5 febbraio 1948: nasce Claudio Sicilia, pentito non creduto della Magliana
Nella serie “Romanzo criminale” il personaggio ispirato a Claudio Sicilia ( Giugliano in Campania, 5 febbraio 1948 – Roma, 18 novembre 1991), 30 denari, è ucciso per una questione di corna dal “Sorcio”, Fulvio Lucioli. In realtà i due si pentono insieme e sono i grandi accusatori nel maxiprocesso del 1986 che finisce con una clamorosa defaillance dell’accusa e assoluzioni generalizzate. Ecco il ritratto del personaggio reale offerto da un altro pentito della banda, Antonio “Accattone” Mancini
Un camorrista trapiantato a Roma
Claudio Sicilia, che per le sue origini campane noi avevamo soprannominato Il Vesuviano, era un ragazzone alto, robusto e forte come un toro. Sfoggiava grossi occhiali da vista su una faccia da bravo ragazzo e aveva modi garbati. Sposato con una graziosa signora con un originalissimo nome; Ariama, aveva due figli piccoli, un maschio e una femmina.
Era imparentato con la potente famiglia camorristica dei Maisto e cugino di Corrado Iacolare, uno dei bracci destri di Raffaele Cutolo. Claudio aveva partecipato alla faida con l’altra potente famiglia dei Mallardo di Giugliano, un paesone dell’entroterra napoletano. Inquisito per l’omicidio di uno dei membri del clan rivale, per sfuggire alla vendetta decise di rifugiarsi a Roma. Andò quindi ad abitare nel quartiere della Garbatella, dove conobbe Marcello Colafigli, con il quale strinse una forte amicizia. Al punto che “Marcellone” tenne a battesimo uno dei figli del napoletano. Forte di questa parentela Marcello decise di farlo entrare nella banda nei ruoli di custode-distributore della droga e responsabile della cassa comune. Qui venivano depositati gli introiti delle attività con cui mensilmente pagavamo gli “stipendi” per ognuno dei membri dell’organizzazione.
Eravamo quasi gemelli
Gestire gli affari, aprire i contatti con le altre organizzazioni criminali, corrompere uomini delle forze dell’ordine ed entrare nei gangli degli uffici giudiziari, erano i punti forti del Vesuviano. Ben presto entrò nelle grazie di tutta la banda. Con me poi si dimostrava un po’ più disponibile che con gli altri perché: “ nun me scassi mai ‘o cazzo con il rendiconto dei proventi e i soldi che stanno int’ ‘a cassa”.
E non trascurava nemmeno il fatto che eravamo entrambi, nati nello stesso anno, 1948, e mese di febbraio. Io il giorno quattro e lui il cinque: “ Simm’ do ‘o mejo segno; no comm’ a chist’ che so do ‘o scorpione, ‘o ragno e ‘a lucertola”, diceva. E indicava con il suo sorriso da scugnizzo gigante, Edoardo l’Operaietto, Marcello e Maurizio er Crispino!
Il Vesuviano abitava in Via Chiabrera, proprio sopra il bar che noi della fazione Magliana avevamo eletto come punto d’incontro. E spesso salivamo a casa sua per parlare dei nostri affari o progettare ammazzatine. Di solito, al termine di quelle riunioni, c’era sempre qualcuno di noi che lo distraeva. Qualcun altro di soppiatto gli sottraeva qualche oggetto di valore. Semplicemente per il gusto di vederlo inveire e scazzottare amichevolmente con l’altro gigante della banda “Marcellone” Colafigli.
L’ingordigia dei miei amici
Ricordo che durante la mia detenzione, il Vesuviano mi mandava frequentemente a dire dalla persona che mi veniva ai colloqui che Tizio, Caio e Sempronio, con la scusa di gestirla loro, si scannavano per tenersi la mia leggendaria stecca para o i lingottini d’oro che ricavava dalla merce ricettata. Mi avvisava: “ Se non fai ampress’ a fartela ridare, ‘a roba toia se la terranno talmente stretta da impadronirsene definitivamente”.
A questi suoi avvertimenti io, anche tra il disappunto di chi mi veniva ai colloqui, facevo spallucce anche gli mandavo a dire che con ventotto anni di galera da scontare non avevo il tempo per pensare al denaro e ai lingottini d’oro anche perché il luogo dove mi trovavo non mi avrebbe permesso di spendere soldi e sfoggiare ori.
Ero detenuto nel supercarcere dell’isola di Pianosa quando lessi che Claudio il Vesuviano aveva subito un attentato a colpi d’arma da fuoco e tra notizie raccolte attraverso corrispondenza e mezze parole mi fecero capire che a sparargli era stato uno della banda che qualche tempo prima Claudio aveva gonfiato di botte.
Da quell’attentato il Vesuviano smise di sostenere finanziariamente noi carcerati e le nostre famiglie. Ci abbandonò alle nostre sbarre e alle nostre condanne e si condannò da solo alla morte.
Il “pentimento” del Vesuviano.
Era il 1986 o forse ‘87 quando sentendosi una pistola puntata continuamente addosso, Claudio Sicilia decise di “pentirsi”. Parlò di mezzo mondo. Raccontò molte verità e anche qualche rancorosa bugia. In una sessantina di membri e collegati a vario titolo con la banda, fummo raggiunti da un corposo mandato di cattura accusati di una decina di omicidi e altro ancora. Ma il Tribunale del Riesame non credette alle dichiarazioni del Vesuviano e nel giro di pochi giorni fummo tutti scarcerati.
E così, come di prassi, dopo averlo spremuto come un limone, gli inquirenti e lo Stato abbandonarono Claudio Sicilia e lo consegnarono alla potente moto giapponese che il 18 novembre del 1981 [rectius: 1991] piombò tutta sparata su via Mantegna nella zona di Tor Marancia.
Claudio vide quella moto, capì che era li per lui e tentò di sottrarsi alla pistola che il killer gli puntava addosso rifugiandosi in un negozio di scarpe. L’uomo con la pistola non si perse d’animo, lo raggiunse all’interno del negozio, scansò la commessa, puntò la pistola sul corpo grande e robusto del Vesuviano e lo finì con quattro proiettili esplosi a bruciapelo.
FONTE: il sito web di Antonio Mancini
Lascia un commento