29 maggio 1980, caso Donat Cattin. Sandalo: così Cossiga lo avvertì
Tra i danni collaterali delle confessioni di Patrizio Peci c’è la crisi politica passata alla storia come il caso Donat Cattin. Comporterà anche un doloroso strappo personale tra il premier Francesco Cossiga e il cugino leader del Pci, Enrico Berlinguer. Il superpentito delle Brigate rosse accusa Marco, il figlio del ministro dc, di essere uno dei capi di Prima Linea.
Lo scandalo esplode il 29 maggio 1980. Roberto Sandalo, terrorista “pentito” di Prima linea, è trasferito a Roma per essere ascoltato e chiarire come Marco Donat Cattin abbia saputo, alla fine di aprile, nella clandestinità, della sua imminente incriminazione dopo la confessione di Peci. L’ipotesi di favoreggiamento nei confronti di Cossiga (che lo porteranno davanti al tribunale dei ministri per una denuncia del Pci) poggia sulle accuse di Sandalo. Donat Cattin ammette di aver avuto un incontro con Sandalo, ma solo per avere notizie del figlio.
La testimonianza del pentito
«Mi convocò a casa sua, a Torino, la mattina del 25 aprile 1980. Erano le sette e mezzo, aveva il pigiama a righe e gli occhialoni. Venne subito al dunque: ieri sera Cossiga mi ha detto che Patrizio Peci ha parlato. Mio figlio è in Prima linea ed è uno dei capi. Cossiga mi suggerisce di dirgli di scappare all’estero perché se lo pigliano in Italia, con le elezioni in vista, è un casino.
Le rassicurazioni del ministro
Il senatore e la moglie continuavano a ripetere: andiamo a prenderlo, partiamo subito. Io li fermai: non so dov’è. Dovete pazientare. Io e Marco eravamo usciti da Prima linea nell’ottobre precedente, portandoci dietro un terzo circa dell’organizzazione, sapevo a mala pena che era a Brescia. Poi ero preoccupato; avevamo tutti e due sulla coscienza reati da ergastolo e non sapevo nemmeno che Peci si era pentito, ma il ministro del Lavoro mi rassicurò: Sandalo stia tranquillo, lei è in una botte di ferro.
La fuga di Marco
Aspettai il lunedì e la fine del ponte. Il 28 andai a lavorare alla Simca e feci alcune telefonate. Alle due e mezzo un contatto mi richiamò: Marco è stato avvisato, ti ringrazia. Mia mamma parlò con la signora Amalia che però era tesissima e si autoinvitò a cena a casa nostra. E a cena accadde l’incredibile: una telefonata per la signora Amalia. Tornò a tavola felice. Disse che era il convivente della figlia che, guarda la combinazione, aveva incontrato a Milano Marco: tutto ok. Inverosimile. Qualcuno, ai piani alti delle istituzioni, confermava il mio contatto: Marco era in fuga.
L’arresto
Accompagnammo Amalia a casa sua, tornammo a Mirafiori: polizia da tutte le parti. Scappai. Ma dove? Prima linea mi voleva morto. Andai nell’unico posto dove non mi avrebbero cercato: da Maria Pia Donat-Cattin, la sorella di Marco. Ma non avevo vie d’uscita: ero il figlio di un operaio, non di un ministro. La mattina dopo andai in fabbrica e lì un agente della Digos, travestito da autista, mi puntò una pistola alla tempia. Querelerò Cossiga quando dice che ero stato catturato e rimesso in libertà a seguito di un accordo fra il giudice Caselli e la polizia per utilizzarmi come agente provocatore contro Marco. Una follia: perché non accetta un confronto con me in tv? A novembre però i carabinieri di Dalla Chiesa mi mostrarono le foto di Marco scattate col teleobiettivo a Parigi. Confermai: è lui. Così anche Donat-Cattin fu blindato”.
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