4 ottobre 1944: nasce Danilo Abbruciati, il “vecchio” della Magliana

Danilo Abbruciati è stato tra i membri più anziani della Banda della Magliana. Aveva alle spalle una forte esperienza malavitosa per aver fatto parte all’inizio degli anni Settanta del gruppo di Francis Turatello. Era nato nel 1944, Giuseppucci nel 1947, Mancini e Sicilia nel 1948. Molto più giovani Colafigli e Toscano (1953) ed Abbatino e De Pedis (1954). Nella banda ha avuto un peso notevole proprio per questa sua provenienza e per i legami intessuti con i boss di Cosa nostra e quindi con i canali di rifornimento dell’eroina.

“Er Camaleonte”, per la sua capacità di cambiare colore della pelle e penetrare negli ambienti più elevati della vita finanziaria, era in stretto contatto con gli immobiliaristi che operavano in Sardegna nella cementificazione delle coste. Per queste sue frequentazioni diventa la mano armata che doveva punire Roberto Rosone, il vice presidente del Banco Ambrosiano, rivale di Roberto Calvi. Un attentato da cui sarà lui ad uscire in una bara.

Una morte che racconta tutta una vita

Accade a volte che la propria morte racconti molto, moltissimo, della propria vita. Danilo Abbruciati, figura di punta di quel magma che era genericamente la malavita romana prima e della Banda della Magliana poi, muore a 38 anni. Lui romano de’ Roma viene ucciso a Milano, il 27 aprile 1982, mentre si trova sul sellino posteriore di una motocicletta,

Lo uccide una guardia giurata, con un colpo in testa, dopo che lui ha sparato e ferito a un gluteo il vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone. Non un attentato politico ma un atto di intimidazione su commissione nel torbido
gioco dei poteri forti.

La sua formazione nella banda Turatello

Nato nella capitale il 4 ottobre 1944, molti precedenti penali per associazione a delinquere, estorsione, furto, detenzione di esplosivi, addosso al suo cadavere viene trovata una patente di guida internazionale e una carta d’identità, entrambe rilasciate in Nigeria. In questura ricordano subito che Danilo Abbruciati, in passato, aveva fatto parte della banda di Francis Turatello ed era stato inquisito, assieme ad esponenti della malavita milanese, per il tentativo di sequestro del petroliere ed ex presidente del Milan, Albino Buticchi, ma che, dopo tre anni di detenzione preventiva, era stato liberato.

La prima stranezza sta nel fatto che appena poco più di un mese prima, il 15 marzo, Abbruciati era stato arrestato a Roma perché ritenuto implicato nella gestione del deposito di armi, a disposizione di malavita e neofascisti, scoperto nel dicembre del 1981 in uno scantinato del ministero della Sanità all’Eur. Era ricercato anche per un traffico di eroina e cocaina scoperto nella zona di Monte Sacro, sempre a Roma, dalla guardia di finanza. Allora perché Abbruciati era non solo in libertà, ma anche in grado di muoversi senza intralci tanto da partecipare ad un attentato a Milano? Ma chi è davvero Danilo Abbruciati?

Il primo arresto nel 1975

La prima volta finisce in galera a Roma nel novembre del 1975 perché ritenuto coinvolto nell’omicidio del biscazziere Ettore Tabarrani. Pochi mesi di cella prima del proscioglimento in istruttoria. L’anno dopo nuovo arresto. Il sostituto procuratore Domenico Sica lo considera uno dei capi dell’Anonima romana responsabile di cinque sequestri di persona. Della banda fanno parte gli esponenti del clan dei marsigliesi Robert Bergamelli e Jaques Berenguer e altri noti criminali tra cui Maffeo Bellicini. Tre anni di carcere preventivo, ma nel luglio 1979 il tribunale di Roma lo assolve.

Quando esce di galera – racconterà la sua amante, Fabiola Moretti, che in seguito sarà anche la donna di altri componenti della Banda della Magliana – Abbruciati si avvicina ai testaccini, cioè alla malavita che si muove nel quartiere romano del Testaccio. I suoi amici sono in particolare Enrico De Pedis, detto “Renatino” e Raffaele Pernasetti, detto “Er Palletta”, tornato in libertà, a fare il cuoco sempre in un ristorante del Testaccio.

Da Prati a Primavalle, poi a Trastevere

Figlio del pugile Otello Abbruciati, campione italiano dei pesi piuma prima e durante il fascismo, e a sua volta pugile di scarso livello. Danilo Abbruciati, detto “Er Camaleonte” trascorre l’infanzia nel quartiere borghese di Prati, a Roma, per poi trasferirsi in quello decisamente più popolare di Primavalle. Nel 1967 si sposa con Claudia e dal matrimonio nasce nel 1970 una figlia.

Nella banda dei testaccini Abbruciati si occupa personalmente del mercato della droga nel quartiere di Trastevere, la più importante zona di spaccio della città. Qui conosce Fabiola Moretti che sarà a lungo la sua compagna. La sua figura, nell’ambiente della criminalità romana della fine anni Settanta inizio Ottanta, è indubbiamente di spessore.

I legami con gli affaristi

Stringe rapporti con personaggi del calibro di Domenico Balducci, usuraio a Campo dei fiori. Entra in contatto con il boss mafioso Pippo Calò e poi con l’uomo d’affari sardo Flavio Carboni (il quale però ha sempre negato di averlo conosciuto). Investe parte dei proventi del mercato della droga in operazioni immobiliari in Sardegna. L’apporto di Abbruciati alla Banda della Magliana è determinante. E’ grazie ai suoi buoni rapporti, non solo con Pippo Calò ma anche con Stefano Bontade, che assieme a De Pedis apre un prezioso canale di rifornimento di stupefacenti proveniente da Cosa Nostra.

Accusato di essere tra i killer di Antonino Leccese (3 febbraio 1981), cognato di Nicolino Selis e, otto mesi dopo, di Domenico Balduccci (nel primo caso non fece parte del comando, nel secondo era in carcere), “Er Camaleonte” è stato comunque un killer spietato. Tra le sue vittime un ex pugile, Roberto Belardinelli (detto Bebbo), ucciso a pistolettate durante una rissa in un locale notturno. Ma soprattutto un grosso pregiudicato come Massimo Barbieri contro il quale scatenò una sua guerra personale in cui lo aiutò una parte della Banda della Magliana. L’errore di Barbieri fu quello di
invitare ad un festino a luci rosse la donna dello stesso Abbruciati, Fabiola Moretti.

La faida con Massimo Barbieri

“Er camaleonte” si infuriò e organizzò un agguato, ma – quasi fosse una premonizione per quanto accadrà poco dopo a Milano – la sua pistola si inceppò e la probabile eliminazione di Barbieri si trasformò in un pestaggio con il calcio della pistola. Pochi giorni dopo Barbieri cercò di vendicarsi, sparando (altra premonizione) alla testa di Abbruciati che si salverà e farà rimuovere il proiettile solo a vendetta definitiva avvenuta, una vendetta divenuta urgente anche perché Barbieri, nel frattempo, ha rapito e seviziato Fabiola Moretti. Attirato con la complicità di un amico, Angelo Angelotti, ad un droga party in una casa di Ladispoli, Barbieri viene narcotizzato e legato per poi essere torturato per ore da Abbruciati e De Pedis. Il corpo di Barbieri sarà trovato semi carbonizzato in una discarica sulla via Ostiense il 20 gennaio 1982.

Fonte: I misteri d’Italia/Sandro Provvisionato

Antonio Mancini racconta la sua fine

Due mesi dopo il ritrovamento del cadavere di Barbieri, Danilo fu prelevato e portato a Rebibbia. L’accusa era di omicidio. Ma Danilo era tranquillo, disse ai carabinieri che era innocente e mostrò al magistrato il suo passaporto, dove risultava che nei giorni dell’uccisione di Barbieri, lui era dall’altra parte dell’oceano, in Brasile.
Visto di entrata e di uscita erano regolari. Infatti Danilo non si era mosso da Roma, ma un altro, al posto suo e con il suo passaporto, si era fatto quel viaggetto che sarebbe servito da alibi inconfutabile.

I legami con i servizi segreti

Danilo alla fine fu scagionato, ma nel frattempo si era fatto qualche mese di galera. Quel periodo gli servì per stringere i rapporti con alcuni uomini dei servizi segreti, che lo andavano tranquillamente a trovare in carcere. Per rendergli più comoda quella permanenza lo rifornivano anche di cocaina. Di quelle visite naturalmente non vi era traccia nei registri dove vengono riportati i permessi di ingresso. Non ce n’era bisogno perché venivano accompagnati dal vicedirettore del carcere, Maurizio Barbera. Di questo andirivieni si venne a conoscenza molti anni dopo, grazie anche allo zelo del responsabile del settore colloqui, un brigadiere che, forse per allontanare da sé eventuali accuse, aveva annotato su foglietti che poi conservava sia l’identità dei visitatori che quella dei visitati.

Gli uomini dei servizi segreti gravitavano da tempo attorno alla banda. Nino ne aveva conosciuto uno al Gianicolo, nel ’79, che si era presentato con il nome Enzo. L’incontro avvenne dopo un pranzo a Trastevere: c’erano lui, Edoardo Toscano, Danilo Abbruciati, i fratelli Pellegrinetti, Claudio la scimmia, Maurizietto Andreucci.

Sì all’omicidio del giudice Imposimato

Quelli del Tufello volevano comunicare agli altri il progetto di uccidere un giudice scomodo, Ferdinando Imposimato, il «cornuto» che li aveva inquisiti e mandati dietro le sbarre scoperchiando un tombino pieno di sorprese: un’allegra ammucchiata di criminali, avvocati, piduisti, imprenditori, finanzieri, uomini della destra eversiva.

Nino e gli altri risposero che non avevano nulla da obiettare. Se volevano uccidere il giudice, lo uccidessero pure.
La cosa non andò in porto. Ma il giudice fu colpito lo stesso: suo fratello, con la moglie, fu trucidato in circostanze ancora tutte da chiarire. Per Nino quelli dei servizi erano «guardie». Non li catalogava come ufficiali, sottufficiali o semplici agenti. Erano semplicemente e spicciativamente «guardie».

Un’amicizia si stringe in carcere

Li guardava dubbioso. Non si fidava. Al laghetto dell’Eur conobbe il capocentro del Sisde Mario Fabbri e il suo vice Giancarlo Paoletti. E molto tempo dopo seppe da Lella che alcuni agenti dei servizi si erano presentati da lei per chiederle se era vero che il suo uomo voleva collaborare con la giustizia, qual era la portata delle sue conoscenze e, soprattutto, se poteva dissuaderlo a parlare.

Nino si era già schierato con Danilo, ma l’amicizia con lui divenne sempre più stretta. In carcere Nino si permetteva con Danilo quello che nessun altro avrebbe osato fare: gli rubava i vestiti e li regalava agli extracomunitari delle celle vicine, gli toccava il culo davanti ai detenuti e lo scherniva. Tutte cose che Danilo permetteva solo a lui, a quel bullo di San Basilio con la faccia da indio, che però non lo tradiva mai.

Nino gli salva la vita …

Nino era dietro le sbarre quando Edoardo gli comunicò che Selis e Cutolo volevano eliminare Danilo, che con l’uscita di Francis Turatello dal carcere sarebbe diventato ancora più forte, a Roma come a Milano. E proprio lui, l’operaietto, aveva scoperto il rifugio di Danilo e avrebbe premuto il grilletto.

Ma Nino riuscì a non farlo premere, quel grilletto, e Danilo seppe di essere scampato a un nuovo attentato solo per merito suo. Glielo rivelò lo stesso operaietto, pochi giorni prima dell’omicidio Selis.
«A Dani’, dovevo solo preme er grilletto.»
«E perché nun l’hai premuto?»
«Perché Nino nun l’ha voluto.»
«Quer fijo de ’na mignotta… mica perché me vole bene… ma perché poi non sa più a chi rompe er cazzo…» rise.
Qualche giorno dopo erano a cena dal Bolognese, in piazza del Popolo. Erano in tre: Nino, Danilo e Renatino. Danilo si levò la sua collana di perle rosse e la mise al collo di Nino, senza dire una parola.

… e Danilo gli evita la cella

Nino doveva a Danilo ben più di una collana di perle rosse. Danilo gli aveva procurato la mossa giusta all’interno del tribunale dell’Aquila: il nome di un avvocato amico loro e anche di un giudice. A fine processo arrivò una sfacciata assoluzione per una rapina che aveva commesso. E Nino si risparmiò parecchia galera. Alla fine di gennaio del 1980, Danilo chiese a Nino e a Marcello di accompagnarlo a Milano, dove si stava celebrando un processo a carico di Francis Turatello e della sua banda per un sequestro di persona.

All’interno del tribunale Danilo si incontrò con Carmelo Bossi, ex campione di pugilato e cugino del braccio destro di Turatello, il quale gli presentò una donna, tale avvocato Serra. Questa consegnò a Danilo una borsa contenente dei documenti, che dovevano essere mostrati a una serie di personaggi importanti che in quei giorni si erano scordati di aver contratto un debito con Turatello.

Una missione speciale per Turatello

Il compito di Danilo era quello di risvegliare la memoria a un paio di politici, a un giudice e a un faccendiere, tutti residenti a Roma. Lo scopo era di ricordare loro che avevano stipulato con Turatello un patto di do ut des. Il do l’avevano avuto e ora toccava al des. La banda della Magliana era passata a riscuotere per conto di Francis faccia d’angelo.

Presa in consegna la borsa, Danilo si congedò anche dall’ex pugile, che in segno di cortesia regalò ai romani una bella partita di cocaina che avrebbe reso meno noioso il viaggio di ritorno.

Tutti a pippare nei cessi dell’aeroporto

In aeroporto, per ingannare l’attesa, Danilo, Nino e Marcello tirarono fuori il grazioso presente e cominciarono a pippare, iniziando un andirivieni tra la sala d’attesa e i bagni. Gli agenti di polizia in borghese che presidiavano l’aeroporto notarono queste continue entrate e uscite dal bagno. Si insospettirono. Si avvicinarono ai tre uomini e chiesero loro di seguirli.

Marcello era riuscito a disfarsi della cocaina gettandola sotto un sedile. Poco dopo vennero rilasciati, ma fu eseguita la loro identificazione. E sia Nino che Marcello, in quel periodo, erano ricercati.
Una volta fuori dall’ufficio di polizia aeroportuale, Nino cominciò a dare segni di nervosismo. Disse a Marcello che se quel fermo fosse stato segnalato alla polizia romana, una volta raggiunto Ciampino sarebbero stati accolti a braccia aperte.

Poi si decise a dirlo anche a Danilo: «Dani’, non è che a Roma c’aspettano co’ la fanfara?».
Danilo pensò un attimo, poi si allontanò, fece una telefonata e tornò dagli amici: «Nun c’è problema, potemo sta’ tranquilli.» E così i tre, fermati e identificati, tornarono a Roma. Scesero dall’aereo e non trovarono nessun uomo in divisa a suonargli la marcetta. Danilo doveva averne di agganci, pensarono lasciando Ciampino.

Una nuova trasferta a Milano

Poche settimane dopo, Danilo chiese nuovamente a Nino di accompagnarlo a Milano. Questa volta erano solo loro due, e una donna, l’amante di turno di Danilo: Neyde, una brasiliana. Alta, seno prosperoso e un gran culo.
Nino la guardava ammirato. Una volta scesi a Milano, Danilo fece alla donna alcune raccomandazioni. Poi la salutò e lei si allontanò dondolando su quei fianchi da paura.

«A Dani’, ammazza che bella scopata! Ma che, la paghi?»
«Perché?»
«Boh, me pare strano che ce vie’ gratis co’ te!»
«Ma vaffanculo, piantala! Qua siamo pe’ cose serie.»

I bla bla irritano Danilo

Si misero ad aspettare un certo Cavallo, che li avrebbe dovuti accompagnare da alcuni personaggi influenti ai quali Danilo avrebbe dovuto rammentare il do ut des. Ma l’uomo non arrivò. Al suo posto trovarono un tizio con una Mercedes, che li invitò a salire in auto e iniziò a dare spiegazioni: Cavallo non era potuto venire, ma l’incontro si sarebbe fatto ugualmente, non c’erano problemi. Danilo si mostrava molto irritato.

L’uomo, che ce la metteva tutta per convincere Danilo, lo informò infine che si era aggiunta alle altre persone anche una nobildonna, una contessa intervenuta già in precedenza per un processo che si era svolto a Catanzaro.
L’espressione di Abbruciati continuava a essere cupa. Lasciava intendere che di tutti quei «bla bla» se ne sbatteva il cazzo. E che Francis Turatello, in un modo o nell’altro, doveva essere assolto. Spazientito, disse all’uomo di fermarsi, di lasciarli a una stazione dei taxi, che conosceva la strada e che avrebbero proseguito da soli.

In un palazzo signorile

Il palazzo in cui entrarono sembrava in stile liberty, o almeno così sembrava a Nino, che certo non era un esperto di architettura. Seguendo Danilo, o meglio, lasciandosi guidare da lui, Nino si ritrovò in un ufficio, dove tre uomini li accolsero con un largo sorriso e una poderosa stretta di mano.

Quello più anziano iniziò a parlare. Tranquillizzava Danilo dicendo che stavano facendo tutto quello che era nelle loro possibilità per risolvere il problema di Turatello nel più breve tempo possibile.
Nino lo ascoltava attentamente. E lo guardava.

Aveva le mani ben curate, appoggiate sul tavolo. Un aspetto signorile.
Gli altri due intervenivano poco, e solo per aggiungere qualcosa alle parole che lui aveva già pronunciato.
Si parlava anche di soldi, e di altre situazioni già risolte.

Ma che so’, banchieri?
Sicuro che so’ der Nord.
Questi «ghe pensi mi» m’hanno già rotto er cazzo.
Ce stanno a fa’ fa’ avanti e indietro.

Danilo evoca gli impegni onorati

A un tratto Danilo interruppe i pensieri di Nino. Si era rivolto verso il più anziano e gli stava dicendo che quelle erano parole già sentite. Poi, con tono educato ma fermo, gli ricordò di quando gli era stato chiesto di muoversi per il sequestro Moro e per il delitto Pecorelli, e loro, quelli della banda della Magliana, non avevano perso tempo.

E che per il sequestro dell’onorevole democristiano si erano fermati solo perché gli stessi che avevano detto loro di interessarsi poi li avevano stoppati, e che loro rispettavano i patti, e che per Turatello si dovevano dare da fare, e che si dovevano muovere, e perciò era ora che alle parole seguissero i fatti.

Prima che ce fate rode er culo, gli sorresse mentalmente il finale il suo compagno di viaggio Nino.
Poi si accomiatarono. Danilo fece segno a un taxi, dal quale scesero nei paraggi del tribunale.
Si sedettero al tavolino di un bar, posizionato in modo che Danilo potesse tenere d’occhio l’ingresso di un palazzo poco distante. Aveva lo sguardo fisso, il viso corrucciato.
Era deluso, incazzato.
Poi tornarono a Roma.

L’ultimo viaggio a Milano

Danilo, a Milano, ci tornò ancora. Ma questa volta non si fece accompagnare da Nino, e neanche da Marcello.
È il 27 aprile 1982.
Le 8 del mattino. Via Oldofredi, una strada a qualche centinaio di metri dalla stazione centrale di Milano. Un uomo, che deve avere circa quarant’anni, è in piedi, fermo, come in attesa di qualcuno. Indossa un capo di buona fattura, di colore beige, ha un paio di stivaletti e un’elegante sciarpa di cachemire.
Poco più in là c’è un altro uomo, anche lui apparentemente della stessa età. Ma indossa un giubbotto di pelle nera, jeans e scarponcini. E un casco, perché è a cavallo di una potente moto giapponese.

Aspettando sotto un portone

I due ogni tanto si guardano, e l’uomo con la moto dà dei colpi con l’acceleratore, come per assicurarsi che sia viva.
L’uomo con il cappotto si sta fumando una Marlboro, e non perde d’occhio il portone di un palazzo, il civico numero 2.
La sigaretta è finita, schiaccia la cicca per terra e si aggiusta la sciarpa di cachemire. Poi osserva la portiera che sta facendo le pulizie, e pensa che le portiere non dovrebbero esistere perché te le trovi tra i piedi nei momenti meno opportuni.
Sbircia l’orologio, guarda in direzione della moto. Si alza il bavero del cappotto.

Arriva un’Alfetta blindata

Un’Alfetta si immette su via Oldofredi. Un’Alfetta blindata.
Si ferma proprio davanti a quel portone.
La portiera smette di ramazzare e sorride.
L’autista esce dall’abitacolo e la raggiunge.
Si mettono a chiacchierare.
Sono passate da poco le 8.
Ora un uomo sta uscendo dal portone.
Si avvicina all’autista e alla portiera.
Li saluta.
Poi fa per entrare nell’Alfetta blindata.
Ma prima che riesca a salire in macchina una grossa moto gli si para davanti, l’uomo con il cappotto beige è seduto sul sellino posteriore. Ha una pistola. La punta verso Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. Mira alle gambe e spara.
Dling.

La pistola si inceppa. La seconda volta no

L’arma si è inceppata. Non è uscito il colpo. La moto ha continuato a marciare. «TORNA INDIETRO!» grida l’uomo con il cappotto beige. La moto fa un’inversione attorno all’Alfetta blindata e con un’accelerazione rabbiosa si riposiziona di fronte a Roberto Rosone, che è impietrito e non è riuscito a correre al riparo. Il killer punta di nuovo la pistola. Preme ancora il grilletto. E questa volta un colpo parte. E il proiettile va a conficcarsi nella gamba di Rosone. Il banchiere ora scivola a terra e urla per il dolore. E la moto scatta di nuovo, verso la via della fuga.

Ma percorsi pochi metri il guidatore sente le mani che gli serravano i fianchi allentare la presa. Poi sente la moto perdere l’equilibrio, farsi più leggera, e il tonfo dell’uomo con il cappotto beige che è caduto per terra avvolto nel suo capo di sartoria. L’uomo con la moto lo vede perdere sangue, dalla nuca. Ha un buco in testa. Non c’è tempo da perdere. La moto continua a percorrere la via della fuga.

Un romano va a morire a Milano

L’uomo con il cappotto beige e gli stivaletti fu identificato per un romano, un boss di prima grandezza della capitale, componente di spicco della famigerata banda della Magliana.
Nella tasca del cappotto beige c’era un pacchetto di fiammiferi con un numero di telefono, quello di Ernesto Diotallevi.
Era scampato a decine di attentati, Danilo Abbruciati. E con stupore i suoi amici seppero che era stato ammazzato da una guardia giurata, spuntata per caso, mentre lui era in trasferta a Milano per gambizzare il vicepresidente del Banco Ambrosiano.

FONTE: Antonio Mancini con Federica Sciarelli

Il ritratto

di Otello Lupacchini

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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