Ankara e Damasco dietro l’assalto jihadista al carcere turco

Comincia oggi, con un approfondito servizio sull’assalto jihadista al carcere curdo di Sina, la collaborazione di Gianni Sartori con l’Alter Ugo. Una rubrica di cronache internazionali, dalla parte degli oppressi e dei ribelli di tutto il mondo: “Nostra patria è il mondo intero”…
Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Gweiran/Xiwêran della città di Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica.
In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.
Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di FDS, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista.
Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del nord e dell’est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5mila detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe.
Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia.
I membri di Daesh catturati dalle FDS avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno sette -otto mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran / Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle FDS del 25 gennaio si legge che “almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere”.
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (“muhajir” ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi Paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere.
Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa ( Erka Xweparastinê).
Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa. Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.
La priorità per le FDS e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur.
Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.
Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della NATO – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quellicatturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…
Altri elementi, altre prove, assicurano le FDS saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate.
Proprio in ottobre Erdogan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le FDS avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle FDS, ma in realtà solo rinviato.
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchiattaccavano simultaneamenteZirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (AANES) delle FDS sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il MIT (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba. Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di “operazioni congiunte nel nord-est della Siria” e in particolare di “un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anti curda, ca va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici nda) a Deir ez-Zor, Hesekê e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo”.
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.
UN COMPLOTTO ANNUNCIATO CONTRO L’AMMINISTRAZIONE AUTONOMA
Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran.
Con cui si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’”opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate”. Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle YPG.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.
Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (AANES) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zorsud (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il MIT e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle FDS ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi.
Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A nostra consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Non solo per i cani rabbiosi di Daesh, ma anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Gianni Sartori
ROJAVA: L’AANES decreta la mobilitazione generale
Gianni Sartori
Mercoledi sera (4 dicembre) la coalizione di islamisti radicali, controllata da Ankara e responsabile del recente attacco alla Siria, stava già assediando ormai da tre lati la città di Hama. Dopo la conquista della maggior parte di Aleppo, questa città nel cuore del Paese (e già nota per il massacro qui perpetrato dall’esercito siriano nel 1982, quando represse una rivolta dei Fratelli musulmani) va assumendo un ruolo strategico fondamentale. Sia per le bande islamiste che – ovviamente – per l’esercito di Bachar al-Assad (in quanto con la sua caduta si aprirebbe la strada per Damasco, a soli 200 chilometri).Tra combattimenti e bombardamenti i morti finora accertati dal OSHD (Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo) sono 704, di cui 110 civili.Il 3 dicembre, con l’appoggio dell’aviazione siriana e russa, le forze governative avevano lanciato una controffensiva, mentre il 4 i combattimenti divenivano ancora più intensi (“feroci” li definiva una fonte militare citata dall’agenzia Sana) nel nord della provincia. Da parte dell’ONG Human Rights Watch venivano mosse accuse di “violazioni dei diritti umani” a entrambi i belligeranti.
Dalla città di Suran (a una ventina di chilometri a nord di Hama) arrivavano le immagini di civili in fuga (diffuse dall’agenzia AFP), ammassati nei camion mentre i miliziani jihadisti armati pattugliavano le strade a bordo di pick-up.
Secondo David Carden (coordinatore umanitario regionale aggiunto dell’ONU per la Siria) in una sola settimana (da quando sono iniziati i combattimenti) gli sfollati sarebbero più di 115mila. Un numero destinato inesorabilmente ad aumentare.
Anche ieri (mercoledì 4 dicembre) un drone turco ha causato la morte di due persone (ferendone gravemente altre) nella città di Dêrik. La minaccia dei droni che sorvolano quotidianamente i territori curdi è ormai costante anche in Rojava. Già il 2 dicembre un altro curdo, Ezîz Selahedîn Şêxo (20 anni), era stato ucciso lungo l’autostrada tra Qamishlo e Hassaké. In base ai dati in possesso del Centro d’informazione del Rojava (RIC) si tratterebbe della 57° vittima dei droni turchi di quest’anno. Quelli che – a ragion veduta – il movimento curdo definisce senza mezzi termini “mercenari di Ankara” (mentre gran parte dei media occidentali usa eufemismi ipocriti come “ribelli” o “insorti”) sarebbero in procinto di scatenare un attacco di vasta portata contro il Rojava.
Al momento rimangono sotto tiro dell’Esercito nazionale Siriano (SNA) Shehba e Tel Rifaat (ancora in mano alle FDS).
Se lo sfondamento avesse successo ci troveremo di fronte all’ennesima catastrofe umanitaria. In questa regione dal 2018 un gran numero di sfollati, in maggioranza curdi provenienti da Afrin, vivono, sopravvivono in una mezza dozzina di campi profughi (Serdem, Vegere, Efrin, Berxwedan, Shehba…). Altri sono ospitati nei villaggi circostanti. Complesssivamente decine di migliaia.Di fronte alla minaccia incombente, l’AADNES (Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria)ha decretato la mobilitazione generale e le organizzazioni armate (YPG, YPJ, FDS) sono poste in stato di massima allerta.
Per l’AADNES l’attuale “attacco dello Stato di occupazione turco e dei suoi mercenari sul territorio siriano è in continuità con il piano che la Turchia non era riuscita a realizzare attraverso lo Stato islamico e il suo obiettivo di occupare la Siria e annientare le speranze dei Siriani”. In sostanza il “raggiungimento degli obiettivi del “patto nazionale” [Misakî Milli] che da tempo e a più riprese ha tentato di realizzare”. Condannando quindi – in una pubblica dichiarazione letta dal co-presidente a Raqqa – l’attacco turco-jihadista e salutando nel contempo “la resistenza di cui il nostro popolo ha dato prova a Shahaba e Aleppo”.
Per l’AADNES l’invasione (che è rivolta contro tutto il Paese, non solo Aleppo e Hama) avrebbe lo scopo di frantumare la Siria, con il rischio di trasformarla in un focolaio permanente del terrorismo internazionale. Annichilendo le legittime “speranze dei Siriani di poter vivere nella libertà e dignità”.
Oltre naturalmente, sempre in riferimento agli obiettivi di Erdogan “colpire il progetto dell’amministrazione autonoma democratica e contemporaneamente tentare di annettere nuovi territori alla Turchia”.
Per cui “Arabi, Curdi, Siriaci, Assiri e Turcomanni dobbiamo unire le nostre forze e rafforzare la nostra unità per far fronte a questa flagrante aggressione”. Con un appello a “ogni istituzione a operare come una cellula di crisi” e ai giovani uomini e donne affinché raggiungano i ranghi delle Forze Democratiche Siriane.
Quanto alla comunità internazionale, dovrebbe divenire consapevole che questo conflitto è foriero di ulteriori catastrofi umanitarie e rappresenta una seria minaccia non solo par la Siria. In quanto costituisce “una nuova forma del terrorimo di Daesh con gravi ripercussioni sia a livello regionale che mondiale”.
Gianni Sartori
5 DICEMBRE 2024: ANCHE HAMA CONQUISTATA DA AL NUSRA
TAGLIAGOLE E “CACCIATORI DI SCALPI” FILO-TURCHI PUNTANO SUL ROJAVA
Gianni Sartori
Mentre al Nusra & C. procede, se pur con qualche intoppo, verso sud (Hama ormai è stata conquistata), l’ANS si va rinforzando (anche con l’uso di tanks) in direzione est, sul fronte di Manbij e Maskanah ancora sotto il controllo delle FDS. Preparandosi ad aggredire il Rojava di cui Manbij (100mila abitanti) rappresenta un nodo strategico all’ovest dell’Eufrate. Sia Manbij che Maskanah, recuperata qualche giorno fa dalle FDS, sono ora terreno di scontro tra il principale proxy di Ankara (ANS) e le FDS (curdi, arabi, armeni, siriaci, turcomanni…).
Intanto sono tornati in azione soggetti apertamente legati a Daesh. In questi giorni hanno ucciso un membro del Partito del Futuro (un partito democratico siriano, già perseguitato dal regime di Damasco, con esponenti eletti nell’Assemblea popolare e che partecipa all’Amministrazione autonoma). Altre vittime sono state provocate dai droni e dall’artiglieria turchi.
Ma al di là della drammatica situazione in movimento, forse è il caso di ricordare quanto accadeva nel decennio scorso quando i terroristi di Daesh attaccarono la regione di Shengal (e l’analogia con quanto potrebbe ora ripetersi mi pare evidente). Massacrando gli uomini e gli anziani, mentre le donne e i bambini venivano catturati e ridotti in schiavitù. Pulizia etnica (o magari genocidio, puro e semplice) che si coniugava con un orrendo femminicidio di massa. Stesso scenario qualche anno dopo (2018) quando i mercenari turchi entrarono in Afrin (“Operazione Ramoscello d’ulivo”).
Compiendo innumerevoli crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in seguito ampiamente documentati sia dalle Ong che dalle Nazioni Unite.
Mentre la comunità internazionale assisteva passivamente, oggettivamente complice, ai rapimenti delle ragazze curde, esibite come animali al mercato e destinate a diventare schiave sessuali dei mercenari filo-turchi dell’Esercito Siriano Libero (FSA, ma si trattava di quello riesumato nel 2016 da Ankara – operazione Scudo dell’Eufrate – per evocare una certa continuità con quello originario del 2011). Come è noto migliaia di cittadini furono espulsi, costretti ad andarsene. Non solo curdi naturalmente, ma anche armeni, cristiani, ezidi…
Per tornare ai nostri giorni, tristi e lividi, un aiuto alla comprensione di quanto sta realmente accadendo (mentre i media parlano fantasiosamente dei cacciatori di scalpi filo-turchi come di “ribelli” e “insorti”) viene dai comunicati (per quanto frammentari data la situazione) del Rojava Information Center (RIC, presente sul terreno).
Quantificando in circa 120mila (in base ai dati forniti dall’AADNES) gli sfollati (rifugiati interni) che finora hanno cercato rifugio nel NES (nord e est della Siria). Spesso costretti durante il viaggio (in media tre giorni) a dormire all’aperto o in tende provvisorie nel gelo invernale.
Situazione critica che rischia di aggravarsi per mancanza di cibo, acqua, medicinali essenziali e possibiltà di alloggio.
Mentre l’Esercito Nazionale Siriano infierisce sui civili usciti da Shehba e Tel Rifaat e ora in fuga verso il Rojava (con aggressioni, furti, estorsioni…) crescono i timori per un imminente attacco a Manbij. La città multietnica e governata dall’AADNES, con i suoi 300mila abitanti, in caso di assedio rischia una grave crisi umanitaria.
Invece ad Aleppo, nei quartieri curdi di Sheikh Maqsoud e di Ashrafiyeh, circondati da Hayat Tahrir al-Sham, nella giornata di mercoledì 4 dicembre non si sono registrati scontri. Si teme tuttavia che sia una calma solo apparente. I Centri di accoglienza istituiti dall’AADNES e dai consigli locali a Tabqa e Raqqa hanno accolto finora circa 30mila sfollati, la maggior parte provenienti da Shehba. Utilizzando inizialmente accampamenti temporanei, ma in breve tempo una ventina di scuole venivano trasformate in centri di assistenza mettendo a disposizione dei rifugiati coperte, cibo e vestiti.
L’UYS (Unione Ezidi di Siria) si sta occupando in particolare di assistere gli ezidi fuggiti da Tel Rifaat, ospitandoli in famiglie ezide di Heseke, Amude e Tirbespi (villaggi ezidi, purtroppo talvolta in abbandono). Molti raccontano di aver subito qualche forma di violenza durante il viaggio (ricordo l’assassinio di Ahmed Husso, mentra la moglie e il fratello sono stati feriti). Si ha notizia anche dell’uccisione di qualche membro della comunità ezida di Aleppo. E comunque, raccontava un testimone “molti potrebbero non riuscire ad arrivare fin qui”.
La Mezza Luna Rossa curda ha chiesto a gran voce sostegno, donazioni per affrontare la grave situazione. Così come dal copresidente dell’ufficio per gli Affari dei Rifugiati Interni dell’AADNES è venuta una richiesta alle Nazioni Unite per la riapertura del passaggio di frontiera di Yarubiyah (Tel Kocher), indispensabile per far arrivare aiuti umanitari. Attualmente l’unico operativo resta il passaggio di Semalka (Faysh Khabour), mentre quello di Yaroubiyah resta chiuso dal 2019 per una decisione del Consiglio di Sicurezzza.
Altre informazioni confermano che i metodi dell’Esercito Nazionale Siriano nei confronti della popolazione rimangono brutali.
I miliziani si starebbero infatti appropriando delle abitazioni dei civili curdi in ogni città e villaggio occupato. Compiendo furti, estorsioni, sequestri di persona (ovviamente del tutto illegali) e minacciando i civili. Qualche giorno fa, Amina Hanan, una quarantenne curda disabile, è stata assassinata a Tel Rifaat da membri dell’Esercito Nazionale Siriano.
Sempre a Tel Rifaat, in un video circolato in questi giorni, si vedono combattenti filo-turchi e un uomo che indossava un gilet-stampa (?) aggredire alcune persone prese prigioniere.
Quanto ai curdi che malauguratamente (forse per le difficoltà del viaggio, proibitivo per bambini e anziani) erano rientrati a Afrin, sono stati tutti schedati e almeno una cinquantina arrestati.
Inoltre sessanta autobus che avrebbero dovuto evacuare i profughi e trasportarli verso il NES, rimangono bloccati dai miliziani.
Avevamo ricordato la situazione dei due quartieri curdi di Aleppo. Da un paio di giorni la situazione, per quanto in una città ormai completamente in mano alle milizie jihadiste, sembrerebbe relativamente tranquilla. Nelle trattative tra FDS, AADNES e le milizie jihadiste assedianti di HTS si cerca di garantire agli abitanti (e ai molti cristiani che qui si sono rifugiati) la possibilità di scegliere se andarsene o restare.
Già in passato (soprattutto dal 2012 al 2016) Sheikh Maqsoud e Ashrafiyeh avevano subito gli attacchi delle milizie filo-turche. Ma la gente si era rifiutata di andar via. Ora invece si teme che HTS imponga le sue regole islamiche (come l’hiyab per le donne) e che si assista al bis di quanto fece l’Isis. Per cui molti potrebbero decidere di raggiungere l’est.
E la Turchia ? Partecipa direttamente al conflitto attaccando con aerei senza pilota la città di Dayrik (in siriaco, Dêrika Hemko in curdo). Colpendo un’auto e causando almeno due vittime e alcuni feriti nei pressi della stazione degli autobus (luogo scelto forse intenzionalmente dato che le cooperative degli autisti mettevano i mezzi a disposizione per trasportare i rifugiati).
Dopo quello costato la vita al giovane Aziz Sheikho sulla strada tra Qamishlo e Heseke, si tratta del secondo attacco nella NES di questa settimana.
Per oggi (5 dicembre) direi che basta.
Gianni Sartori
SIRIA SENZA PACE (7 dicembre 2024)
Gianni Sartori
Breve premessa di carattere generale su quanto sta avvenendo in Siria.
L’avanzata, apparentente inarrestabile, di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e dell’Esercito Nazionale Siriano su Aleppo, Hama (compresa una base aerea russa con missili S-75 Dvina), Daraa (con la base militare Liwa 52) e ora Homs (e Damasco non è così lontana), si sposa con i piani di espansione territoriale della Turchia. In qualche modo speculari a quelli di Israele. Entrambi gli Stati inoltre – e non da ora – procedono con metodologie feroci, al limite del genocidio.
Un fattore determinate è costituito dall’evidente crisi economica che sta lacerando la Turchia. In particolare il sud-est curdo (Bakur) con i suoi venti milioni di abitanti. Per Erdogan è fondamentale, indispensabile chiudere definitivamente (se occorre affogandola nel sangue) l’esperienza dell’AADNES in Rojava, in quanto potrebbe – per “contagio” – alimentare le aspirazioni all’autogoverno nel Bakur (v, recentemente in alcune località curde dove sono stati estromessi, manu militari, i sindaci democraticamente eletti).
Concetto da ribadire: HTS rimane una costola di al Qaeda di cui sostanzialmente condivide l’ideologia. In esso sono presenti (come nell’Esercito Nazionale Siriano, principale proxy della Turchia) molti ex (ex ?) miliziani sia di al Qaeda che di Daesh (Isis, Stato islamico).
280MILA SFOLLATI, MA IL NUMERO E’ DESTINATO A CRESCERE
Difficile quantificare con precisione, ma sicuramente tra i 280mila civili (dati onusiani del PAM) in fuga da Aleppo e Hama (sfollati o profughi interni che dir si voglia) un fetta consistente è costituita dai curdi. Soprattutto dopo si sono diffuse le notizie di esecuzioni extragiudiziali (con decapitazioni) e altri delitti (estorsioni, rapimenti di giovani donne) commessi dai miliziani filo-turchi di al-Nusra (ribattezzata Hayat Tahrir al-Sham). Sempre da fonti onusiane, si paventa la possibilità che il loro numero possa presto arrivare a 1,5 milioni.
Curdi di Aleppo e Hama deportati ?
I timori della popolazione curda di Aleppo e Hama (così come, in prospettiva, per Manbij se dovesse cadere) non sono infondati.
Come hanno denunciato le Assemblee popolari di Ashrafiyah e di Cheikh Maqsoud (i quartieri curdi di Aleppo) sarebbe evidente il tentativo delle organizzazioni legate alla Turchia di evacuare forzatamente (ossia deportare) la popolazione curda. L’Assemblea – in una pubblica dichiarazione davanti alla Casa degli Ezidi – ha invece invitato i cittadini curdi a non lasciare le proprie case. Richiesta cui hanno aderito esponenti dei partiti, della società civile e di varie organizzazioni. Contestando anche l’atteggiamento del governo di Damasco che ancora si rifiuta di dialogare, confrontarsi con altre culture e posizioni politiche). E continuando a “organizzarsi per una Siria democratica con la partecipazione di tutte le componenti, senza discriminazioni”.
Accusando quei partiti locali più o meno affiliati e subalterni alla Turchia, tra cui i “traditori” di ENKS, di favorire tale evacuazione-deportazione con false dichiarazioni e rassicurazioni ipocrite (tipo quella, ripresa alla grande dai media nostrani che “non ci saranno ritorsioni o vendette”). Spostare la popolazioni senza adeguate garanzie fornite da istituzioni e organizzazioni internazionali (Nazioni Unite, Amnesty International…), non sarebbe altro che un ennesimo, arbitrario e violento atto di forza.
Tra l’altro nel “mirino”, oltre ai soliti curdi, ci sarebbero anche gli armeni di Aleppo. Dove si rifugiarono a migliaia nel 1915 per sfuggire al genocidio in Turchia e divenuta nel tempo una roccaforte per la conservazione della cultura e dell’identità armena. Paradossale che qui vengano ora nuovamente sottoposti al dominio della Turchia.
QUALI PROSPETTIVE A BREVE TERMINE?
Mentre gli equilibri interni della Siria sembrano sgretolarsi uno a uno (Teheran sarebbe in procinto di evacuare, oltre al personale militare e diplomatico, perfino la Forza Quds dei Pasdaran) diventa difficile fare previsioni, soprattutto se di lunga durata.
All’ombra dell’ossessione preponderante di Erdogan (impedire con ogni mezzo il protagonismo curdo) si va riaffacciando pure l’incognita Daesh. Le cui “cellule dormienti” nel deserto sembrano sul punto di rifiorire. “Irrorate” dalla marcia vittoriosa dei cugini di Hayat Tahrir al-Sham.
Non senza considerare le rinnovate aspirazioni di qualche potenza regionale (non solo della Turchia) di approfittare della crisi siriana per espandersi, appropriarsi di qualche fetta di territorio.
A Manbij per esempio, dove la percezione delle intenzioni espansionistiche turche è netta. Qui Ankara e le bande jihadiste affiliate procedono tra intimidazioni, bombardamenti e tentativi di infiltrazione, incontrando per ora la resistenza del Consiglio militare di Manbij.
Si tratta evidentemente non solo di un punto strategico, ma anche di un simbolo. In quanto esempio di convivenza possibile anche in situazioni drammatiche. Per Ankara l’eventuale conquista di Manbij, grazie ai suoi ascari dell’Esercito Nazionale Siriano (pare che HTS da questo lato ci senta meno, forse tra le sue milizie circola ancora il bruciante ricordo della “battaglia di Raqqa” nel 2017) rappresenterebbe un terno al lotto. Cioè la garanzia di poter esercitare uno stretto controllo sulla parte settentrionale della Siria, uno stravolgimento a suo favore degli equilibri geopolitici.
Ma appunto i piani di Erdogan % C. vengono tuttora intralciati dalla strenua resistenza dei soliti irriducibili delle FDS (Forze Democratiche Siriane) e dell’Amministrazione autonoma.
Gianni Sartori
MENTRE NUVOLE OSCURE SI ADDENSANO SULLA SIRIA, I CURDI PROPONGONO DI APPLICARE IL CONFEDERALISMO DEMOCRATICO ALL’INTERO PAESE
Gianni Sartori
Questo lo stato dell’arte (tarda serata 7 dicembre 2024). Ovviamente la situazione rimane in movimento (dire “evoluzione” mi sembra fuori luogo).
Ormai in Siria l’attuale regime va sprofondando e già si avvertono nelle periferie di Damasco le prime avvisaglie della definitiva caduta. Mentre Hayat Tahrir al-Sham (alias al-Nusra) procede spedita verso Homs, il conflitto si estende anche a sud, nei governatorati di Dar’a e di al-Suwaydā’ (si parla di “insorti drusi”, ma anche di elementi dell’Isis). Lecito chiedersi: se nel nord-ovet lo sponsor principale è la Turchia, chi mai potrebbe (condizionale d’obbligo) aver assunto lo stesso ruolo nel sud-ovest, dalle parti del Golan? Facile, no?
Ma intanto non smette di attaccare le postazioni delle Forze Democratiche Siriana (Manbij, Maskanah…) quel soidisanti Esercito Nazionale Siriano che in realtà è costituito principalmente da mercenari filo-turchi. Coadiuvato da interventi diretti non solo dell’artiglieria, ma anche dei soldati turchi (stando a quanto denunciano le FDS).
Comunque le FDS mantengono il controllo delle posizioni recentemente acquisite sulla riva ovest dell’Eufrate (Deir ez-Zor e il passaggio frontaliero di Al.Qaim). Qui sono riapparse milizie jihadiste (Isis si presume) occupando i villaggi di due enclave. Riconsegnate (senza colpo ferire) alle FDS tutte le postazioni finora occupate dall’esercito di Damasco nel Rojava (due quartieri di Hassaka, uno a Qamishli e l’aeroporto).
Abou Mohammed Al-Joulani, chi sarà mai costui?
Dopo la presa di Aleppo, il capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) aveva dichiarato di voler garantire i diritti di ogni comunità etnica o religiosa in una Siria pluralista e “inclusiva” (concetto ribadito nelle recenti interviste). Un espediente per rendersi accettabile (“presentabile”) agli occhi e alle orecchie dell’opinione pubblica internazionale (e di quella occidentale in particolare).
Ma in realtà, chi era (è ?) Abou Mohammed Al-Joulani? In Iraq avrebbe aderito a un’organizzazione conosciuta come Jama’at al-Tawhid wal-Jihad fino al 2004, quando divenne il ramo iracheno di al-Qaeda (AQI, quella guidata dal giordano Abu Musa al-Zarqawi) rendendosi responsabili di efferate violenze contro la comunità sciita.
Arrestato dagli USA nel 2006, al-Julani resterà in carcere (pare anche in quella di Abu Ghraib) per cinque anni. Non si può escludere che da questo momento sia diventato una potenziale “risorsa” per i servizi segreti statunitensi (o altri ?) in chiave anti-iraniana.
Riappare nella guerra civile siriana schierato con Jabhat al-Nusra. Di fatto il ramo siriano di al-Qaeda, poco più di 4mila combattenti, ma ben addestrati e ben equipaggiati (grazie anche al sostegno di alcuni paesi occidentali, tra cui la Francia). Nel 2015, dopo che si erano compromessi i buoni rapporti tra al-Qaeda e Isis (e tra Al-Joulani e il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi), al-Nusra deve ripiegare dai territori occupati. Mentre l’eterogeneo fronte anti-Assad inizia a sgretolarsi.
Jabhat al-Nusra si ricicla, prima come “Jabhat al-Fateh al-Sham”, in seguito (con l’adesione di altre sigle islamiste minori, nell’odierna Hayat Tahrir al-Sham. Ossia l’organizzazione che per anni ha spadroneggiato a Idlib, reprimendo ogni protesta e imponendo una versione della shari’a derivata dalla contaminazione tra diverse correnti radicali (sciafeismo e wahhabismo).
Fermo restando che da uno così non comprerei una bici usata, quali garanzie (e a nome di chi ?) può dare di voler effettivamante “una Siria pluralista in cui tutte le componenti avranno gli stessi diritti” ?
Dubitarne è lecito. Perlomeno di fronte alle recenti immagini di esecuzioni, di impiccagioni nei territori occupati dalle milizie jihadiste filoturche.
Altra storia quella dei curdi del Rojava e dei loro alleati arabi, armeni, cristiani, ezidi…
I quali, oltre ad aver combattuto come pochi contro Daesh, hanno saputo realizzare, per quanto umanamente possibile, un sistema pluralista (femminista, libertario, ispirato alla “ecologia sociale”…). Al mometo se non l’unico, uno dei pochi progetti politici in grado – se applicato su scala nazionale – di garantire pace, giustizia e libertà alla martotiata terra siriana.
“Noi abbiamo la soluzione- hanno dichiarato esponenti dell’AADNES rivolgendosi alla comunità internazionale – ma abbiamo bisogno di sostegno”.
Originaria di Afrin, Sinam Sherkany Mohamad attualmente rappresenta l’AADNES a Washington. In questi giorni è intervenuta più volta per dire la sua sulla situazione siriana.
“La Siria – ha scritto – è immersa nel caos. E’ ora che la comunità internazionale prenda seriamente in considerazione le nostre proposte di governabilità multietnica”. E prosegue spiegando le caratteristiche del modello sociale applicato in Rojava, un sitema in cui convivono, si autogovernano “arabi, cristiani, curdi alauiti…”.
Auspicando una “soluzione politica” che ponga termine allo spargimento di sangue degli ultimi anni.
Quasi a voler dare il “buon esempio”, le milizie arabo-curde hanno dichiarato una amnistia generale nella provincia di Deir ez-Zor recentemente abbandonata dall’esercito di Damasco (e che rischiava di cadere nelle mani dell’Isis risorto). Rivolgendo un appello “al popolo e alle tribù per prevenire il caos e proteggere la regione cooperando insieme per garantire la sicurezza e la pace”.
Gianni Sartori
CURDI-SIRIA (8 dicembre 2024)
DAMASCO E’ CADUTA, MA IL CONFLITTO PROSEGUE ACCANITO A MANBIJ, assediata da turchi e ENS
Intanto un pensiero caritatevole per quanto stanno vivendo i nostrani “campisti” di fronte alla dissoluzione, all’evaporazione del loro avamposto siriano, quello finora presieduto dal fuggitivo Bashar al-Assad. Immagino come ci si debba sentire se – soltanto due-tre giorni fa – lo si qualificava come potenziale futura “guida del campo antimperialista”.
Peggio ancora per chi aveva appena definito l’astuto e apparentemente ondivago Erdogan un “antimperialista”. O anche un “antifascista” (non invento niente, cercate e troverete…) per il suo sostegno (a mio avviso del tutto strumentale) alla causa dell’autoderminazione del popolo palestinese. Sebbene nel frattempo fosse ancora impegnato a perseguitare i curdi ovunque: dal Bakur (entro i confini turchi) al Bashur (nord dell’Iraq) al Rojava (dove ora sta scatenando i suoi mercenari del soidisant Esercito Nazionale Siriano).
Penso a quanto sia dura da mandar giù. Con Damasco caduta, dopo Aleppo e Hama, quasi senza colpo ferire in mano ai riciclati di al-Qaida.
Ma, come si dice in questi casi, dovrebbero farsene una ragione.
Assolto il gravoso compito di “consolare gli afflitti” (opera di misericordia spirituale), passo a considerare le legittime speranze (e magari anche qualche piccola incongrunenza) emerse nelle dichiarazioni di Mazloum Abdi, comandante delle SDF.
Scrive nel suo recente messaggio che la Siria “sta vivendo momenti storici e siamo di fronte alla caduta dell’autoritario regime di Damasco. Cambiamento che rappresenta una opportunità per costruire una nuova Siria fondata sulla democrazia e la giustizia che garantisca i diritti di tutti i siriani”.
Gli fa eco il copresidente del Dipartimento di Relazioni Estere dell’AADNES: “L’epoca della tirannia è finita. Voltiamo pagina rispetto al passato per unire gli sforzi dei siriani per un futuro migliore basato sulla giustizia e sulla democrazia”.
Dichiarazioni concilianti che potrebbero (condizionale etc.) apparire come una mano tesa agli autoproclamati “ribelli e insorti” entrati a Damasco. Tatticamente comprensibili, ma forse un tantino azzardate. Viste le origini islamiste di tali personaggi (Hayat Tahrir al-Sham alias al-Nusra in primis) e soprattutto ben sapendo che l’offensiva del 27 novembre, condotta da HTS e dal SNA, come minimo ha goduto del sostegno di Ankara. Con l’intento di annullare definitivamente l’esperienza del Confederalismo democratico, espressione del protagonismo politico dei curdi.
Per cui nei territori autogestiti dall’AADNES, mentre la popolazione scendeva in strada per festeggiare comunque la fine del regime, contemporaneamente veniva decretato lo stato di emergenza. In vista delle probabili ulteriori aggressioni al Rojava da parte dei proxy di Ankara (ENS, ma non solo). Ovviamente non credo proprio che i curdi rimpiangeranno Assad. Ma temo che la questione sia ben lontana dall’essere risolta.
Riassumendo.
Con la caduta di Damasco (e la fuga ingloriosa dei Assad) nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, si è aperta una nuova fase. Anche per i funzionari di alto livello del regime che ora – temendo di perdere non solo la vita, ma forse anche la “testa”, letteralmente – si dichiarano pronti a collaborae con i vincitori per una “transizione pacifica”. Mentre dilagano le immagini delle statue degli Assad (padre, figlio e qualche altro parente) abbattute, anche in Rojava si festeggiava, dicevo. Ma soprattutto si combatteva per arginare i ripetuti, intensi attacchi dell’ENS sui diversi fronti. In particolare – da est, ovest e sud – su Manbij (governatorato di Aleppo, distretto di Manbij). Comunque finora sempre respinti, nonostante il contributo diretto dell’esercito turco.
Non si tratta – va chiarito – né di “incidenti isolati”, né del protrarsi di tensioni dovute agli eventi convulsi degli ultimi giorni. E non sono destinati a rientrare, esaurirsi in breve tempo con la “normalizzazione” del Paese.
Persisteranno a lungo, tanto quanto la Turchia vorrà proseguire nel suo intervento militare – sostanzialmente anti-curdo – in Siria. Come confermava un precedente comunicato del Consiglio militare di Manbij, secondo cui le ripetute aggressioni fanno parte di un vasto piano, di una vera e propria “strategia di occupazione e destabilizzazione” del territorio siriano.
Anche gli ultimi attacchi sono avvenuti utilizzando droni (UAV) e colpi di artiglieria pesante. A cui si sono aggiunte offensive sul terreno contro i villaggi di Jabb Makhzoum, Jableh Al-Hamra, Tal Aswad, Al-Hota e Tal Taurine. Attacchi pianificati (come avrebbe appurato l’intelligence curda) da un centro operativo congiunto, composto sia da capi dei gruppi jihadisti e mercenari, sia da ufficiali dell’esercito turco.
Riuniti nelle FDS (Forze Democratiche Siriane), i consigli militari di Manbij e di Al-Bab finora hanno respinto il nemico che ha lasciato sul terreno molti suoi combattenti.
Vediamo la cosa in dettaglio.
Risale a mezzogiorno (circa) di domenica 8 dicembre l’ultima dichiarazione del Centro Stampa del Consiglio Militare di Manbij. Ricorda che negli ultimi dieci-dodici giorni le aggressioni opera dell’esercito occupante turco (con l’aviazione, ma non solo) e dei suoi accoliti si contano a decine. Anche se “tutti questi attacchi sono stati sventati”, il comunicato riconosce che “le bande (ENS e jihadisti vari nda) hanno intesificato le aggressioni su tutti i fronti”. Oltre a quello di Manbij “da Toğar fino a quelli di Ewn Dadat, Arab Hasan (come Manbij, nel governatorato di Aleppo nda), Erima (ugualmente nel governatorato di Aleppo, distretto di al-Bab nda)”.
In questi ultimi giorni, alcuni gruppi con veicoli blindati – e con l’appoggio aereo dello Stato turco – avevano tentato di entrare nella città da sud. Ma presto cadevano in un’imboscate delle milizie curde. Intanto alcune cellule, in precedenza già infiltrate in città, si attivavano per “seminare paura e caos tra la popolazione”. Poi gli scontri, definiti “molto violenti”, proseguivano anche nella giornata dell’8 dicembre. Con maggiore intensità in corrispondenza dei punti di accesso alla città.
Altri attacchi delle bande ausiliarie di Ankara vengono segnalati nel distretto di al-Bab contro il villaggio di Erima. Incontrando tuttavia la resistenza del Consiglio militare di Bab e delle milizie di Jabhat Al Akrad (in curdo Eniya Kurdan).
Il messaggio si conclude ricordando le migliaia di membri del Consiglio militare di Manbij caduti in difesa della città combattendo contro i terroristi di vario genere, ordine e grado che infestavano e infestano i territori a ovest dell’Eufrate: “Sempre spalla a spalla con il popolo di Manbij, ieri contro l’Isis, oggi contro le bande”.
Gianni Sartori
NON PERMETTIAMO CHE IL ROJAVA SI TRASFORMI IN UN’ALTRA GAZA !
Berxwedan jiyan e (“la Resistenza è vita”)
Gianni Sartori
Non vorrei dirlo (magari porta sfiga), ma il timore c’è, si insinua.
Ossia che nel nord e nell’est della Siria si compia l’ennesimo genocidio (o una serie di efferati crimini di guerra, pulizia etnica…fate voi, muta il concetto, ma rimane la sostanza). Stavolta contro i curdi e le altre “minoranze” invise alla Turchia.
Andiamo con ordine.
Almeno una trentina di combattenti sono stati complessivamente uccisi nel corso dell’ultima (per ora) offensiva sostenuta dalla Turchia (con l’impiego di aerei e droni) di domenica 8 dicembre nella regione di Manbij.
Qualche giorno prima le bande filo-turche avevano già occupato l’enclave curda di Tal Rifaat, in contemporanea con la rapida avanzata su Damasco degli islamisti di Hayat Tahrir al-Sham (HTS, versione edulcorata di Jabhat al-Nusra)
Stando a quanto comunicava l’OSDH (Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo, provvisto di una rete informativa in loco) “fazioni pro-turche hanno occupato diversi quartierri di Manbij dopo violenti scontri con il Consiglio militare di Manbij”. Il Consiglio (MMC), ricordo, è affiliato alle FDS (Forze Democratiche Siriane).
I feroci scontri di domenica avrebbe provocato una decina di morti nei ranghi delle bande filo-turche e una ventina in quelle del Consiglio militare.
Come già riportato, la resistenza arabo-curda avrebbe inflitto “seri colpi” ai proxi di Ankara, sia a Manbij che nella vicina città di al-Bab.
Da parte dei filo-turchi invece si sostiene (su Telegram) di aver già ”preso il controllo della città di Manbij a est di Aleppo dopo feroci battaglie”.
Diffondendo video di miliziani apparentemente già all’interno della città e altri, forse datati, di presunti combattenti del MMC fatti prigionieri (fake news ?). In realtà finora i mercenari turco-jihadisti avrebbero conquistato soltanto il villaggio di Al-Arima (dove i russi avevano costruito una base militare) alle porte di Manbij.
Altre fonti riferiscono della defezione di alcuni ex membri del MMC (arabi) che avrebbero raggiunto le linee degli occupanti turchi. Si tratterebbe di due noti leader della brigata Jund al-Haramayn (“Brigata dei soldati delle due sante moschee”): Abd al-Rahman al-Banawi e Ibrahim al-Banawi (lo stesso che nel 2014, sconfitto dall’Isis, aveva trovato rifugio con i suoi presso le YPG a Kobane, quantomeno un ingrato).
Sia chiaro a tutti: se Manbij dovesse cadere nella mani delle bande jihadiste filo-turche, si aprirebbe la strada per Kobane, la città martire che aveva sconfitto Daesh (non a sproposito talvolta definita “incubo di Erdogan”).
Questa la situazione che definire “grave” è il minimo.
Quasi che si sia compiuto un passo indietro di 14 anni. Assad è scappato, ma per i curdi non cambia molto. Circondati, attaccati dalla Turchia e dai suoi ascari da nord e da ovest, mentre a Raqqa e a Deir ez-Zor le cellule di Daesh fuoriescono dalle fogne.
Quanto alla “coalizione internazionale” a trazione USA, osserva e lascia fare…
Invece gli islamisti ex (ex ?) al-Nusra, ex (ex ?) al-Qaida etc. e ora HTC, hanno già fatto sapere che non c’è posto per l’AADNES nella formazione di un nuovo governo siriano (quello teoricamante “inclusivo” e garante dei diritti di tutte le comunità etnico-religiose). Come c’era da aspettarsi visto da chi prendono ordini e finanziamenti.
Nella serata di domenica 8 dicembre, la Turchia ha fatto ampio uso dell’aviazione in appoggio a quelle che ormai i curdi definiscono semplicemente “le bande” (i mercenari filo-turchi).
Bombardando l’edificio dell’Amministrazione Autonoma nel centro di Manbij, mentre le formazioni jihadiste avanzavano – grazie al supporto aereo e ai veicoli blindati forniti dai turchi – in corrispondenza dell’entrata sud della città. La percezione, secondo alcuni amministarori locali, è quella di trovarsi in una “sistematica operazione speciale militare”, propedeutica all’attacco su larga scala al Rojava.
Manbij di fatto rimane l’unico territorio ancora amministrato dall’AADNES a ovest dell’Eufrate. Era stato liberato dall’Isis nel 2016 per mano delle FDS e si considera la prima area autogovernata nel nord e nell’est della Siria. Attualmente tra Manbij e le località circostanti qui convivono circa mezzo milione di persone (curdi, arabi, assiri, armeni e altre “minoranze”).
Sempre l’8 dicembre, un veicolo turco da combattimento senza equipaggio (UCAV) ha bombardato la zona in prossimità del ponte Qereqozaq che unice le due sonde dell’Eufrate nel sud di Kobanê.
Un inquietante segnale premonitore di quanto potrebbe presto accadere.
Ma intanto – come già segnalato – cogliendo il nuovo clima favorevole, anche l’Isis fuoriesce dalle fogne. A Raqqa i sostenitori di Daesh (o Isis che dir si voglia) hanno imbastito addirittura una manifestazione. Alimentando tra gli abitanti il timore di dover presto ancora assistere ai violenti attacchi (con veri e propri massacri di civili) degli anni passati. D’altra parte questo è ancora il minimo, visto che l’ormai spompata “coalizione internazionale” (sorta per contrastare l’Isis) appare cieca e indifferente di fronte al fatto che la Turchia continua impunemente a colpire i curdi, prima linea nel contrasto ai fanatici islamisti.
La sconfitta eventuale dei curdi rappresenterebbe anche la sconfitta di tutti quei principi di democrazia, diritti, giustizia, libertà, coesistenza pacifica…( talvolta sbandierati magari a vanvera dai paesi democratici) di cui il Conferalismo democratico si è fatto carico in Medio oriente. L’alternativa è quella già sperimentata di ripiombare in una guerra di “tutti contro tutti”.
Del resto questo potrebbe essere l’obiettivo della Turchia (e non solo): seminare il caos, approfittare dell’incerta e disordinata situazione (a cui ha ampiamente contribuito) sabotando la ricostruzione di “un’altra Siria possibile”. Pacifica, democratica, inclusiva, rispettosa dei diritti di ogni sua componente. Dove “l’aspro rumore delle armi ceda il posto al dialogo”. Un progetto irrealizzabile senza l’attiva partecipazione dei curdi.
Come ha ribadito il CDK-F (Consiglio democratico curdo in Francia ) “l’esclusione dei curdi dai negoziati e dalle discussioni politiche rappresenterebbe un errore storico”.
Diverso, diametralmente, il punto di vista di Ankara.
Per Erdogan il rovesciamento del suo personale nemico Bachar al-Assad porta al rafforzamento del peso specifico, dell’influenza della Turchia che risulta il vero vincitore di questa rapida operazione bellica. E non solamente a livello regionale, ma per – esempio – anche nei confronti di Mosca.
Oltretutto è l’occasione per rimandare in Siria qualche milione di rifugiati (circa tre), magari insediandoli nei territori attualmente controllati dai curdi. Un piano di “sostituzione etnica” in parte già sperimentato, invasione dopo invasione, da Ankara negli ultimi anni.
Senza dimenticare l’altro invadente soggetto perennamente attivo nell’area, Israele che non è certo rimasta a guardare. Superando il confine nella zona delle Alture del Golan (occupate illegalmente dal 1967) con l’obiettivo di tornare alla linea del 1974. Occupando tutto il governatorato di Quneitra (quello della famosa “città fantasma”) ora lasciato sguarnito dall’esercito siriano allo sbando.
Gianni Sartori
“Un inquietante segnale premonitore di quanto poteva presto accadere” avevo scritto.
E infatti, nella notte di domenica 8 dicembre (verso le ore 23) un nuovo attacco di droni turchi contro il villaggio di El Mustareha, a ovest di Ayn Issa, causava la morte di alemeno 12 (dodici !) persone, in maggioranza donne e bambini (notizia diffusa dall’agenzia ANHA).
Un conferma – caso mai ce ne fosse stato bisogno – delle priorità dello Stato turco in Siria. Annichilire l’AADNES intensificando gli attacchi contro tutto il nord della Siria e costringendo migliaia di persone (curdi, ma non solo) e emigrare per salvarsi la vita.
Ripeto, con questi precedenti un’altra Gaza è possibile…
GS