27.1.46, Brancaleone: nasce Beppe Battaglia operaio gappista
Compie oggi 78 anni Beppe Battaglia, militante dei Gap di Genova che la stampa casualmente ribattezzò banda 22 ottobre. Fornì lui la base per la rapina che causò la morte del fattorino Floris e la fine del primo gruppo che praticò la lotta armata in Italia. A quel tragico errore ha pagato un prezzo altissimo: venti ani di carcere.
Io l’ho conosciuto “personalmente di persona” alla fine degli anni ’90. Lavorava a Napoli, nella tipografia di una cooperativa sociale che lavorava molto per il Comune: dovevamo stampare dei giornali per uno dei tanti progetti per i “ragazzi a rischio” che il Comune organizzava. Un team formidabile il ticket sindaco Bassolino–assessore Incostante. Grande struttura il Pioppo. Vedi la storia fantastica dell’aereo costruito dietro le sbarre.
Quegli animali di periferia
Scopro oggi, rileggendo il bellissimo “Animali di periferia” di Donatella Alfonso, che, poco dopo quest’ultima storia, si è trasferito a Firenze. Alla sua figura solare la collega genovese dedica un intero capitolo. Io riprendo la prima parte, fino al passaggio alle armi. Perché mi interessa sottolineare come, dentro il grande movimento di assalto al cielo, dentro la determinata composizione di classe che ha agito il conflitto, avessero un posto rilevante gli ultimi.
E’ una pura coincidenza ma anche tre delle ultime quattro storie di vita che ho pubblicato, Angela Vai, Tonino Paroli, Carlo Pulcini, tre proletari brigatisti, confutano la narrazione dominante tossica sul decennio rosso come conflitto intergenerazionale borghese.
Mi chiamo Giuseppe Battaglia
«Mi chiamo Giuseppe Battaglia, mi conoscono tutti come Beppe. Mi hanno condannato a 37 anni in secondo grado, ne ho avuti 27 dalla Cassazione e alla fine ne ho fatti venti esatti, di cui gli ultimi tre a lavoro esterno e semilibertà. In carcere sono accadute molte cose; eri all’interno di una struttura chiusa e isolata, con altri compagni, nel mirino di una repressione durissima. Ho vissuto il periodo delle rivolte, so cosa dico.
Il carcere come scuola di rivoluzione
Ma sono stati anni in cui ho anche studiato molto; e non solo io. All’interno delle prigioni si faceva una vera scuola quadri; l’idea di partenza era che se la gente povera ha ragione di fare la rivoluzione, i sottoproletari hanno una ragione in più. Nel carcere di Perugia, ad esempio, avevamo avviato una scuola di economia politica; e il testo base era Il Capitale… lo facevamo leggere alla schiuma, al peggio, tutti criminali comuni: elementi che Marx disprezzava, in fondo, perché li riteneva distanti dalla coscienza di classe dell’operaio, di chi lavora e ragiona in termini di classe.
Il periodo delle rivolte
Ma da quegli studi ci fu chi prese coscienza: alcuni futuri esponenti dei Nap, dei Nuclei armati proletari, ad esempio. Il periodo delle rivolte nelle carceri fu quello in cui molti si resero conto della propria condizione, all’interno di un contenitore violento come il carcere. Ma a quel punto, e torno a dire che è la conseguenza di quando accetti di passare all’atto illegale, riconosci come violenza l’atto dello scippatore, del rapinatore, così come la guerra. Ma non è l’unica: perché riconosci la violenza per azione ma non quella per omissione. E invece ti rendi conto che è violenza quella che fai al disoccupato che vede la vetrina piena di roba che non può comprare, è violenza lo Stato che non rispetta le leggi. L’illegalità è questa.
Com’è lontano il Sud
La mia storia è quella di uno dei tanti immigrati dal Sud, arrivati nelle città del triangolo industriale come avevano fatto altri parenti, altri paesani prima di loro. Sono nato a Capo Spartivento, nel comune di Brancaleone in provincia di Reggio Calabria nel 1946 “da famiglia numerosa, nullatenente e contadina”, come avevo scritto in una lettera dal carcere a un giornalista del “Lavoro”, Vincenzo Curia, calabrese come me. Rivedendola ora quella lettera mi sembra un po’ troppo lamentosa, ma il concetto della storia non cambia. Capo Spartivento, appena dopo la guerra, era un paesino agricolo dell’Ionio con la scuola elementare, la chiesa, un forno e poche casupole.
Finite le elementari, avrei voluto continuare gli studi, ma non era semplice, sia per le difficoltà economiche della mia famiglia sia perché non c’erano altre scuole. Alla fine riuscii a convincere i miei genitori: come scrivevo nella mia lettera-biografia, «frequentai per tre anni un corso privato sorto nel paese vicino (Brancaleone) per iniziativa del parroco. A questo, oltre alla retta di lire 2.000 mensili che i miei famigliari versavano, dovevo esibire, ogni lunedì mattina, una tessera con la firma del parroco del mio paese attestante la mia presenza alla messa della domenica. Penalità: un giorno di sospensione. Non sono mai incorso in tale penalità a causa del senso di responsabilità che mi rendeva consapevole dei sacrifici che costavo alla mia famiglia.
Il doppio status di studente e apprendista
Le condizioni economiche famigliari mi impedivano persino di entrare in possesso del materiale didattico indispensabile, ma non basta, oltre ad essere uno studente diseredato, oltre ad essere un componente di una famiglia contadina (il che comportava un serio impegno nei lavori agricoli che la mia famiglia svolgeva, sia pure in misura d’aiuto data l’età), oltre a tutto questo con la certa previsione di non riuscire a conseguire un titolo di studio elevato, mi adoprai all’apprendimento dell’arte meccanica a metà tempo. Quest’ultima decisione scaturiva dalla constatazione che in quel paese dove mi recavo a scuola esistevano delle officine meccaniche desiderose di assorbire forza lavoro non retribuita.
E poiché il problema del trasporto (da un paese all’altro distanti sette km) era risolto (mi ci recavo ogni giorno a piedi o con l’autostop), tanto valeva sfruttare bene, cioè per tutto l’arco giornaliero, la mia presenza in quel paese un po’ più progredito del mio. Mi trovavo così nella condizione di studente in mattinata, apprendista meccanico non retribuito fino al calare delle tenebre e, quindi, aiuto contadino nelle frange di tempo libero.
Lavorare gratis in officina
Una condizione infame che durava per tre anni (durante le vacanze davo tempo pieno all’officina). Finito il corso parrocchiano, conseguendo la licenza di avviamento commerciale presso una scuola statale, davo tempo pieno alla officina da dove già dipendevo. Nonostante questa nuova condizione (tempo pieno), non percepivo alcuna remunerazione per la mano d’opera da me prestata».
A quel punto, orfano di padre – era mancato quando avevo undici anni – e con i fratelli maggiori già tutti emigrati, mi rendevo conto che da me ci si aspettava di lavorare per aiutare mia madre e mio fratello minore. Ma vedevo anche che i miei fratelli, che non avevano alcuna specializzazione professionale, facevano una grande fatica a mantenere le loro famiglie… io avrei voluto studiare, ma come potevo chiedere loro di mantenermi? Allora non ho insistito, anzi ho chiesto a loro di aiutarmi a trovare un lavoro al Nord.
A Genova, per un lavoro retribuito
Così sono arrivato a Genova, dove uno dei miei fratelli lavorava e si era sposato, e il giorno dopo essere sceso dal treno, ho cominciato a lavorare presso la ditta Florio in vico Vele: ottanta lire l’ora, in seguito aumentate a novanta. Col mio salario riuscivo a pagarmi l’abbonamento al tram e la colazione. Ma non poteva bastarmi, in testa avevo lo studio: al mattino sul tram vedevo gli studenti mentre andavo al lavoro, questo mi amareggiava ma, come scrivevo anni fa, “avvertivo la necessità di non farmi seppellire da quello che era diventato, per me, uno struggente complesso di inferiorità. Mi rendevo conto che quello di studiare era diventato per me, un insano progetto”. Fu sano, invece, il modo di affrontarlo: cercando un lavoro meglio retribuito. Sostenni la cosiddetta “prova d’arte” e venni assunto in porto, ai Cantieri Navali del Tirreno. Per questo passaggio da una ditta all’altra, feci in modo da non perdere neanche un giorno di lavoro, ricordo d’aver smesso da una parte il sabato per iniziare dall’altra il lunedì successivo.
La famiglia ricomposta
Per la prima volta in vita mia venivo retribuito in misura regolare, che a me, abituato allo sfruttamento o poco più, sembrava persino esorbitante; pensavo che avrei potuto acquistare dei libri e che avrei potuto finalmente intraprendere gli studi che avevo dovuto abbandonare troppo presto, magari frequentando dei corsi serali. Intanto il nuovo stipendio insieme a quello di un mio terzo fratello, a sua volta operaio a Genova, ci permise di far venire con noi anche mia madre e l’ultimo fratello che finora dovevano cavarsela con le 12mila lire di pensione di mia madre, mentre mio fratello, con la scusa del mestiere da imparare, lavorava gratis da meccanico proprio com’era successo a me».
I ragazzi del «Focolare» e don Milani
«Abitavamo in Val Bisagno, prima a Molassana e poi nella zona delle Gavette, vicino al gasometro e in quel periodo, per circa tre anni, incontrai e frequentai i ragazzi della comunità del Focolare. Era un’iniziativa avviata da Andrea Canevaro, un educatore e docente universitario, che collaborava con il Tribunale dei Minori e che insieme ad altre persone aveva avviato a Villa Ines, una grande casa sulla strada di Creto che aveva ereditato, una sorta di comune allargata anche a minori in difficoltà. Ci vivevano diverse coppie di quelli che allora, mentre si avvicinava il Sessantotto, si chiamavano cattolici del dissenso.
Era un posto particolare, un centro che mi intrigava molto. In seguito mi hanno indicato come il cattolico del gruppo, anzi Mario mi chiamava “il prete” perché frequentavo questi ambienti, ma in realtà non ero e non sono cattolico, anzi sono ateo. E Villa Ines, negli atti processuali, è stata persino definita “circolo leninista”… Certo, si studiava, si parlava tanto.
Io, unico operaio nella Comune di Villa Ines
Ero l’unico operaio, quelli erano tutti plurilaureati… io gli ho detto, ma scusate, vivete in una zona operaia, tanti giovani non hanno la licenza media, perché non fate una scuola serale? Io per mio conto mi sono impegnato a recuperare ragazzi e ragazze che venissero a lezione, poi andavano agli esami e 9 su 10 passavano. Una bella cosa, ma faticosa. Se ci penso, il mio lavoro di volontariato, l’idea di dare una mano a chi è più svantaggiato, è cominciato lì.
Perché con questi ragazzi familiarizzai in modo istantaneo. Mi sembrava che avessero problemi monumentali, rispetto ai quali le difficoltà che io avevo affrontato mi parevano inezie. Interessarmi a loro mi parve la cosa più giusta del mondo; ritenevo il loro “disadattamento” derivante principalmente e fondamentalmente dalla carenza d’interesse nei loro confronti di cui tutti, nella società, dovremmo sentirci solidalmente responsabili.
Il licenziamento, l’anno in ospedale
Intanto ero rimasto senza lavoro, perché un giorno mi ero addormentato su una nave in riparazione senza quindi timbrare in orario il cartellino d’uscita, e i Cantieri Navali mi avevano licenziato in tronco. In attesa di partire per il militare, non c’era verso di trovare un posto fisso; lavorai per un periodo come fattorino per le consegne per una pasticceria di via della Libertà ma dopo qualche mese, tornando a casa dal lavoro in moto, ebbi un grave incidente stradale che mi costrinse a restare quasi un anno in ospedale: mi ero frantumato ginocchio e femore. Non solo, visto che lavoravo in nero, non avevo alcuna assistenza sanitaria. Sapevo che per anni era rimasto pendente il conto della mia degenza all’ospedale San Martino.
Gli incontri con don Milani
Una volta tornato a casa mi sono trasferito da mia sorella che viveva in Toscana, nel Mugello. Facevo lunghe passeggiate, uscivo per camminare, muovere le gambe e riprendere forza. In questo modo un giorno mi sono imbattuto in don Lorenzo Milani, ho conosciuto lui e la sua scuola a Barbiana. Io ero un mangiapreti, ma lui è stato un eroe positivo. Quel giorno, mi ricordo che era inverno, sono arrivato davanti a questo gruppo di ragazzi che lo attorniavano. Mi hanno salutato e mi hanno invitato a fermarmi. Ho visto che facevano scuola leggendo i giornali, e che tra questi c’era anche “l’Unità”. Com’era possibile, da un prete?
Da quella volta ho avuto diversi incontri con lui, mi piaceva discutere, l’avevo imparato al Focolare. Si parlava molto di giustizia sociale e una cosa che mi impressionò fu che una volta disse: “In presenza di determinate situazioni, sono per l’uso della violenza”. E io, che prete non sono, a quel punto mi sentii che avrei dovuto già farlo. Paradossalmente, quando perquisirono casa mia mi sequestrarono Lettera a una professoressa come fosse un elemento di pregiudizio».
Il destino è un posto da invalido
«Tornato a Genova, ormai esonerato dalla Marina Militare dopo che mi era stata riconosciuta un’invalidità permanente del 34%, mi sembrava di essere stato esonerato anche da tutto l’apparato produttivo. Nonostante l’iscrizione all’Ufficio regionale del lavoro, come invalido civile trovavo solo impieghi saltuari, poi finalmente un altro posto fisso come autista per consegne in città alla Cartaria Derchi di Sampierdarena: due anni di lavoro prima che la ditta chiudesse per fallimento. Ero solo a casa, mia madre si era trasferita per un anno in Australia, dove tre miei fratelli avevano scelto infine di trasferirsi, il maggiore si era sposato e il più giovane era militare. Mi trovai ancora un posto da ruspista alla Edilforeste a Pontremoli, stavo fuori tutta la settimana e rientravo al sabato sera: la domenica la passavo al Focolare, il lunedì mattina ripartivo.
Poi venne fuori la questione della selezione per invalidi allo Iacp, l’Istituto delle case popolari. Venivano assunti quelli con meno handicap, Andrea Canevaro fece in maniera che io fossi presentato, ebbi il posto. Io però un po’ ero dispiaciuto, non volevo avere appoggi o raccomandazioni. Proprio per questo avevo rifiutato un posto che era il mio sogno, andare a lavorare all’aeroporto come aggiustatore meccanico. Lo avevo detto a quelli di Villa Ines e loro mi dissero “guarda che c’è un bando per sei posti di aggiustatore, fallo”.
La rinuncia a un buon lavoro
Io lo feci, andai a Sestri Ponente alla scuola di Calcinara, bisognava sostenere un test con quindici quiz: c’erano mille persone, tanti diplomati e persino laureati, ingegneri. Io conoscevo la pratica, ma non sapevo descrivere bene il lavoro da fare. Perciò sono uscito da lì sapendo che il test non era andato troppo bene; glielo dissi a Canevaro, ma lui mi rispose di non preoccuparmi.
Così un giorno, mentre ero al lavoro a Pontremoli, mi arriva un telegramma per sostenere il colloquio a palazzo San Giorgio, la sede dell’allora Consorzio del Porto, ora Autorità Portuale di Genova, che gestiva anche l’aeroporto: mi chiama al telefono una vicina perché mia mamma, rientrata da poco dall’Australia, era analfabeta e non sapeva cosa ci fosse scritto. Io parto da Pontremoli in macchina e mi dico: ma come, eravamo in mille, io ho anche sbagliato delle risposte, com’è possibile che chiamino proprio me? In poche parole, sono arrivato davanti a palazzo San Giorgio, non me la sono sentita di entrare perché non mi sembrava giusto: ho fatto inversione e me ne sono andato. Era il mio sogno, ma volevo raggiungerlo da solo. E se altri erano più bravi di me, allora quel posto toccava a loro».
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