Il delitto del Circeo, un punto di non ritorno

Il delitto del Circeo, lo stupro brutale di due giovani proletarie da parte di tre fascisti dei Parioli, ha segnato un’epoca e ha rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso dello sdegno sociale e civile, imponendo la revisione del codice penale (qui la testimonianza dell’avvocato Nino Marazzita, parte civile nel processo). La violenza sessuale non era, infatti, considerato ancora delitto contro la persona. La straordinaria mobilitazione delle donne, che si andarono a costituire in movimento separato, impose una svolta legislativa che pure trovò notevoli resistenze. Poiché sono tanti i temi connessi e in qualche misura arravogliati, questo focus del blog si annuncia particolarmente corposo. Partiamo quindi dalla narrazione che io avevo costruito dodici anni fa nella seconda edizione di Fascisteria. Una narrazione centrata sul personaggio Izzo.

Una scelta in qualche misura masochistica, perché evidenzia i miei buchi di conoscenza e anche qualche errore di (sotto)valutazione che affiora oggi per la sopraggiunta disponibilità di materiali giudiziari e di archivio. Sono i rischi che si affrontano quando si ha l’ambizione di affrontare una materia immensa e quindi si decide di rinunciare agli approfondimenti da “studi monografici”. Io resto convinto che l’unico dovere deontologico, tanto per lo storico quanto per il cronista, è la ricerca della verità nella consapevolezza che nuove acquisizioni potranno sempre rimetterla in discussione.

I mostri

È andato crescendo negli anni il numero dei serial-killer e dei maniaci protagonisti di aberranti delitti a sfondo sessuale. Eppure, nell’immaginario collettivo, trent’anni dopo, i “mostri” per antonomasia restano gli autori del delitto del Circeo. Il 1° ottobre 1975 due ragazze di borgata, Maria Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, sono brutalizzate e massacrate da tre pariolini e simpatizzanti di estrema destra, Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, nella villa di famiglia dei Guido. Dopo ore di sevizie inenarrabili, convinti che fossero morte, i tre le chiudono nel bagagliaio dell’auto dello stesso Guido. La Colasanti si è però finta morta e, richiamata l’attenzione dei passanti, li denuncia. Izzo e Guido vengono arrestati, Ghira no.

In cerca di impunità

Il processo, svolto in un clima di mobilitazione generale del movimento femminista, si conclude con la condanna all’ergastolo per i tre fascio-criminali. Anni dopo Izzo racconterà che il massacro era stato un incidente in una lunga catena di delitti. Solo nel ’95, dopo più di dieci anni di collaborazione, per farsi perdonare una “scappatella” penitenziaria si decide a ricostruire sette omicidi compiuti dalla banda, attribuendole un’inesistente finalità politica. Gli arrestati sono decisi a non pagarla: Guido conta sull’appoggio incondizionato di una famiglia ricca e potente. Tenta la via del risarcimento danni ma la Colasanti rifiuta sdegnata. Riesce comunque – simulando contrizione – a ottenere in appello le attenuanti generiche e la pena ridotta a trent’anni.

Per il detenuto modello Guido, grazie ai soldi di papà (top manager della Bnl, affiliato alla P2, capace di corrompere guardie e funzionari pur di tirare fuori il figlio), evadere da San Gimignano è uno scherzo. La fuga è interrotta in Argentina ma c’è sempre modo di scappare per chi gode di potenti complicità, anche oltreoceano. I giudici che indagano sulla strage di Brescia vogliono sentirlo in carcere a Buenos Aires perché un pentito lo ha indicato come riscontro delle accuse contro Ferri. Guido evade prima della rogatoria internazionale ma dal fascicolo trasmesso a Brescia si scopre che un interrogatorio già fissato era stato rinviato su una finta richiesta dei giudici italiani.

Izzo si ricicla come “politico”

Izzo, dal canto suo, si arrangia altrimenti. Riesumando una fugace militanza precedente la scelta criminale, è ammesso nel circuito dei “terroristi neri”. Ottiene di collaborare a Quex2 contro il parere di Freda, che gli nega il rango di “soldato politico” per l’infamante delitto. Lui non si tira indietro. Nel giugno 1981, alla prima udienza a Bologna al processo per Quex, minaccia il presidente: “Farai la fine di Amato”. Nella frantumazione dell’ambiente penitenziario, si schiera con gli “antifascisti”, Calore e Fioravanti, i duri e puri dello spontaneismo che identificano il nemico principale nei leader storici, colpevoli d’intelligenza con il nemico, i servizi segreti e gli apparati di controllo.

Nella cella di Ascoli Piceno nasce il progetto di ricostruzione “storica” delle stragi che trasformerà Izzo e Calore in “pentiti” mentre Fioravanti è trattenuto sul baratro del passaggio da un “atteggiamento critico della mentalità stragista dell’estrema destra” alla collaborazione, grazie alla fermezza della Mambro e di Cavallini. Con la differenza, dal punto di vista della “produttività giudiziaria”, che Calore ha guadagnato i galloni di “soldato politico” con una lunga gavetta, mentre Izzo si arrangia rielaborando le affabulazioni raccolte in sette, otto anni di peregrinazioni nelle carceri speciali. Diventerà così un consulente per “spioni” e procuratori d’assalto, inutilizzabile in prima battuta perché le sue notizie sono tutte de relato ma prezioso per la conoscenza dell’ambiente, degli intrecci, dei retroscena.

Una breve autobiografia

Delle esperienze precedenti l’arresto scriverà anche lui a don Carmelo:

A 14 anni mi accosto ad Avanguardia nazionale (nel 1969, con il gruppo sciolto, Delle Chiaie infiltrava militanti a sinistra, N.d.A.) e poi a Lotta di Popolo credendo di risolvere con la violenza i miei problemi esistenziali. Sono denunciato più volte per risse e aggressioni a mano armata (un altro falso: nel suo fascicolo c’è solo un arresto per stupro e nessun precedente politico. Tenta di attribuirsi un’aggressione alla figlia di Pietro Ingrao, ma Delle Chiaie dimostra che all’epoca Izzo aveva 10 anni, N.d.A,).

Partecipo ad attentati contro abitazioni, sedi e auto di compagni. Formo una banda a mezza strada tra delinquenza politica e comune coi miei amici di infanzia, una comunità chiusa e paranoica che si sentiva in guerra con il mondo. Per tre anni è un susseguirsi di rapine, stupri, traffici di armi e droga. Dopo l’arresto per l’omicidio, in carcere mi metto coi detenuti di estrema destra e mi caccio in situazioni di guerra tra clan.

Le calunnie sul delitto Mattarella

Questa confessione (reticente: non menziona gli omicidi ammessi anni dopo) è interessata: attribuendosi un traffico di droga a Bologna spera che il cumulo di pena sia calcolato nella sede del pm Libero Mancuso, che si è avvalso dei suoi servigi. Il tentativo fallisce per il parere negativo della procura. Con le prime licenze, comincia a respirare aria di libertà. Avendo raschiato il fondo del barile delle affabulazioni carcerarie, allarga le competenze alle cose di Cosa nostra in un maldestro tentativo di depistaggio: il suo compagno di cella ad Alessandria, un picciotto catanese, comincia a strologare sui delitti eccellenti. Il 7 ottobre 1989 Giovanni Pellegriti, sbugiardato da Falcone e Giuseppe Ayala, confessa:

Fu Izzo a darmi i particolari sull’omicidio Mattarella e a istigarmi a fornirli al giudice Mancuso. Lo stesso Izzo mi aveva fatto il nome di Lima come mandante e il giudice me lo suggerì ma io mi rifiutai di verbalizzarlo. Dopo il mio interrogatorio Mancuso chiamò nella sua stanza Izzo.

La prima evasione

Ma il pm bolognese non aveva competenza sui delitti eccellenti. Falcone arresta entrambi per calunnia. Il primo esito giudiziario è una condanna a quattro anni per calunnia nel processo contro il vertice di Cosa nostra e l’assoluzione dei neofascisti accusati, Fioravanti e Cavallini. L’incidente rallenta la sua “battaglia di libertà” ma Izzo riesce finalmente a evadere nell’agosto ’93, quando non rientra da una licenza premio e fugge all’estero. Dopo un viaggio in Inghilterra, Spagna e Belgio è catturato all’arrivo a Parigi, il 15 settembre, seguendo le tracce di un trafficante di armi croato, suo compagno di cella.

È armato con una calibro 38 e ha una decina di milioni in contanti. Sta andando a consegnare un rullino di foto scattate con una ragazza a una corrida. Giustifica la fuga con l’assenza a un controllo e la paura di perdere i benefici ma forse la vacanza è stata una missione per conto di qualche frazione dei servizi segreti. Dopo l’arresto sa comunque farsi “perdonare”. Permette la cattura di Guido, riparato a San Domingo, dove sta avviando un allevamento di polli e ricostruisce le vicende dell’Uovo del drago, la loro banda fascio-criminale, confessando la partecipazione a un paio di delitti e rapporti con apparati di sicurezza. Le ammissioni proseguono lungo l’arco di un anno, fino ad abbracciare sette omicidi. (1 – continua)



Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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