10 ottobre 1953: nasce il boss della Magliana, Edoardo Toscano

edoardo toscano

Edoardo Toscano, nato a Roma il 10 ottobre 1953, è tra i fondatori della banda della Magliana come componente della batteria di Ostia che faceva capo a Nicolino Selis. Il suo ruolo è decisivo per far cadere in trappola e ammazzare il “sardo” che di lui si fidava. E’ ammazzato dai testaccini a un mese dall’uscita dal carcere, il 16 marzo 1989.
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Le minacce a Renatino

Nell’aria di guerra interna che si respirava, Fabiola Moretti e Antonio Mancini, «l’accattone», che aveva preso il posto di Danilo Abbruciati nel cuore della ragazza dopo la sua morte, cercarono di barcamenarsi a causa dei legami che continuavano ad avere sia con gli uni che con gli altri.

Colafigli e Toscano accusavano De Pedis di non aiutarli adeguatamente, e pretendevano le loro parti di guadagno sugli affari di «Renatino»; «Marcellone», dal carcere, inviò un suo amico di Primavalle da un altro «testaccino» che gestiva le sale giochi di quel quartiere, minacciandolo se non avesse accettato di «steccare» con lui i suoi guadagni.

La mediazione di Mancini

In carcere Antonio Mancini venne a sapere dei piani di morte dei suoi amici, e tentò di intervenire: «Colafigli e Toscano avevano deciso di far fuori “Renatino”. Io, siccome De Pedis, attraverso Fabiola Moretti, provvedeva alle mie esigenze e a quelle della stessa Moretti, mi ero intromesso tra gli uni e l’altro, per evitare che a De Pedis potesse accadere qualcosa».

Da quando era diventata la sua donna, «l’accattone» aveva voluto che Fabiola non vendesse più la droga, e per questo De Pedis cominciò a passare la «settimana» per lei e per Mancini. Il fatto suscitò gelosie e rimostranze nelle altre donne, che invece riscuotevano i soldi da Claudio Sicilia, giudicato troppo parsimonioso rispetto a De Pedis. Arrestato «Renatino», anche la Moretti si rivolse a Sicilia, ma De Pedis continuò a farle arrivare altro denaro attraverso i suoi «luogotenenti».

Gli sforzi di Fabiola Moretti

Era stata Fabiola a chiedere a Mancini di intervenire in favore di De Pedis; a «Renatino» scrisse anche una lettera in carcere, avvisandolo dei rischi che correva. La ragazza portò cinque milioni di De Pedis alla moglie di Toscano, per provare a tacitare le richieste di quelli che stavano dietro le sbarre, e cercò fino all’ultimo di ricucire lo strappo tra gli amici di un tempo. Ma non ci fu niente da fare.

Una sua temporanea rottura con Mancini fu addirittura utilizzata da «Marcellone» e «l’operaietto» per mettere «l’accattone» contro De Pedis: «Gli attribuivano la colpa del fatto che io avessi lasciato Antonio», ricorderà Fabiola Moretti,«ma si trattava di un pretesto. “Renatino” e Antonio avevano infatti avuto modo di chiarirsi, e il primo aveva spiegato al secondo le ragioni per cui io non volevo più stare con lui. In realtà quello a cui miravano i due erano i soldi di “Renatino”».

Il no del capo dei testaccini

Il capo dei “testaccini” non voleva saperne di continuare a versare denaro a quei due carcerati e mettersi a «steccare» con loro. Non doveva nulla a nessuno, diceva, perché fino a quel momento i guadagni della banda erano sempre stati divisi alla pari, e se lui aveva fatto fruttare i soldi mentre gli altri se li erano mangiati non poteva farci nulla. «E poi», disse una volta a Fabiola, «se gliela do vinta adesso, finisce che quelli pretenderanno che io gli allacci pure le scarpe.» Ma «quelli», dall’altra parte, insistevano, e la situazione era giunta a un punto che ormai potevano parlare solo le pistole.

Edoardo Toscano, classe 1953, detto «l’operaietto» perché si industriava sempre e dimostrava di sapersela cavare in ogni circostanza, prima segnalazione per furto a 18 anni non ancora compiuti, primo arresto per rapina e tentato omicidio a 22, considerato dagli amici uno «studioso di criminalità» perché si informava su tutti i delitti che avvenivano non solo in Italia e sui modi per sottrarsi alla giustizia; piccolo di statura, naso ingombrante e occhi un po’ in fuori, uscì di galera, in libertà provvisoria, la mattina del 13 febbraio 1989. Aveva 35 anni e mezzo, e una gran voglia di ammazzare il suo ex amico De Pedis prima di fuggire all’estero.

Il tradimento del cassiere

«”Renatino”», continua il racconto della Moretti, «venne a sapere che Edoardo lo cercava e ritenne di doverlo uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Bruno Tosoni “reggeva” i soldi di Toscano, circa cinquanta milioni di lire, offrì a costui una somma di altri cinquanta milioni perché attirasse Toscano in un’imboscata. L’incarico di uccidere Toscano venne dato da “Renatino” a “Cileno” e a “Ruffetto”… Anche in altre occasioni “Rufetto” era stato usato come killer dai testaccini».

Si stava riproducendo, inesorabile, il meccanismo di qualche anno prima con Nicolino Selis e i suoi amici, quando i complici di un tempo si cercavano per ammazzarsi.

Scatta la trappola

La mattina del 16 marzo, quando era libero e stava sulle tracce di De Pedis già da un mese, Edoardo Toscano andò a Ostia. Lì, poco prima di mezzogiorno, aveva appuntamento con il suo «cassiere»: quel Bruno Tosoni, occupazione panettiere, che a cinquantadue anni aveva sì la qualifica di «sorvegliato speciale», ma era riuscito a contenere le noie con la giustizia. Bruno, baffoni alla Stalin e capelli imbiancati sulle tempie, gestiva due panifici, uno dei quali nella centralissima via della Marina, tra una pizzeria e un negozio di lingerie e costumi da bagno.

Edoardo arrivò al panificio, Bruno uscì e i due si misero a parlare sul marciapiede, sotto un sole pallido: Tosoni con le spalle alle vetrine, Toscano di fronte a lui, spalle alla strada. Stavano discutendo da qualche minuto quando dietro a Edoardo comparve il suo assassino: tre colpi di pistola, altrettanti lampi, un proiettile nel cranio e uno nel torace; il boss della Magliana cadde sui vasi di oleandri che era già morto, si dovette aspettare l’arrivo dei poliziotti perché qualcuno gli chiudesse gli occhi e lo coprisse con un lenzuolo.

A esecuzione avvenuta il killer era scomparso a bordo della solita moto rombante con complice protetto dal casco integrale. Bruno Tosoni rimase ferito di striscio a un piede, lo portarono in ospedale, guarì in trenta giorni. Dovette sostenere gli interrogatori dei poliziotti e del giudice, ma anche degli amici dell’ «operaietto» che s’erano già messi a caccia di chi l’aveva ammazzato.

La rabbia degli amici

Andò il «coniglio», Vittorio Carnovale:«Dopo l’omicidio di Edoardo, quando Tosoni uscì dall’ospedale, io e Mancone ci recammo da lui per chiedergli come e chi avesse fatto “la carica”. Tosoni ci descrisse la persona che aveva sparato: un uomo robusto, con capelli lunghi che secondo lui erano una parrucca, che zoppicava. Secondo quanto ci disse Tosoni questa persona attraversò la strada proveniente dalla banca, Edoardo l’aveva di spalle mentre lui se l’era trovato di fronte, sicché l’aveva notata… Ci disse che dopo che l’uomo aveva sparato era fuggito a bordo di una moto sopraggiunta nel frattempo. A dire del Tosoni, il quale fu molto evasivo, il conducente della moto aveva il casco ed egli non aveva mai visto prima la persona che aveva sparato»181.

Due giorni prima di morire, nell’aula della Corte d’Assise d’appello dove era stato assolto come gli altri imputati della banda, Edoardo aveva incontrato il suo amico Colafigli. Gli disse che avrebbe chiarito tutto con le persone che avevano degli obblighi nei suoi confronti: non fece in tempo, oppure il chiarimento non fu sufficiente.

FONTE: Giovanni Bianconi, Ragazzi di malavita.

I dubbi di Nicotri

Il racconto di Fabiola Moretti al magistrato così prosegue. «Sapendo che Bruno Tosoni “reggeva” i soldi di Toscano, circa cinquanta milioni di lire, offrì a costui una somma di altri 50 milioni perché attirasse Toscano in una imboscata. L’incarico di uccidere Toscano venne dato da Renatino a Ciletto e a Ruffetto. Io seppi questo dopo e non prima dell’omicidio, che avvenne una settimana dopo la scarcerazione di Toscano, dallo stesso De Pedis (…). Il Rufetto, anche in altre occasioni era stato usato come killer dai testaccini, come in occasione dell’attentato a Raffaele Garofalo, detto Ciambellone, in piazza Piscinula, dove però il Ciambellone venne mancato. Rufetto faceva il killer già all’epoca di Danilo Abbruciati».

Angelo Cassani, detto Ciletto, di Cerveteri, e Libero Angelico, detto Rufetto, di Ostia, sono i nomi, i cognomi e i soprannomi di chi verrà molto confusamente tirato in ballo nel 2008, a un quarto di secolo dai fatti, dalla cosiddetta «supertestimone» e amante di lungo corso di De Pedis, vale a dire dalla signora Sabrina Minardi, come persone coinvolte nel «rapimento» della giovane Emanuela Orlandi. Ma a parte questo, c’è da fare una osservazione: se Toscano aveva da parte 50 milioni di lire, come a dire 250 mila euro di oggi, non è facile credere che si sentisse talmente alla canna del gas dal voler addirittura uccidere De Pedis, e che quindi questi abbia voluto giocare d’anticipo. (…)

Quella riunione al Jackie ‘O

Il caso vuole che meno di 48 ore prima, per l’esattezza la sera del 14 marzo, i carabinieri che pedinano il malavitoso Giuseppe Scimone lo vedono infilarsi nel night club discoteca «Jackie’O». Entrati per un controllo a sorpresa, i militari trovano Scimone impegnato a conversare con Enrico De Pedis, Giuseppe De Tomasi, Salvatore Sibio, detto Tartaruga, e altri due pregiudicati di piccolo calibro alle dipendenze di quest’ultimo, identificati per Rolando Tramontano e Giuseppe Carlino, che faranno una fine violenta mentre il loro capo, Sibio, sarà impegnato in vicissitudini giudiziarie. «La circostanza fa riflettere», afferma il giudice istruttore Otello Lupacchini a proposito di quella serata al night: «Due giorni dopo, il 16 marzo 1989, sarebbe stato ucciso, con tre colpi di arma da fuoco, Edoardo Toscano».

Osservazione forse interessante, ma debole. Alla quale è oltretutto facile ribattere: se è lecito supporre che quella «riunione» al «Jackie’O» servisse a definire le modalità dell’uccisione dell’«Operaietto», è almeno altrettanto lecito supporre che una volta scoperti dai carabinieri assieme De Pedis e compagni avrebbero rinviato l’esecuzione anziché lasciarvi le loro impronte digitali e la firma al night. Non sono gli stessi magistrati e inquirenti a dipingerli spesso e volentieri questi malavitosi come molto astuti e non come stupidi imprudenti?

Le ragioni dell’incontro

E che fossero astuti anziché stupidi imprudenti lo dimostra il fatto innegabile che, nonostante la massa dei loro delitti e reati beatamente perpetrati per anni, né la polizia né i carabinieri né i servizi segreti sono mai riusciti a trovare un colpevole diverso da quelli serviti in tavola su piatti di dubbia fattura dai pentiti. E questa è una circostanza, certa e grave, che, per dirla alla Lupacchini, fa riflettere: a tanta efficienza della malavita romana corrisponde una simmetrica e complementare inefficienza degli organi di polizia e della giustizia.

Ad ogni modo, il motivo della riunione al «Jackie’O» era molto più semplice e legale. «Tartaruga» aveva deciso di sposarsi e voleva festeggiare il matrimonio in quel locale, motivo per cui Renatino lo aveva presentato al proprietario, Giuseppe De Tomasi. Che, dopo alcuni incontri anche con la fidanzata e i futuri suoceri di Salvatore Sibio, la sera del 14 marzo stava appunto discutendo del menù per il ricevimento di nozze con il futuro sposo e con Renatino. De Tomasi lo ha spiegato subito ai carabinieri, messo a verbale il giorno successivo alla loro irruzione nel locale e lo ha ricordato in un interrogatorio del 25 ottobre 1993.

FONTE: Pino Nicotri, Cronaca criminale

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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