Attentato a Togliatti: bastano due giorni e l’insurrezione è già finita

Valletta ostaggio degli insorti

Torino gli operai hanno occupato la Fiat, il tempio dell’industria italiana. Ma questo è solo un aspetto di una situazione a dir poco esplosiva: sedici dirigenti sono tenuti in ostaggio e fra di loro c’è Vittorio Valletta, il dominus dell’azienda. I rivoltosi non temono niente e nessuno e sono pronti ad alzare il livello dello scontro.

Il prefetto medita un intervento con le armi pesanti, assai rischioso in quel contesto che potrebbe precipitare. Valletta, che gestisce tutto in prima persona e non ama le deleghe, nemmeno agli alti funzionari dello Stato, conduce le trattative. «Nelle prime ore», ricorda Battista Santhià, uno dei tre direttori nominati dal Comitato di liberazione, «Valletta non disse una parola, non diede una disposizione. Era evidentemente preoccupato, diciamo pure impaurito. Poi poté mettersi in contatto telefonico con il prefetto a cui disse, con il tono del padrone, di stare fermo, di non preoccuparsi per lui. Da quel momento fu un altro uomo.»

Il sangue freddo del manager

Valletta si è ripreso, ha recuperato il suo sangue freddo e il suo carisma, si è guardato intorno, ha scrutato le tute blu e ha avuto un’intuizione: la rivoluzione è rinviata a data da destinarsi. «Valletta», scrive Giorgio Bocca, «ha capito prima di tutti i prefetti della Repubblica che non ci sarà la rivoluzione.» Così agisce di conseguenza, mettendo insieme una lucidità straordinaria e un coraggio non comune, in quello scenario così limaccioso. Sul filo tesissimo di un gioco delle parti assai audace, pericoloso, esposto alle mille variabili di quella situazione tanto anomala.

È una partita a scacchi, che può degenerare in qualunque momento, ma Valletta sa che lo scacco matto alla Repubblica non ci sarà. E prova a mettere in difficoltà i suoi sequestratori: «Da quel momento», aggiunge Santhià con un racconto dai toni surreali, «cercò di incastrarmi, di farmi assumere delle responsabilità illegali. Vado a trovarlo nel suo ufficio e gli dico: “Come sta, professore? Perché non se ne va a casa sua?” “Me ne dà la libertà per iscritto?” dice lui. “Io? E perché mai, lei è libero cittadino, può uscire quando vuole.” “No, il mio posto è qui, fra gli operai.”»

Valletta gioca con consumata abilità al gatto e al topo, sfuggendo al ruolo predestinato della preda e anzi capovolgendo le parti. A Torino l’occupazione va avanti su un equilibrio precario, sul ghiaccio scivolosissimo di una tregua armata.

Scontri feroci a Taranto

Gli incendi. Le devastazioni. Il sangue. L’Italia piange i suoi morti e il ministro dell’Interno li elenca puntigliosamente: «A Taranto, appena avutasi notizia dell’attentato, si tenne un comizio alla Camera del lavoro. Riconosciuti alcuni agenti in borghese, venivano proditoriamente fatti segno a sassaiola e lancio di benzina. Partivano dalla folla alcuni colpi di arma da fuoco e si sono avuti quattro agenti di pubblica sicurezza feriti, di cui uno versa in gravissimo stato.

Fra i dimostranti si sono avuti sei feriti, di cui uno deceduto all’ospedale». E la profanazione della vita umana è arrivata anche qui a livelli inimmaginabili che Scelba descrive ai deputati basiti: «È segnalata la particolare ferocia con la quale i dimostranti agirono contro gli agenti di pubblica sicurezza. Si è infatti verificato che guardie di pubblica sicurezza, colpite e abbattute, sono state vilmente calpestate da gruppi di facinorosi». «Vigliacchi», urla qualcuno al centro dell’emiciclo.

«Delinquenti. Peggio dei negri.» «Gli stessi dirigenti sindacali e il segretario del Partito comunista hanno riconosciuto», replica il ministro, «hanno dovuto dare atto della proditorietà dell’attacco contro gli agenti che si trovavano in borghese.» «E i morti?» gli rinfacciano da sinistra. Lo scontro, dentro l’aula e fuori, nel Paese, sembra non dover più finire.

A Genova prese 6 autoblindo

A Genova accade di tutto. Gli insorti si impadroniscono, circostanza che ha dell’incredibile, di sei autoblindo. Alle 12.30 del 15 luglio, arriva con decreto la dichiarazione di pericolo pubblico. Il prefetto Antonio Antonucci, in un dettagliatissimo rapporto trasmesso a Roma il 16, informa la capitale di quel che è successo il 14 e il 15: «Non appena il giornale radio diffuse la notizia dell’attentato a Togliatti, dalla periferia e da tutte le località delle zone industriali della Grande Genova fu un accorrere di migliaia di persone». Valutate in circa 40.000 unità dai rapporti di polizia.

«Tutte le guardie e tutti i carabinieri incontrati isolatamente sul loro percorso dai rivoltosi», prosegue il prefetto, «venivano regolarmente malmenati e disarmati, taluni addirittura catturati e custoditi sotto la minaccia delle armi.»

I dimostranti non hanno paura a sfidare l’autorità e prendono il controllo della situazione nelle strade di Genova. Dove accade letteralmente di tutto: «Una camionetta della compagnia portuale», è la cronaca del prefetto, «montata da guardie di Ps, fu rovesciata, incendiata e gli occupanti malmenati e disarmati. Un camion dell’Arma proveniente da Imperia, contenente casse di armi e viveri, fu catturato, i militi malmenati e disarmati, armi e viveri asportati».

Segnali di normalizzazione

Pare di leggere il reportage di qualche cronista, invece è il massimo rappresentante dello Stato che descrive le umiliazioni inflitte dagli insorti alle istituzioni. Il questore, per alleggerire la pressione, manda in perlustrazione le camionette della Celere.

Ma i mezzi sono accolti da una pioggia di sassi e devono ritirarsi. «Quando nella mattinata del 15 luglio», va avanti il prefetto, «la situazione prese ad aggravarsi con un numero sempre più crescente di ostruzioni stradali… di avvalermi della facoltà di dichiarare lo stato di pericolo pubblico.»

Il prefetto tenta il tutto per tutto per riportare l’ordine in città. E in effetti la mossa ottiene qualche risultato: arrivano i primi segnali di collaborazione da parte dei vertici socialisti e comunisti, si apre un canale di trattativa con l’autorità. La città recupera pulsazioni di normalità e lo Stato finalmente batte un colpo, dopo essere stato oscurato dalla forza della ribellione. Ma il carosello dei saccheggi, dei blocchi stradali, delle prove di forza non è ancora finito. E le sei autoblindo sono sempre nelle mani dei rivoltosi.

La sera del 15 luglio, mentre Scelba relaziona in Parlamento, molte località sono ancora fuori controllo. E le crisi non sono ancora state risolte. Così a Torino, alla gloriosa Fiat. «Alla Fiat Mirafiori è stato sequestrato anche il consigliere delegato», annuncia Scelba all’aula. «Se le nostre notizie sono esatte, a Mirafiori si è costituito un comitato dirigente presieduto dal senatore Moscatelli…» «Sua eccellenza Moscatelli», lo interrompe l’onorevole Fiorenzo Cimenti.

Fiat al cuore dello scontro

La situazione alla Fiat, il tempio del capitalismo italiano, è una spina nel fianco per Scelba. Anzi, in quel momento è forse la pagina più imbarazzante per il ministro dell’Interno. Altrove ci sono segnali di recupero e di ritorno alla normalità, alla Fiat l’occupazione va avanti. E Scelba, come è nel suo stile risoluto, svela che si è anche pensato di intervenire con la forza. «Ieri pomeriggio», racconta, «la polizia aveva deciso di agire con ogni mezzo per ristabilire l’ordine anche alla Fiat.» «Ma se c’era l’ordine», lo correggono da sinistra. «Era il vostro ordine», grida sprezzante Cimenti dall’altra parte dell’emiciclo. «Viva gli operai della Fiat», controbilancia Luigi Longo.

Scende in campo Agnelli

Di fatto la sera del 15 la Fiat è ancora in stallo. Ma che cosa è successo nelle 24 ore precedenti? Pare che Giovanni Agnelli in persona abbia telefonato al ministro per convincerlo a non forzare la mano. Agnelli è convinto di «interpretare sicuramente il pensiero del professor Valletta» e se c’è una cosa che Valletta non vuole è dare ai dimostranti un assist e alimentare la loro debolezza.

Il professore ha capito benissimo che la rivolta non ci sarà, si tratta solo di attendere, di non rompere subito quell’equilibrio. Certo, l’occupazione non può durare all’infinito, ma un colpo di mano ridarebbe forza agli oltranzisti, agli estremisti che non vogliono mollare. E invece sono sempre più numerosi gli operai che vogliono tornare alla routine, alle loro case, alle loro famiglie trascurate, alle loro occupazioni ordinarie. La rivolta ha le ore contate e Agnelli si rivolge a Scelba perché il blitz sia annullato e la polizia non faccia irruzione nello stabilimento.

Un pressing che dà i suoi frutti, come Scelba spiega ai deputati nella seduta del 15. La mattina successiva, 16 luglio, l’assedio delle forze dell’ordine prosegue, ma nessuno supera i cancelli. Si attende, qualcosa succederà.

Ultimi fuochi a Siena

La mattina del 16 ad Abbadia San Salvatore arrivano Fortunato Avanzati e Vittorio Bardini. Avanzati è un ex partigiano e i due insieme mediano per far terminare la rivolta. Ci sono riunioni, discussioni, litigate furibonde. Si sparge la voce che le forze dell’ordine, finalmente coinvolte in quella girandola di riunioni, abbiano formalizzato una cupa minaccia: «Se le Fosse Ardeatine sono state di dieci civili per ogni tedesco ucciso, noi faremo cento civili per uno dei nostri ammazzato».

Ma anche Abbadia sta virando verso la normalità, come buona parte d’Italia. La gente è stufa, quel clima di tensione non può proseguire a oltranza, nemmeno in quella terra dove per qualche ora la rivoluzione c’è stata davvero. E l’idea della pulizia di classe ha terrorizzato i possidenti. La pacificazione ha successo, ma l’orrore non è finito.

A Siena, ai funerali delle vittime, qualcuno spara mentre il corteo passa davanti alla sede della Federterra. L’incidente non può essere frutto del caso, ma la scelta scellerata di chi vuole alimentare una sorta di strategia della tensione. La polizia fa irruzione nei locali: scattano gli arresti. Severino Meattini, capo lega, viene colpito alla testa dal calcio di un moschetto e muore. Sangue, ancora sangue.

La piazza smobilita

Intanto, la piazza smobilita. Alle ore 12 finisce l’occupazione della Fiat a Torino. A Genova le sei autoblindo, portate via dai dimostranti per la vergogna di uno Stato impotente, vengono finalmente recuperate nella giornata del 17. L’Italia torna piano piano alla normalità, ma non dappertutto. A Siena, come visto, le esequie dei morti di Abbadia si trasformano in un nuovo regolamento di conti. A Gravina di Puglia, proprio il 16 luglio, 5000 dimostranti invadono il pastificio Divella. Si rivivono anche in quel lembo del Sud le scene già viste in altre zone del Paese: sangue, rabbia, nessuna pietà per i caduti.

«Circa 5000 facinorosi», scrive il prefetto di Bari, «assaltano un pastificio a colpi di arma da fuoco e a sassate per imporre la sospensione dal lavoro. Nella sparatoria rimane mortalmente ferito un carabiniere sul quale poi i dimostranti infieriscono, percuotendolo, derubandolo del portafoglio e disarmandolo. Un altro carabiniere viene gravemente ferito alla testa da un corpo contundente. I militari per non essere del tutto sopraffatti sono costretti a rispondere al fuoco: nel conflitto un dimostrante rimane ucciso, altri due muoiono a distanza di giorni a seguito delle ferite riportate.»

Sono le ultime fiammate, quasi disperate, di un moto che sta per essere riassorbito. Lo sciopero è finito. Anche se le interpretazioni e le letture degli avvenimenti proseguono nel tempo e vanno avanti ancora oggi, a distanza di molti anni.

Tutta l’ambiguità del Pci

Ecco, il Pci, colpito a freddo, ha soffiato sul fuoco della rivolta ma poi ha soffiato per spegnere l’incendio. Ambiguità e vaghezza nel tentativo di tenere insieme il Palazzo e la Piazza. Le direttive dei sovietici, con un no a caratteri cubitali a qualunque avventura rivoluzionaria, e la rabbia dei militanti cresciuti nel mito della presa del Palazzo d’Inverno, a San Pietroburgo, nel 1917.

Altri fattori, come sottolineato più volte, hanno giocato la loro parte: dal «miracoloso» recupero del Migliore all’impresa compiuta da Gino Bartali. Ma resta quell’impressione, e più di un’impressione, che il Pci abbia ballato contemporaneamente su troppi tavoli: da una parte i comizi dai toni violentissimi contro il governo, fino al paragone pesantissimo con il delitto Matteotti, dall’altra l’invio dei dirigenti di primo piano nelle zone più calde per calmare le acque.

Pardini, che ha studiato i rapporti dei prefetti, allarga il discorso a numerose, insospettabili province, anche del profondo Nord, come Vercelli, Asti, Sondrio, Pavia, Treviso, Ferrara, Belluno, Gorizia, Padova e altre ancora, per giungere a una conclusione netta: «In sostanza, in oltre una trentina di province (cioè un terzo delle 91 province in cui era divisa amministrativamente l’Italia nel 1948) non si erano segnalati fenomeni eversivi, meno che mai insurrezionali.

Appare quindi improbabile ipotizzare di compiere una rivoluzione, o anche una semplice conquista violenta del potere attraverso una pressione insurrezionale, quando un terzo abbondante delle province non era attraversato dal minimo segnale a quel fine». Ma se si esamina la situazione al microscopio dello storico, si può osservare che le rivolte, per quanto violente e clamorose, sono concentrate in alcune realtà. Metropoli importantissime come Milano,Torino, Genova e Napoli, ma città che, insieme a capoluoghi come Siena, Taranto e Livorno, non rappresentano comunque tutto il Paese e non riescono a dare, forse, la direzione di marcia all’Italia. (3-fine)

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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