Luglio ’48: tante le croci della violenza proletaria per vendicare Togliatti
Roma, 14 pomeriggio, 2 morti
il popolo comunista vuole muovere contro i palazzi del potere nonostante gli appelli alla prudenza provenienti dal Partito e alla fine il serpentone s’incammina verso Palazzo Chigi. Inizia la guerriglia, comincia la rappresaglia, scorre il sangue, come documenta un dispaccio Ansa delle ore 21: «I manifestanti, che tentavano di invadere Palazzo Chigi, sono stati respinti dalle forze di polizia che, sotto la pressione della folla, hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco in aria, altri hanno disselciato in alcuni punti il piano stradale. Fatte barricate sotto la Galleria. Si sono avuti feriti e contusi fra i dimostranti e agenti di polizia. Alle 18 la massa si è concentrata in piazza Colonna». Negli scontri muoiono due persone. L’operaio Filippo Ghionna aveva solo 19 anni.
A Livorno e a Pisa linciati un agente e un missino che spara sulla folla
L’agente di polizia Giorgio Lanzi, iscritto al Pci, ha la brillante idea di avventurarsi in divisa in una delle zone più bollenti, piazza della Repubblica. Difficile intuire le ragioni di un gesto tanto sconsiderato: superficialità, curiosità, la convinzione di essere intoccabile. Lanzi viene circondato dalla folla inferocita. Il vicesegretario del Pci livornese, Ervè Pacini, corre per salvarlo, ma non è cosa. Troppa tensione. Bisogna guardarsi le spalle. Troppe variabili. Troppi rischi. Caos. Rumori assordanti. Urla. A pochi metri di distanza, sempre in piazza della Repubblica, i manifestanti hanno assaltato un pullman di suore dirette al santuario di Montenero. Ci mancava solo quello.
Pacini è disorientato ed è costretto a mollare la presa. Per Lanzi è la fine: lo uccidono a coltellate con una furia barbara che lascia sgomenti. La battaglia s’incattivisce: arrivano i rinforzi. Una colonna mista di polizia e carabinieri, aperta da una moto con due militari a bordo. Ma anche loro se la vedono brutta, molto brutta. La moto viene centrata da pietre e mattoni: il pilota cade a terra, il mezzo viene incendiato dagli insorti, l’altro carabiniere rischia di fare la fine di Lanzi. Allora, in preda al panico, gioca il tutto per tutto e lancia una bomba a mano che scavalca, per fortuna, il primo cerchio dei facinorosi e atterra poco lontano. Le schegge si conficcano nella carne di alcuni lavoratori.
È un frangente terribile, ma il carabiniere non è solo. Dall’autoblindo che è a pochi metri stanno seguendo la scena e puntano la mitragliatrice sui manifestanti. Pacini, che ha recuperato il suo sangue freddo, si piazza davanti alla torretta del mezzo corazzato e urla: «Non sparate, non vi fanno nulla». In serata ci vuole tutto il sangue freddo di un leader del Pci, Ilio Barontini, per fermare le donne inferocite che oltraggiano la vedova Lenzi.
A Pisa, altra roccaforte rossa con il Pci al 54 per cento, un giovane missino, Vittorio Ferri, vent’anni, pistola in pugno, spara, ma viene linciato nella centralissima piazza dei Cavalieri.
14 sera, morti a Genova, 2 a Napoli, Taranto
Alle 23.55, quando finalmente il 14 luglio se ne sta per andare, l’Ansa batte un aggiornamento dei disordini in corso davvero angosciante: «A Napoli una grande massa di dimostranti giungeva in piazza Dante dove però veniva affrontata dalla Celere che cercava di disperderla. I dimostranti reagivano. Durante i tafferugli la forza pubblica sparava alcuni colpi d’arma da fuoco. Si deplorano due morti e un ferito grave. A Livorno un agente di pubblica sicurezza è deceduto in seguito agli incidenti della giornata odierna.
A Genova, nel pomeriggio, quando più viva era l’agitazione, è stata invasa e devastata la sede del Msi in via Venti settembre. La polizia ha esploso alcuni colpi in aria a scopo intimidatorio. Nella adiacente via Fieschi, a seguito di una disordinata e nutrita sparatoria, restava ucciso tale Biagio Stefani, di 29 anni. A Taranto, uno dei manifestanti, ferito durante incidenti con la polizia, decedeva durante il trasporto all’ospedale, mentre un agente versa in pericolo di vita».
Il 15, Abbadia S. Salvatore: uccisi un maresciallo e un poliziotto
Ad Abbadia San Salvatore, sul monte Amiata, i minatori hanno occupato la centrale telefonica, snodo nevralgico per le comunicazioni fra il Nord e il Sud. Si arriva così alle ore 13 del 15 luglio quando un lungo corteo, in testa la bandiera del Pci, percorre le strade del paese. Il segretario della sezione del Pci, Domenico Cini, sfodera il solito, avventato se non sciagurato paragone con il delitto Matteotti incendiando gli animi anche se poi invita tutti a mantenere la calma. Ma la pace non regge. Si formano blocchi stradali e contemporaneamente c’è chi corre nei boschi a dissotterrare le armi. D’altra parte siamo in provincia di Siena, la città più rossa d’Italia, dove il 18 aprile il Fronte popolare ha sbancato raggiungendo uno strepitoso 62 per cento. L’attentato a Togliatti ha risvegliato le attese messianiche e basta poco, molto poco, per trasformare un piccolo ma strategico borgo in un catino insanguinato. Il sindaco Gualtiero Ciani, descritto come un uomo mite e tranquillo, ordina a tutti la consegna delle armi, ma un appello può poco contro le sirene dell’ideologia. Alcuni lavoratori si scontrano con esponenti della Dc e del Msi. Le sedi dei partiti di centro e della destra sono devastate. La situazione si fa sempre più incandescente. Nell’aria si avverte un boato. Che cosa sta succedendo? Si scopre che una camionetta della Celere è stata fermata a uno dei tanti posti di blocco, improvvisati sulle strade che portano ad Abbadia. L’invito dei dimostranti è perentorio: fare dietrofront e ritirarsi. Ma questo vorrebbe dire consegnare quel fazzoletto di terra all’illegalità. Un agente appollaiato sulla camionetta lancia per tutta risposta una bomba a mano che innesca una sparatoria. Il bilancio si fa pesante: due agenti e alcuni dimostranti feriti, altri due agenti catturati.
Eppure il peggio deve ancora arrivare. Cini, che corre come una formica impazzita da una parte all’altra, si imbatte nel maresciallo Virgilio Raniero che a sua volta si sta dirigendo verso l’importantissima cabina telefonica di Stato. È l’ultima volta che i due si vedono. Poco dopo, in un clima tesissimo in cui corrono voci incontrollate di uccisioni, Cini fa rotta verso l’ospedale, dove vuole visitare le persone ricoverate, e Raniero, martire di uno Stato che è stato espugnato, si ritrova all’improvviso solo, in balìa di una folla inferocita che non gli dà scampo. Lo massacrano con le nude mani e lo finiscono con una coltellata al petto. Lo scempio prosegue a oltranza. Cini, bloccato senza poter entrare nel nosocomio, torna indietro, in paese, e si accorge che Raniero è per terra. Immobile. Si avvicina, ma nessuno può toccare il sottufficiale. Raffiche di mitra impediscono qualunque forma di soccorso, anzi qualche voce, più alta delle altre, urla il falso: Raniero, il cui corpo è ormai irrigidito dal rigor mortis, è solo svenuto. Non è successo niente. E invece ad Abbadia San Salvatore, una località remota e lontana dalle grandi direttrici ma vitale per le comunicazioni nel Paese, sta andando in scena una piccola piazzale Loreto. Solo alle 23, dopo ore e ore, la salma del maresciallo viene spostata. Nelle stesse ore ad Abbadia si registra un’altra morte violenta, sempre in divisa: viene ucciso il poliziotto Battista Carloni. Lo Stato è in ritirata e per qualcuno la rivoluzione, il miraggio di una vita e di una militanza, è davvero arrivata. (2 – continua)
FONTE: Stefano Zurlo, Quattro pallottole per Togliatti
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