23 marzo 1950: i carri armati schiacciano l’insurrezione di San Severo
Il 23 marzo 1950 i lavoratori di San Severo, all’indomani di uno sciopero generale (2 morti a Lantella il 21 marzo, 1 a Parma e ad Avezzano il 22, nelle proteste per l’eccidio scelbiano), insorgono contro le forze di polizia, innalzando barricate e assaltando le armerie e la sede del MSI. Gli scontri causarono un morto, Michele Di Nunzio, 33 anni e circa quaranta feriti tra civili e militari. Per fermare gli insorti l’esercito non esitò a occupare con i carri armati le principali vie della città. Nei giorni seguenti, con l’accusa di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, un reato da ergastolo, furono arrestate 184 persone.
Sette morti in sette giorni
La rivolta di San Severo conclude una settimana drammatica. Il 14 marzo la Celere spara sugli operai della Breda di Porto Marghera in sciopero. Nella memoria operaia si radicherà il falso ricordo di due operai morti (celebrati anche da una canzone di Gualtiero Bertelli) ma in realtà entrambi, feriti gravissimi, si riprenderanno. Il 17 marzo a Torino l’assalto alla sede del Msi, responsabile di gravi provocazioni, si conclude con la morte infarto di un cittadino che non aveva preso parte alla manifestazione ma era sceso in piazza a “vedere che stava succedendo”. La situazione precipita il 21 marzo: uno sciopero alla rovescia in un paesino abruzzese, Lentella, finisce con due braccianti uccisi e 10 feriti dal fuoco dei carabinieri. La Cgil proclama lo sciopero generale e Scelba risponde ordinando il pugno di ferro.
Le forze dell’ordine eseguono con dedizione. Il 22 marzo il disoccupato 32enne Attila Alberti cade sotto gli spari della polizia al termine di una manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro di Parma. Alberti muore sul colpo, all’angolo di strada Repubblica con Borgo Sant’Ambrogio. Ma c’è un’altra vittima: Luciano Filippelli, condotto in carcere, morirà a causa del diabete che i secondini non gli permisero di curare. La polizia spara ancora in Abruzzo ad Avezzano contro i dimostranti: ucciso Francesco Laboni. La lotta per la socializzazione delle terre del Fucino porterà altri morti. Intanto, il 23 marzo, è la volta di San Severo: 1 morto, 40 feriti, più di 100 arrestati che resteranno in carcere per un anno e mezzo. E questo episodio di brutale repressione innescherà uno straordinario episodio di solidarietà proletaria.
Il processo
Al termine di un processo lungo due anni e assai combattuto, che vedrà protagonista il leader della sinistra socialista Lelio Basso come avvocato difensore il 5 aprile 1952, gli imputati vengono assolti e rilasciati. Nei due anni che intercorrono tra l’arresto e la liberazione, i figli dei prigionieri, circa 70 bambini, sono “adottati” da famiglie di lavoratori del centro-nord, in segno di solidarietà sociale e politica con le lotte del Mezzogiorno.
Alle origini della rivolta una drammatica condizione di miseria e sfruttamento per i braccianti agricoli. Nei giorni “fortunati” in cui riusciva a trovare un lavoro al mercato, il “giornaliero” riscuoteva appena 740 lire, un salario assolutamente insufficiente a nutrire una famiglia. La proprietà del 55% della campagna sanseverese era in mano a pochi latifondisti mentre i contadini poveri e i braccianti nullatenenti costituivano il 63% della popolazione attiva della città.
La solidarietà proletaria
IL VIDEO SUI TRENI DELLA RIVOLTA
L’eccezionale movimento collettivo di accoglienza dei figli degli incarcerati di San Severo, è solo un tassello. Un più vasto movimento nazionale già dal ’46 operava in Italia. Organizzato dai partiti della sinistra e da organizzazioni femminili come l’UDI. Le famiglie emiliano romagnole, marchigiane e toscane, della rete dei comitati di Solidarietà Democratica accolsero come figli adottivi i più poveri bambini del Sud. Una grande esperienza di massa portò, nei “treni della felicità”, circa 70.000 bambini a vivere l’adozione familiare dal 1946 al 1952
Lascia un commento