato fatto sparire definitivamente. […]

Del fatto che Nin fosse stato assassinato ebbi piena certezza il giorno successivo alla consumazione del delitto. La compagna X. mi fece sapere di aver trasmesso a Mosca un messaggio nel quale si diceva: «Affare A.N. risolto secondo il procedimento A.» Le iniziali coincidevano con quelle di Nin. Che cosa poteva essere il «procedimento A»? L’assurda versione del «rapimento» ad opera di agenti della Gestapo rivelava il crimine della GPU. Quindi la «A», nel codice della delegazione sovietica, significava morte.

Se così non fosse stato, la delegazione ‒ cioè Togliatti, Stepanov, Codovilla, Gerő, ecc. ‒ non avrebbe parlato di «affare risolto». Il processo che seguì contro gli altri dirigenti del POUM fu una farsa grossolana. Basato su documenti falsificati e su dichiarazioni strappate a miserabili spie di Franco. A costoro promisero di salvare la vita (e invece vennero fucilati) se avessero dichiarato di aver mantenuto dei contatti con gli uomini del POUM. I magistrati e i giudici condannarono questi ultimi perché dovevano farlo, perché era stato loro ordinato di condannarli.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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