4 gennaio 1978, Cassino: ucciso dirigente Fiat, Carmine De Rosa
L’omicidio politico è entrato in fabbrica e il terrorismo ha di nuovo colpito alla testa e al cuore. Per la prima volta la vittima è un dirigente della Fiat. Ucciso da cinque colpi di mitra. Carmine De Rosa, 52 anni, responsabile della sicurezza industriale dello stabilimento di Piedemonte San Germano, è stato assassinato questa mattina alle 8. Al volante della sua auto, stava per recarsi al lavoro. Accanto a lui sedeva Giuseppe Porta, 61 anni, suo amico e superiore. Coordina gli uffici della salvaguardia del patrimonio dell’intera azienda. Era giunto appena ieri da Torino, ove abitava fino a tre mesi fa. Porta è stato ferito al polpaccio destro da un proiettile forse esploso da una pistola.
A sparare e ad uccidere sono stati due giovani, che hanno agito a viso scoperto. Sono fuggiti su una « 125 » verde, dove li attendeva un complice. Nel primo pomeriggio l’attentato mortale lo hanno rivendicato gli «Operai armati per il comunismo» con una telefonata giunta alla redazione del Messaggero di Frosinone. «Abbiamo giustiziato un criminale fascista», ha detto una voce, ed ha aggiunto la firma. Una definizione inappropriata: non risulta una appartenenza neofascista di Carmine De Rosa.
La sigla non è nuova. L’aveva già usata — dicono gli inquirenti — un altro anonimo interlocutore nell’aprile del ’76. Allora una telefonata precedette un volantino delle «Squadre armate proletarie», che rivendicarono l’attentato contro Stefano Pettinotti, un capo officina della verniciatura. Lo ferì alle gambe con alcuni colpi di pistola un terrorista tuttora ignoto. In quella occasione gli «Operai armati per il comunismo» apparvero come il «Nucleo interno» allo stabilimento Fiat di Piedemonte San Germano. Una specie di «filiale» di una più vasta organizzazione che si autodefinì «Squadre armate proletarie», sotto l’emblema della stella a cinque punte delle «brigate rosse» .
Il primo omicidio di un dirigente Fiat
Così la Stampa del 5 gennaio 1978 ricostruiva, a firma di Silvana Mazzocchi, l’agguato. Ma l’omicidio di Carmine De Rosa è un episodio più importante delle scarse tracce che ha lasciato nella memoria storica. Perché oltre a essere il primo omicidio di un dirigente Fiat, è anche il primo omicidio “politico” eseguito dalla galassia armata “autonoma”. Un paio di mesi prima del sequestro Moro e della “strage” di via Fani. I due agguati precedenti, opera di militanti di Prima Linea, erano infatti “rappresaglie” a caldo. Il consigliere provinciale missino Enrico Pedenovi lo ammazzarono per vendicare Gaetano Amoroso, un militante marxista leninista accoltellato a morte da fascisti milanesi. Uccisero il brigadiere di Ps torinese Ciotta come rappresaglia per la morte di Francesco Lorusso a Bologna.
La doppia anima delle Fcc
Al termine di un complesso iter processuale, l’unico condannato per concorso morale nell’omicidio fu Paolo Ceriani Sebregondi, Era il leader meridionale delle Formazioni comuniste combattenti, un gruppo armato fuoriuscito dall’Autonomia operaia organizzata. Un gruppo con una doppia “anima”: il leader nazionale è Corrado Alunni, tra i fondatori delle Brigate rosse, essendo un tecnico della Sit Siemens. Fuoriuscito con Susanna Ronconi (che diventerà la leader di Prima Linea) e Fabrizio Pelli (che morrà in carcere di leucemia)in rottura con la scelta strategica di “portare l’attacco al cuore dello Stato”, in nome di un maggior radicamento della lotta armata in fabbrica e sul territorio, Alunni era diventato il responsabile della rete illegale di “Rosso” e da lì era germinato la struttura armata. A Milano di lì a poco le FCC avrebbero dato vita a un comando unificato con Prima Linea mentre la rete meridionale, radicata sull’asse Roma-Cassino-Avellino, si confrontava con le Br, in cui sarebbero confluiti i militanti latitanti dopo il disastro dell‘agguato di Patrica.
L’ingiusta detenzione dei leader operai
Ottennero infine l’assoluzione dopo una lunga custodia preventiva (e una condanna per omicidio nel primo appello) e risarciti per ingiusta detenzione i due esponenti del Comitato operaio. L’organismo autonomo aveva un ruolo importante nella conflittualità interna alla Fiat di Cassino. Come ci racconta, in un suo memoir, Giovanni Trinca, dirigente sindacale della Fim-Cisl, che ricostruisce nel dettaglio lo scontro quotidiano tra lotte operaie spontanee e organizzazione sindacale in fabbrica in “NOMADE PER SCELTA. Dalle grandi trasformazioni del Veneto agli investimenti industriali nel Sud”, ed. BiblioLavoro – collana ͞Fonti e materiali, Sesto San Giovanni – novembre 2011
Il doppio danno degli scioperi spontanei
Gli scioperi spontanei creavano gravi danni all͛’azienda, ma anche molti disagi per i lavoratori. Capitava che una squadra, autonomamente (spesso erano gli operai addetti alla ͟mano di fondo della verniciatura), si dichiarasse in sciopero per i motivi più disparati provocando l’arresto delle linee di produzione, che potevano reggere una interruzione massima di due ore. In quelle circostanze la Fiat metteva le scocche da lavorare fuori linea, in appositi polmoni di contenimento. Una volta riempiti, il lavoro a monte e a valle di quella squadra si bloccava impedendo a centinaia di lavoratori di proseguire nella loro attività. Questo accadeva molto spesso quando la Flm e il coordinamento di gruppo si stava preparando a grandi vertenze con la Fiat, indebolendo i lavoratori e il sindacato.
Il ruolo degli autonomi
“Su questo aspetto lo scontro politico con i gruppi dell͛’autonomia era quotidiano, in particolare con il Circolo operaio, capeggiato all’esterno da Paolo Ceriani Sebregondi. Come si venne a sapere qualche anno dopo per bocca di alcuni terroristi pentiti, lui ambiva assumere il ruolo di referente per il Centro Sud nell’organizzazione terroristica. Tentava di unificare diverse formazioni presenti, collegandole con il Circolo operaio, che aveva in azienda come principali esponenti, Giancarlo Rossi, Alberto Armellino e alcuni altri lavoratori. Costoro sostenevano che la Fiat aveva progettato le aree chiamate ͞polmoni di contenimento delle scocche fuori dalle linee per vanificare lo sciopero dei lavoratori.
Sabotaggio ed eversione
La loro politica era finalizzata al sabotaggio e alla distruzione della produzione, come si è poi scoperto più avanti. Lo sciopero per loro diventava un fine in sé per attaccare il sistema. Per il sindacato invece lo sciopero non era un fine, ma soltanto un mezzo estremo per realizzare conquiste che permettessero il miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Purtroppo però molti lavoratori si lasciavano convincere da quelle idee, che mascheravano una ideologia eversiva, contraria agli interessi del mondo del lavoro. In quelle situazioni i lavoratori, non avendo lavoro, abbandonavano il posto, uscivano dallo stabilimento e con mezzi di fortuna tornavano a casa imprecando contro la Fiat e il sindacato, e il giorno seguente inviavano il certificato medico, mettendosi in mutua.
La linea dura della Fiat
In questo contesto il direttore del personale, signor Francesco Lonzi, per impedire il ricorso alla cassa mutua e l’abbandono dello stabilimento, applicò tre direttive, concordate con la direzione generale di gruppo. La prima fu la messa in libertà dei lavoratori. Voleva dire che gli operai potevano lasciare il lavoro senza avere nessun risarcimento per il lavoro perso. Anche se la causa non era imputabile a loro. In questo modo essi perdevano il pagamento di mezz’ora previsto dal contratto.
L’assenteismo operaio
Gli operai andavano a casa e rispondevano mettendosi in mutua, presentando centinaia di certificati medici. Allora la Fiat cambiò strategia, comunicando ai lavoratori in occasione di queste circostanze, non più la messa in libertà ma, il ͞senza lavoro. Significava che i lavoratori non potevano abbandonare lo stabilimento, perché diventavano assenti ingiustificati, se abbandonavano la fabbrica. Questo però non impediva loro di girare per l’intero stabilimento e la cosa non piaceva alla Fiat. Decise allora di applicare una nuova direttiva, chiamata messa a disposizione, vale a dire che gli operai non potevano abbandonare il proprio reparto e la propria squadra, perché il lavoro, così come si era interrotto improvvisamente, poteva riprendere.
La Flm contro lo spontaneismo
La Flm ovviamente era impegnata a svolgere un difficile confronto nelle squadre con i soggetti interessati per convincerli a coordinare le iniziative, a porre fine alle rivendicazioni corporative e allo spontaneismo in fabbrica, con scioperi che provocavano più danni che benefici. In queste occasioni i lavoratori si organizzavano in corteo e si dirigevano verso la palazzina uffici della direzione ed entravano in massa: qui venivano chiamati i delegati, che dovevano farsi spiegare le ragioni dello sciopero e quali fossero le richieste, per poter iniziare il confronto con la direzione. Questa impostazione, costringeva i rappresentanti sindacali ad inseguire le iniziative spontanee dei lavoratori, piuttosto che promuoverle e coordinarle.
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