Caminiti racconta tutti i pasticci della guerriglia meridionale

In un post sulla sua pagina facebook Lanfranco Caminiti presenta a suo modo il volume sugli autonomi meridionali, in imminente uscita per Derive e Approdi

guerra sociale. consideravamo questa, la nostra prassi e il nostro compito. solo che noi non avevamo una grande esperienza «militare» – e da qualche parte bisognava cominciare. ho qualche ricordo dei miei pasticci: la notte prima dell’assemblea di cosenza, avevamo deciso di fare una piccola «notte dei fuochi». a me toccò una sede politica a rosarno, altre piccole cose si sarebbero fatte in provincia di cosenza, di reggio, sulla jonica – andai con la mia tanica di benzina, l’innesco e tutto, lasciammo il volantino, e via. ma sto portone non prendeva fuoco. facemmo un giro largo, tornammo – niente. non era neanche notte fonda, che poi rosarno era anche un luogo pattugliatissimo. al secondo o terzo giro, finalmente appicciò: avevamo fatto il nostro dovere.

Il rendez-vous con il guardione

l’attentato alla liquichimica di saline joniche fallì la prima sera perché non ci eravamo portati dietro una tronchese per tagliare la rete di protezione; nascondemmo le borse con l’innesco e la benzina sotto un ponticello, pregando che li avremmo ritrovati. la seconda sera andò tutto bene. diversi anni dopo incontrai a tavola, a casa di un parente, uno degli addetti alla vigilanza notturna, che avevamo legato e imbavagliato per sistemare le borse che avrebbero bruciato la sala di comando della produzione. raccontava quella sera – sì, aveva avuto paura – con tranquillità: pensai fosse meglio non dirgli che aveva di fronte proprio l’uomo che gli aveva fatto passare il più brutto quarto d’ora della sua vita, magari mi spaccava i denti.

Quell’auto che non partiva

la mattina dell’attentato alla centrale della cassa di risparmio di calabria e lucania a cosenza, l’auto che avevamo rubato non voleva saperne di partire – era tutto pronto, anche il volantino, con la data e la spiega. ebbi un colpo di culo: continuando a sfregare i contatti che avevamo spellato, scattò la scintilla e l’auto si mise in moto. poi, andò bene.

Fregati dalla gentilezza

a una rapina da un gioielliere a napoli, ci fregò la gentilezza – non stringemmo bene il nastro intorno i suoi polsi e quello si liberò proprio correndo dietro i compagni che intanto erano usciti e provavano a dileguarsi. lo fermai sparandogli da lontano, con una 6.35 – l’unica arma che mi ero portato dietro – e lo presi al fegato, e quello si accasciò. ci andò bene a entrambi, e invece andò male ai compagni, perché tutto quel trambusto fece arrivare i «falchi» della polizia, che stazionavano lì vicino, e ne arrestarono due e fu l’inizio della fine.

Il botto a Taranto non lo sentì nessuno

in un attentato all’italsider di taranto, piazzammo del plastico con una miccia lunga su un nastro che ci avevano indicato, ma era proprio all’esterno e ai margini. andammo via e ’sto botto non lo sentivamo – poi ci fu, ma lo sentimmo solo noi. hai voglia a comunicati – nessuno riusciva a trovare «il danno», ce ne misero di giorni. a una rapina a potenza, che avevamo fatto per dare un po’ di soldi a una struttura di compagni della puglia, mentre scappavamo con la borsa con il malloppo, fiora mi chiese se avevo trattenuto qualcosa per noi; dissi di sì, anche se non era nei patti – anch’io, fece lei.

Io, siciliano senza accento

a un’irruzione all’intersind di palermo, dove rinchiudemmo in una stanza una decina di impiegati e poi trafugammo carte, mi ero messo le lentine a contatto e dei baffi finti, che però non si incollavano bene e mezzo ogni tanto mi cascava e io stavo sempre lì a sistemarlo – ma nessuno descrisse il mio aspetto; dissero solo che «parlavo senza accento», come minimo venivo da milano, il che un po’ mi divertiva.

La più bella rapina di quegli anni

però fummo in grado di cooperare per la più bella rapina di quegli anni, l’assalto al club mediterranée di nicotera – con una squadra travestita da carabinieri da terra e una squadra che arrivò in motoscafo dal mare, e svuotammo l’intera cassa e le cassette di scurezza, con una fuga tra le campagne e di nuovo via mare – che ci sarebbe stata bene in un film. certo l’avevamo fatta con chi «controllava» il territorio – e come altrimenti? non eravamo clandestini. con quella stessa faccia facevamo assemblee e rapine, riunioni e attentati. in guerra, d’altronde, si combatte a viso aperto.

La presentazione del primo volume

2022: ricomincio da tre. In uscita il 17 Gennaio il primo dei tre volumi dedicati alla storia dell’Autonomia meridionale curato da me e Antonio Bove. Gli altri due usciranno fra il 2022 e il 2023 per i tipi di DeriveApprodi Editore. È una raccolta o meglio un patchwork di storie, racconti, teorie, memorie, quasi tutti inediti e dispersi in fonti orali, ricordi, col rischio di lasciarli definitivamente precipitare nell’oblio. Ancor più poiché si tratta di temi afferenti alle città e alle province meridionali, ai movimenti di lotta e rivoluzionari ascrivibili all’area dell’Autonomia, alle tematiche meridionaliste, di cui si è scritto poco, assai spesso all’ombra della sempiterna “questione meridionale”.

È un progetto cui abbiamo dedicato tanto lavoro, e che in realtà ha le sue radici in anni passati a confrontarci e condividere riflessioni. Il desiderio, mio e di Antonio, è che questa trilogia possa essere un contributo al dibattito e alla riflessione collettiva, al di là del recupero di una parte sepolta della storia dei movimenti autonomi del ‘900.In questo primo volume i contributi di Alfonso Natella, protagonista del romanzo di Nanni Balestrini “Vogliamo tutto”, Giso Amendola, Francesco Caruso, Franco Piperno, Claudio Dionesalvi e Lanfranco Caminiti oltre all’inedita ricostruzione della storia dell’autonomia a Napoli dal ’68 al Terremoto dell’80 a cura mia e di Antonio.
Francesco Festa

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

1 commento su “Caminiti racconta tutti i pasticci della guerriglia meridionale

  1. IL CASO PARADOSSALE DI ZAFAR BHATTI:
    DOPO L’ERGASTOLO ANCHE LA CONDANNA A MORTE

    Gianni Sartori

    Verso la fine del settembre 2014 il pastore protestante Zafar Bhatti era stato al centro di un piccolo “giallo” quando si diffuse la notizia (dell’agenzia Fides) che era stato assassinato da un poliziotto. L’ uomo, arrestato per blasfemia, si trovava in prigione. Con lui, sempre secondo l’agenzia Fides, sarebbe stato ucciso anche Muhammad Asghar, in carcere per la stessa ragione. Bhatti era accusato di aver inviato SMS blasfemi, ma per il suo avvocato, così come per i famigliari, qualcuno gli aveva teso una trappola per incastrarlo.

    All’epoca le accuse e le condanne per blasfemia in Pakistan stavano decollando. Se nel 2001 se ne registrava solo una, nel 2011 erano state almeno un’ottantina. In genere si trattava (e si tratta) di un pretesto. Si accusa per colpire qualcuno con cui si ha una questione privata del tutto estranea alla religione. Talvolta l’effetto è immediato e si arriva al vero e proprio linciaggio del presunto blasfemo. All’epoca c’erano già una cinquantina di casi accertati. Tra questi un docente di studi islamici, Muhammad Shakil Auj di Karachi e l’avvocato Rashid Rehman (entrambi musulmani). E comunque, in caso, di arresto, l’accusato può rimanere “in attesa di giudizio” per molti anni.

    Poi era giunta la smentita: Zafar Bhatti era ancora a vivo, ma naturalmente restava dietro le sbarre.

    Nonostante l’inconsistenza delle accuse (in tribunale il fornitore dichiarava che il numero della carta SIM usata per inviare i messaggi incriminati non era registrato a nome di Bhatti, ma di una donna musulmana, Ghazala Khan), il 3 maggio 2017 il pastore veniva condannato ai sensi degli articoli 295 (a) e 295 (c) del codice penale pachistano per aver “disonorato il profeta Maometto e sua madre”.

    Quindi vivo, ma all’ergastolo. O, se preferite: all’ergastolo, ma comunque almeno in vita.

    Invece stavolta pare proprio che ci siamo. Ed è inutile sperare che l’agenzia Fides – sempre la stessa – nel dare la brutta notizia abbia preso un’altra cantonata. La fonte è il tribunale distrettuale di Rawalpindi che il 3 gennaio lo ha condannato a morte.

    Ricordo che in passato Zafar Bhatti (58 anni) aveva fondato la”Jesus World Mission”, un ente benefico di assistenza per le persone un difficoltà. Un “buono”, insomma. Quindi, in Pakistan come altrove, predestinato al ruolo di vittima.

    Spero che la notizia fornisca l’occasione per un ripensamento a coloro che – turisti d’alta quota – si recano o recavano (grazie al virus pare un po’ meno; buona cosa per i leopardi delle nevi…) tra le vette, possibilmente “inviolate” (da bravi neo-colonialisti) del Pakistan. Per poi magari, in caso di contrattempi, pretendere il pronto intervento degli elicotteri (in genere gestiti dai militari, vera classe dominante nel paese).

    illudersi che alpinisti, sciatori estremi e altri scanzonati a tempo pieno si interroghino sulla politica del governo pachistano nei confronti delle popolazioni minorizzate e oppresse (come i Beluci, in maggioranza sunniti, ma anche sciiti o gli Hazara, sciiti) sarebbe troppo. Ma almeno in questi casi (le persecuzioni nei confronti dei cristiani) dovrebbero pensarci su.

    E magari “non limitarsi a questo”, come scriveva Bobby Sands (se pure in contesti diversi).

    Ovviamente il discorso vale anche per qualche esponente politico che, con la scusa di andare a sciare, si era incontrato con militari (appunto), esponenti politici e soprattutto imprenditori pachistani. Presumibilmente per stipulare accordi e contratti (il Pakistan rimane uno dei maggiori acquirenti di armamenti prodotti in Italia).

    Questo prima che il “nostro” si dedicasse a tempo pieno alle conferenze in Arabia Saudita (altro regime di tutto rispetto in materia di diritti umani).

    Gianni Sartori

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