27 maggio 1923: nasce don Milani. Un gigante contro la scuola dei padroni
Don Lorenzo Milani nasce in una famiglia agiata di intellettuali agnostici. La madre, ebrea, ha origini boeme. I genitori si sposano nel 1933, con rito cattolico. Lui ha già dieci anni. Le nozze sono un riparo dall’ondata antisemita che si diffonde da Berlino. A vent’anni, in piena guerra, in pochi mesi si converte, prende la cresima ed entra in seminario, rinunciando all’asse ereditario. Sarà ordinato sacerdote a 24 anni. Ben presto le sue posizioni antiritualistiche lo porteranno in conflitto con istituzioni ecclesiastiche.
Deportato al Mugello
Il suo primo incarico a San Donato di Calenzano, dove lavora a una scuola popolare per operai. Nel dicembre del 1954, a causa di screzi con la Curia di Firenze, lo mandano a Barbiana[24], minuscola e sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, in Mugello, dove entrò in contatto con una realtà di povertà ed emarginazione ben lontana rispetto a quella in cui aveva vissuto gli anni della sua giovinezza.
Iniziò in quelle circostanze il primo tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto a coloro che, per mancanza di mezzi, sarebbero stati quasi inevitabilmente destinati a rimanere vittime di una situazione di subordinazione sociale e culturale. In quelle circostanze, iniziò a sperimentare il metodo della scrittura collettiva.
Un’istruzione personalizzata
Gli ideali della Scuola di Barbiana erano quelli di costituire un’istituzione inclusiva, democratica, con il fine non di selezionare ma piuttosto di far arrivare, tramite un insegnamento personalizzato, tutti gli alunni a un livello minimo d’istruzione garantendo l’eguaglianza con la rimozione di quelle differenze che derivano da censo e condizione sociale.
La sua scuola era alloggiata in un paio di stanze della canonica annessa alla piccola chiesa di Barbiana, un paese con un nucleo di poche case intorno alla chiesa e molti casolari sparsi sulle pendici del Monte Giovi: con il bel tempo si faceva scuola all’aperto sotto il pergolato.
Un collettivo fondato sul sostegno
La scuola di Barbiana era un vero e proprio collettivo. Si lavorava tutti insieme. La regola principale era che chi sapeva di più aiutava e sosteneva chi sapeva di meno, 365 giorni all’anno. La scuola suscitò immediatamente molte critiche. A essa furono rivolti attacchi, sia dal mondo della chiesa sia da quello laico.
Lettera a una professoressa
Le risposte a queste critiche vennero date con “Lettera ad una professoressa”, (maggio 1967), in cui i ragazzi della scuola (insieme a don Milani) denunciavano il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l’istruzione delle classi più ricche (simboleggiate da “Pierino del dottore”, il figlio del dottore, che sa già leggere quando arriva alle elementari), mentre permaneva la piaga dell’analfabetismo in gran parte del paese. La Lettera a una professoressa fu scritta negli anni della malattia di don Milani, che il maestro volle vivere con gli allievi per educarli anche alla realtà della morte. Pubblicata un mese prima della sua fine, giunta per un linfoma ad appena 44 anni, il suo è diventato uno dei testi di riferimento del movimento studentesco del ’68. Altre esperienze di scuole popolari sono nate nel corso degli anni basandosi sull’esperienza di don Lorenzo e sulla Lettera a una professoressa.
No al sapere dei padroni
E’ un atto di accusa durissimo contro l’istituzione scolastica, contro l’insensibilità degli insegnanti, contro l’astrattezza e le falsificazioni del “sapere dei padroni”.
Attraverso l’uso creativo e intelligente degli annuari Istat, smaschera la dinamica e le cifre della selezione scolastica che favorisce i “pierini” (i figli dei padroni) ed emargina i figli dei proletari: non solo per le caratteristiche dell’istituzione scuola, ma proprio per i contenuti dei saperi trasmessi (i “pierini” li assorbono in famiglia fin da piccoli) e per l’uso stesso della lingua di per sé elitario e classista.
Un milione di copie vendute
Scritto in un italiano semplice e insieme ricco, “Lettere a una professoressa”, pur essendo stampato da una piccola libreria editrice fiorentina, diventerà uno strumento fondamentale di assunzione di responsabilità, sia per gli studenti sia per gli insegnanti.
Nel 1972 avrà già venduto oltre un milione di copie, contribuendo alla riflessione degli intellettuali sul proprio ruolo e sulla propria funzione.
Elvio Fachinelli dirà sui “Quaderni Piacentini” che si tratta “di un libro cinese” (con riferimento al suo impatto rivoluzionario), e Franco Fortini dichiarerà di sentirsi “un pierino […]”.
La scelta antimilitarista
L’azione di don Milani non si restringe comunque al solo settore della scuola, si estende anche ad altre istituzioni, come l’esercito (favorendo l’obiezione di coscienza) e la stessa istituzione ecclesiale: “L’obbedienza non è più una virtù” è il titolo del suo secondo libro.
Diventa anche uno slogan ripreso in forme diverse, si innesca sul più generale processo di rifiuto della “delega” e dell'”autorità”.
Il suo impatto politico
Gli effetti culturali e politici delle esperienze di don Milani influenzeranno largamente il mondo cattolico e non. Forniranno motivo di esempio per i “preti operai” che scelgono di andare in fabbrica a fianco degli sfruttati. O a vivere nei quartieri degradati (come l’Isolotto di Firenze). Per dare corpo e vita alla “Chiesa dei poveri”, in polemica con i fasti del “potere temporale” dei vescovi e del papa. Avranno anche effetto duraturo sulla lunga marcia verso la sinistra delle Acli (l’associazione dei lavoratori cattolici). Fino alla scissione, guidata agli inizi degli anni settanta dal segretario Livio Labor.
Il messaggio di don Milani viene ridotto al silenzio dall’autorità dei vescovi. La diffusione della sua opera non si arresta, sia tra i giovani che nell’area dei nuovi movimenti.
“Don Milani abolisce le punizioni corporali!? Cos’è, una battuta? Non sa che alla scuola di Barbiana Don Lorenzo assestava quotidianamente ceffoni e pedate nel sedere ai suoi ragazzi? Non sa che in “Lettera a una professoressa” c’è l’esaltazione della frusta come metodo educativo? “Noi per i casi estremi si adopra anche la frusta. Non faccia la schizzinosa e lasci stare le teorie dei pedagogisti. Se vuola la frusta gliela porto io, ma butti giù la penna dal registro. La sua penna lascia il segno per un anno. La frusta il giorno dopo non si conosce più” (Lettera a una professoressa, p.83).
Grazie per la segnalazione. Ho provveduto a correggere il testo