5 maggio 1937: Barcellona, gli stalinisti uccidono l’anarchico Camillo Berneri
«… Verso le 6 del pomeriggio un gruppo di “mozos de escuadra” e di “bracciali rossi” del PSUC irrompe nel portone numero 3. Li comanda un poliziotto in borghese; in tutto, saranno una dozzina. Salgono gli scalini di marmo che portano al primo piano e bussano alla porta di Berneri. Ad aprire è Francesco Barbieri, 42 anni, anarchico di origine calabrese. Nell’appartamento, oltre Berneri, c’è la compagna di Barbieri e una miliziana.
Il poliziotto in borghese intima ai due anarchici di seguirlo.
– E per quale motivo?
– Vi arrestiamo come controrivoluzionari.
Barbieri è paonazzo.
– In vent’anni di milizia anarchica – dice – è la prima volta che mi viene rivolto questo insulto.
– Appunto in quanto anarchici, siete controrivoluzionari.
Il suo nome fa Barbieri irritato
– Gliene chiederò conto presto.
Il poliziotto rovescia il bavero della giacca e mostra una targhetta metallica con il numero 1109. I due anarchici vengono portati via, mentre la compagna di Barbieri chiede invano di poterli seguire. Ma il viaggio è breve, di quelli che non ammettono testimoni. Berneri è gettato a terra in ginocchio e con le braccia alzate, e da dietro gli sparano a bruciapelo alla spalla destra. Un altro colpo alla nuca, lo finisce. Barbieri segue la stessa sorte, ma il lavoro è meno pulito, gli assassini sprecano più colpi. Più tardi, verso sera, i cadaveri vengono abbandonati nel centro della città… ».
Così Tosca Tantini racconterà in una lettera alla madre di Camillo, Adalgisa Fochi, gli ultimi istanti di vita dell’anarchico:
Le ultime ore di Berneri
«Verso sera vennero otto individui per eseguire una perquisizione. Fu solo allora che comprendemmo di essere chiusi in un cerchio dal quale difficilmente si sarebbe usciti. Ci guardammo preoccupati, solo Camillo sorrideva: “Non è il momento di sorridere” gli dicemmo.
“Lo so – ci rispose – ma che volete farci? Chi poteva precedere una cosa simile?” Gli invasori cominciarono un via vai; asportarono molte cose fra cui in nostri materassi. Tutti eravamo nervosi per quanto succedeva, escluso il suo Camillo, che continuava a lavorare.
“Lavorate anche voi – ci disse – nel lavoro troverete la calma.” A un certo momento uno della pattuglia incominciò ad osservare gli incartamenti che Berneri teneva sopra il tavolo da lavoro. Subito dopo l’investigatore uscì e per le scale lo sentimmo gridare: “Arriba està un assunto muy serio”. Poi diede disposizioni perché una camionetta venisse a prendere tutto.
Fu solo allora che Berneri perdette la sua serenità, il suo ascetico viso si fece rosso infiammato, poi bianco. “Piuttosto che mi tocchino una sola cartella – ci disse – preferisco che mi taglino una gamba. Anche la vita sono disposto a dare, ma che non tocchino una carta.”
Si rimise tosto a tavolino e, mano a mano, che il suo lavoro proseguiva, il suo viso si ricomponeva, tanto che la serenità ritornò nel suo sguardo. Verso le sei del giorno 5 lo pregammo di tralasciare e, cedendo alle nostre insistenze, venne nell’anticamera con noi. E poiché il mortaio tirava verso la nostra casa egli per distrarci faceva dello spirito e ci raccontava delle storielle divertenti. In quelle condizioni di spirito lo trovarono i carnefici, quando verso le sette vennero a prenderlo. Pochi istanti prima Berneri aveva preparato le scarpe e l’impermeabile a portata di mano, come presentisse di dovere uscire. Si vestì con la massima calma e, tranquillamente sulla soglia ci strinse la mano sorridendo, come per incoraggiarci. Che nobiltà d’animo! Che coraggio!
Dopo due giorni di ricerche l’ho rivisto all’ospedale clinico crivellato di pallottole. Gli occhi erano spalancati ed in essi si leggevano non la paura, ma il disprezzo. Il pugno alzato era chiuso come volesse colpire qualcuno. Quella tragica visione è scolpita nella mia memoria».
La biografia
Nato a Lodi il 20 maggio 1897 da Stefano e da Adalgisa Fochi, Camillo Berneri si avviò giovanissimo all’attività politica. Fece la prima esperienza a Reggio Emilia nella Federazione provinciale giovanile socialista, di cui divenne uno dei dirigenti. Ben presto militò nella frazione rivoluzionaria; il suo acceso e intransigente antimilitarismo lo portò però ad avvicinarsi sempre più agli anarchici. Quando il 20 luglio 1916 la polizia aprì a suo nome un fascicolo e cominciò a sorvegliarlo sistematicamente, Berneri era ormai uscito dal partito socialista e aveva aderito al movimento anarchico. Trasferito ad Arezzo, dove la madre era insegnante, cercò di costituire un gruppo studentesco anarchico. Nel 1917 fu chiamato sotto le armi ma confinato nell’isola di Pianosa per le sue idee politiche.
Il rapporto con Salvemini
Nel dopoguerra il B. portò a termine i suoi studi, laureandosi in filosofia nel 1922 a Firenze, ove fu in rapporto con Gaetano Salvemini. Contemporaneamente partecipò all’attività anarchica, collaborando a numerose testate. Secondo Salvemini: “aveva il gusto dei fatti precisi. In lui l’immaginazione, disciolta da ogni legame col presente, in fatto di possibilità sociali, si associava a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. Si interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate… lui teneva aperte tutte le finestre”. Riprova di questa sua apertura intellettuale è la collaborazione a L’unità di Salvemini, soprattutto a La rivoluzione liberale di Pietro Gobetti (in quest’ultima cfr. soprattutto la sua definizione dell’anarchismo nel numero del 19 febbr. 1924).
Il suo interesse per l’esperienza bolscevica lo portò a sorta di revisione dell’anarchismo tradizionale, accentuando certi spunti autonomistico-federalisti da lui stesso definiti: “Cattaneo completato da Salvemini e dal soviettismo”.
L’esilio
Dopo la laurea insegnò e. nonostante la sorveglianza della polizia, continuò a militare nel movimento anarchico. Dopo l’emanazione delle leggi eccezionali espatriò in Francia.
Nell’emigrazione Berneri fu uno degli elementi più attivi e dinamici del movimento antifascista; critico verso la passività della Concentrazione, sostenne la necessità di un’azione diretta e di una vigile azione contro i provocatori fascisti. La sua vita fu per questo tutt’altro che facile, sia perché dovette adattarsi a fare i mestieri più modesti, sia soprattutto per l’attiva sorveglianza della polizia francese e le mene degli agenti provocatori fascisti che gli si misero ben presto alle costole per comprometterlo.
La trappola Menapace
Nel 1927-29 fu soprattutto in Francia e nel Belgio, dove organizzò una specie di controspionaggio che avrebbe dovuto proteggere l’antifascismo dagli agenti provocatori e dalle spie. A Bruxelles nel 1929 fu tra i promotori di alcuni gruppi di azione anarchica ai quali aderirono elementi spagnoli, ungheresi ed italiani. Nonostante la vigilanza, nel 1928-29 cadde però nella rete della provocazione fascista, legandosi di stretta amicizia con un agente inviato dall’Italia, il legionario fiumano Ermanno Menapace, che ne conquistò la fiducia prima “collaborando” a smascherare un altro agente provocatore (certo Savorelli che fu ucciso dal repubblicano T. Pavan) e poi incoraggiandolo a tentare alcune azioni contro esponenti fascisti in visita all’estero.
Ne derivarono polemiche e accuse, ingiuste e talvolta apertamente calunniose. Gli avversari politici volevano farlo passare da come un facilone e addirittura come un agente provocatore. Il rapporto con Menapace finì nel dicembre 1929: dopo una lunga preparazione il Menapace lo accompagnò a Bruxelles e qui provocò l’arresto con l’accusa di voler attentare alla vita del ministro Alfredo Rocco e di preparare altri attentati contro la delegazione italiana a Ginevra e contro il principe di Piemonte. Contemporaneamente a Parigi era arrestato il giellino Albero Cianca, presso il quale il B. aveva depositato della cheddite.
Nel vortice della repressione
L’arresto – anche se risultò chiaro che egli era stato vittima di una montatura – rese la vita di Berneri difficilissima. Una condanna a 5 mesi di carcere per passaporto falso e porto d’armi abusivo ne giustificò l’espulsione dal Belgio, innescando un vortice di spostamenti tra arresti, respingimenti, brevi periodi di libertà tra Olanda, Belgio Lussemburgo e Francia. Solo nel luglio 1931 fu definitivamente rimesso in libertà, ma rimase sottoposto a stretta sorveglianza e alla spada di Damocle di brevi permessi di soggiorno. Un nuovo arresto nel 1934, con una condanna a sei mesi per violazione degli obblighi, innescò una nuova bagarre repressiva conclusa solo nell’estate del 1936 quando passò finalmente in Spagna, dove intanto era iniziata la guerra civile.
Il rapporto con GL
Lo stress poliziesco non rallentò il suo impegno pubblicistico, in cui denunciaò con particolare vigore la miope politica sovietica verso la Germania e le sue responsabilità nell’affermazione del nazismo. Nell’ambito dell’antifascismo italiano ebbe rapporti soprattutto con “Giustizia e Libertà” a cui guardava con una certa simpatia, ritenendo che esso potesse finire per evolvere verso un vero e proprio socialismo libertario ma non vi aderì mai. Per lui l’anarchismo avrebbe potuto avere un “ruolo autonomo e di primo piano” nella rivoluzione italiana ed evitare sia una soluzione comunista “dispotico-centralizzatrice”, sia una soluzione “moderata”, sia una soluzione “giacobina” (autonomista unitaria) di cui il “giellismo” in particolari situazioni politiche si sarebbe potuto fare propugnatore.Intuizione anticipatrice assai potente, quest’ultima.
Il passaggio in Spagna
Passato in Spagna pochi giorni dopo l’inizio della guerra civile, il 24-25 luglio 1936, Berneri fece di Barcellona (cuore dell’anarchismo iberico) il centro della sua attività. Organizzò gli anarchici italiani in Spagna, tenne (con i primi del 1937) i rapporti tra la FAI (Federación Anárquica Ibérica) e i gruppi libertari in Francia, curò (dall’ottobre 1936) la pubblicazione del giornale in lingua italiana Guerra di classe, svolse una intensa attività pubblicistica e propagandistica (tra l’altro pubblicò un libretto dal titolo Mussolini alla conquista delle Baleari, Barcellona 1937) e contribuì con tutte le sue forze all’organizzazione e alla resistenza del regime repubblicano, sostenendo il punto di vista degli anarchici. In particolare fu tra i promotori e gli organizzatori della prima “colonna” di volontari italiani (di cui redasse il “patto” costitutivo).
Per la sua organizzazione collaborò con Carlo Rosselli, cercando però di impedire che la “colonna” fosse da lui influenzata, ma, al contrario, che mantenesse il carattere anarchico con il quale l’aveva concepita. Da qui, verso la fine del 1936, una vivace polemica tra i due uomini politici che ebbe echi anche su Giustizia e Libertà e su Guerra di classe, polemica che finì per portare al ritiro di Rosselli e dei suoi amici dalla “colonna” che rimase sotto il controllo degli anarchici.
Lo scontro finale con gli stalinisti
Il contrasto più violento e drammatico fu però quello con i comunisti. Dello stalinismo Berneri era sempre stato un deciso avversario. In Spagna a questa avversione di principio si aggiunsero numerosi altri motivi di contrasto, collegati al più generale problema dei rapporti comunisti-anarchici e alla diversa concezione della strategia del movimento rivoluzionario spagnolo. Con l’aggravarsi di questa situazione Berneri credette possibile un compromesso sulla base di una sorta di spartizione delle zone d’azione: Madrid ai comunisti e ai socialisti, Barcellona agli anarchici e al POUM (Partido obrero unitario marxista: accusato di trotzkismo dai comunisti).
Le sue speranze riuscirono però vane e così pure un suo estremo appello per la cessazione delle lotte fratricide. Sicché, scoppiato ai primi di maggio a Barcellona il conflitto tra comunisti e anarchici, il 5 maggio 1937 Berneri. fu, con un altro anarchico italiano, F. Barbieri, arrestato dalla polizia. Due giorni dopo furono ritrovati cadaveri. Due settimane dopo Il grido del popolo di Parigi, in polemica con Il nuovo Avanti che aveva reso omaggio alla sua memoria lo accusava il B. di aver provocato l’insurrezione contro il governo catalano e affermava che era stato giustiziato “dalla Rivoluzione democratica”. La sinistra comunista lo commemorò invece come una vittima dello stalinismo, ne definì l’uccisione “un crimine di pretto stile squadrista” e lo annoverò tra gli apostoli del proletariato.
La scheda biografica è una sintesi del testo dell’Enciclopedia Treccani
LE RESPONSABILITA’ STALINISTE NELLA MORTE DI BERNERI: DALL’APERTA RIVENDICAZIONE AL REVISIONISMO STORICO ?
Gianni Sartori
Per completezza, per dovere di cronaca o per “dare a Cesare quel che è di Cesare…” intervengo su una questione quantomeno “datata”.
Recentemente in qualche sito, blog dichiaratamente marxista e leninista (con o senza trattino) veniva riesumata la questione “Berneri”. Mettendo in discussione le responsabilità staliniste (del PSUC) nella sua prematura dipartita. Con l’avvallo illustre del libro “Il caso Berneri” di Saverio Werther Pechar (edito da ANPPIA).
Per inciso. Berneri viene assassinato in data 5 maggio (1937), lo stesso giorno in cui verrà massacrato di botte Franco Serantini nel 1972. Il giovane libertario sardo figlio di N.N. morirà in carcere, senza essere stato curato, due giorni dopo.
Ora, fermo restando che si parla di un mondo (rapporti sociali, composizione di classe etc.) che semplicemente non esiste più, è perlomeno curioso il cambio di paradigma (come direbbe il buon Ocalan).
Se in passato (fine anni sessanta, primi settanta nella mia esperienza personale) lo rivendicavano apertamente sia quelli di PotOp che del PCI (ma anche, ricordo bene, qualcuno di LC), ora sembrano voler minimizzare, giustificare…(mi riferisco ai pochi sopravvissuti o ai loro epigoni, cloni etc…).
Non dico “revisionismo storico”, ma quasi.
Senza farsi trascinare nei meandri più o meno oscuri della vicenda, mi pare evidente che l’uccisione degli anarchici Berneri e Barbieri (così come quella di Andrès Nin del POUM, accusato di essere un agente della Gestapo, ma anche quella di un fratello di Ascaso…) rientrava in una operazione generale di repressione, sottomissione dell’azione autonoma messa in atto dal proletariato iberico. Sia in Catalogna nel maggio ’37 che in Aragona, dove in seguito (agosto 1937) intervenne Lister contro le collettivizzazioni. Berneri e Barbieri vengono assassinati in questo clima generale di repressione “termidoriana”. Una coincidenza quantomeno sospetta.
Riesumare la questione di un presunto trasferimento clandestino di oro dalla Spagna alla Francia, organizzato dal Ministro del governo repubblicano, Ángel Galarza in combutta con un ambiguo personaggio, il trafficante (ex ?) fascista italo-ungherese Baldassare Londero (oro forse intercettato dagli anarchici che se lo sarebbero poi spartito – inverosimile direi – con quelli di Estat Català e finito in parte a casa di Berneri) sa tanto di fuorviante depistaggio. Cavillare su questioni secondarie (senza volerle escludere in toto e a priori; può succedere che varie e complesse vicende siano intrecciate) è un metodo ben sperimentato per distrarre da quella principale. Per dire: se domani si dovesse scoprire che qualche anarchico è stato ammazzato da qualche stalinista (o il contrario) perché il primo lo aveva cornificato, questo non cambierebbe la sostanza storica del “massacro di Barcellona”. Innescato dal tentativo del PSUC di prendere il controllo della strategica Centrale telefonica in mano agli anarchici dal luglio ’36 (quando la sollevazione in armi del proletariato barcellonese, guidato da CNT e FAI, aveva stroncato sul nascere l’iniziativa dei militari franchisti).
Tra l’altro, viene ribaltata la tradizionale, consolidata posizione m-l di chi sosteneva che l’anarchismo iberico fosse espressione dell’arretratezza politica (intrisa di “messianesimo apocalittico”) delle masse contadine e bracciantili in contrapposizione alla più matura classe operaia. Qualcosa del genere lo aveva fatto Godard. Con maggiore onestà intellettuale e in tempi non sospetti, da maoista coerente, quando sosteneva che “mal interpretando le indicazioni di Stalin, il PSUC represse le comuni agricole” (le collettivizzazioni autogestite). Dimenticando entrambi che lo stesso era avvenuto nelle fabbriche barcellonesi e che la CNT era ben presente e radicata (con oltre un milione e mezzo di iscritti, non tutti necessariamente anarchici) nella classe operaia.
Nei commenti si tocca letteralmente il fondo sostenendo falsamente che “ai poumisti che chiedevano (o meglio: scrivevano sui muri nda) “donde està Nin ?” (di solito in catalano)…gli stalinisti spagnoli replicassero “donde estas Maurin?” (di solito in castigliano). In riferimento al presunto trattamento di favore nei confronti di Maurin (insieme a Nin fondatore del POUM) arrestato dai franchisti.
Mentre in realtà la velenosa risposta (storicamente documentata, per iscritto) era “està a Burgos o a Berlin”. Volendo negare che Nin fosse stato assassinato (e il suo corpo fatto sparire seppellendolo, pare, sotto la pista di un aeroporto, come CHE Guevara) e che in realtà si fosse messo al sicuro territorio fascista (permangono dubbi sull’identità di un cadavere recuperato una ventina di anni fa nei pressi di Alcalà de Henares).
Ripeto. A mio avviso, la questione principale rimane quella della repressione operata dagli stalinisti (e da qualche esponente dell’indipendentismo catalano). Per imporre la militarizzazione delle milizie e lo svuotamento (manu militari) dell’esperienza collettivista, consiliare e autogestionaria (in difesa oltretutto della proprietà privata da parte del PSUC). In pratica, come ricordava Claudio Venza “ricostruire stato ed esercito e difendere la proprietà privata”.
Il resto sono quisquillie (armi di distrazione, sofismi e specchi deformanti della prospettiva storica).
Avevo anche conosciuto qualche testimone della vicenda. Due in particolare: il triestino Umberto Tommasini (anche lui arrestato dagli stalinisti mentre, ricordava Venza “stava iniziando un’azione contro le navi fasciste italiane” e salvato in extremis dall’intervento della CNT) e Umberto Marzocchi. A Carrara (nel 1972, con Alfonso Failla) mi aveva raccontato di aver dovuto assolvere al doloroso compito di riconoscere il cadavere del compagno e amico Berneri. Nessuno di loro, così come Abel Paz (incontrato sulle ramblas nel 1979 mi pare) e anche il comunista triestino-vicentino Visentini Ferrer, se pur a denti stretti (era arrivato a Barcellona nel novembre 1937, quindi mesi dopo i tragici eventi di cui non poteva avere alcuna responsabilità), aveva mai messo in dubbio le responsabilità oggettive dello stalinismo nell’esecuzione extragiudiziale dei due militanti libertari italiani.
Va anche detto che comunque non andrebbe attribuita alle contraddizioni (eufemismo) interne del fronte repubblicano la vittoria franchista. Molto più determinante fu il sostegno militare nazifascista.
Fermo restando che su tutto questo ormai si è posata la polvere dell’anacronismo, dell’irrilevanza, della non riproducibilità. Anche se qualcosa dello spirito rivoluzionario e libertario di allora sopravvive, sotto altra forma e con “altri mezzi”, nell’esperienza del Rojava. Volendo semplificare: con l’Isis e Erdogan nelle vesti della Falange e di Franco, Assad (si parva licet) in quelle di Stalin e i curdi, ovviamente, in quelle di ciennetisti e poumisti. Forse.
A distanza di un secolo magari può ancora smuovere i catramosi, arteriosclerotici sentimenti di qualche settantenne sopravvissuto al ’68 e dintorni. Non coinvolgere più di tanto chi si deve confrontare con l’apocalisse ambientale planetara, l’estinzione di massa degli “altri animali” e la guerra ibrida universale (a macchie di leopardo) in atto. Con il genocidio aperto dei palestinesi e quello strisciante di curdi, mapuche e adivasi (per citarne solo qualcuno).
Vorrei poter concludere con un lapidario “No pasaran!”, ma temo che in realtà siano già passati a nostra insaputa.
Gianni Sartori
http://www.arivista.org/riviste/Arivista/317/43.htm
ulteriore contributo
GS