9 gennaio 1950: Modena, il più grave eccidio operaio della storia repubblicana

A Modena, il 9 gennaio 1950, si verifica l’eccidio operaio più grave della storia dell’Italia repubblicana. Eppure, scorrendo le numerose «storie d’Italia» prodotte a partire dal crollo del muro di Berlino i riferimenti a quell’evento sono piuttosto scarsi. Per altro, come strilla l’Unità il giorno dopo, in 70 giorni erano stati 14 i lavoratori uccisi dalla polizia scelbiana

Dell’eccidio ci siamo già occupati. Oggi vi proponiamo l’Introduzione del volume di Lorenzo Bertucelli ALL’ALBA DELLA REPUBBLICA Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Edizioni Unicopli, 2012

A Modena, il 9 gennaio 1950, si verifica l’eccidio operaio più grave della storia dell’Italia repubblicana. Eppure, scorrendo le numerose «storie d’Italia» prodotte a partire dal crollo del muro di Berlino i riferimenti a quell’evento sono piuttosto scarsi. A volte un rapido cenno, in altri casi nulla. Così, quell’evento viene spesso compreso in modo indistinto nella difficile fase del dopoguerra, diluito nel più ampio scenario della guerra fredda, dello scontro politico interno tra le forze di governo filo-occidentali e un’opposizione comunista condizionata dal «legame di ferro» con l’Unione sovietica.
Interpretazioni che si concentrano sulle necessità o i limiti della «democrazia protetta» degasperiana, o sui caratteri contraddittori di un partito di massa, il PCI, allo stesso tempo stalinista e sostenitore della Costituzione. Interpretazioni che però tendono a sottostimare tratti specifici della conflittualità sociale e di lavoro, nel mondo industriale in particolare. L’intento di questo lavoro è di ricercare e delineare anche le forme autonome del conflitto sociale, a partire dal caso di una vertenza sindacale specifica nel cuore dell’Emilia «rossa», e le modalità con cui le istituzioni dello Stato le affrontano. Nell’Italia del secondo dopoguerra ciò significa, da un lato, verificare l’esistenza di uno spazio interno in cui i condizionamenti della guerra fredda non costituiscano un vincolo cogente per le scelte di governo della conflittualità; dall’altro, puntualizzare le relazioni tra conflitto politico e conflitto sociale, con particolare riferimento al ruolo del Partito comunista italiano.
Ma consideriamo prima brevemente i fatti oggetto d’indagine. Quella mattina di gennaio giunge alla sua tragica conclusione una dura vertenza sindacale sorta a causa della decisione della proprietà di un’importante azienda – le Fonderie Riunite di Modena – di chiudere e licenziare tutti i dipendenti. È il gruppo industriale più importante della città, che comprende anche gli stabilimenti Maserati, guidato da Adolfo Orsi, un imprenditore cresciuto negli anni del fascismo in un costante e mai dissimulato affiancamento del regime.
La necessità di riorganizzare l’azienda, cresciuta eccessivamente negli anni della guerra e poco competitiva dopo la fine delle protezioni del fascismo, provoca un lungo braccio di ferro con le maestranze, fortemente sindacalizzate. Di fronte alla «non collaborazione» proclamata dal sindacato e dalla commissione interna – i lavoratori decidono cioè di attenersi «alla lettera» alle proprie mansioni – la proprietà decide la serrata licenziando gli oltre 500 dipendenti. È subito scontro frontale, nessuna autorità dello Stato, centrale o periferica, è in grado di intraprendere un ruolo di mediazione.
Il PCI locale sostiene la lotta con intransigenza, sicuro che la forza operaia permetterà di risollevare le sorti di una situazione che sta volgendo al peggio a causa di una serie di sconfitte sindacali nell’ultimo anno. Dopo qualche settimana, Orsi annuncia la riapertura dell’azienda con l’assunzione ex novo di 250 dipendenti. Per la mattina del 9 gennaio 1950, giorno previsto per la riapertura, la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale e una dimostrazione davanti alle Fonderie: lo scopo della manifestazione è di non far entrare i nuovi assunti – i «crumiri» – e non permettere la riapertura della fabbrica.
L’azienda e le strade vicine sono presidiate da ingenti forze di polizia che sbarrano l’accesso alla zona dello stabilimento. Il prefetto e il questore sono convinti di essere di fronte ad un tentativo del PCI di prendersi una rivincita violenta dopo la sconfitta del 1948 e, a partire da Modena, di provocare un’insurrezione nazionale. Il risultato drammatico dello scontro sono sei morti che restano sul terreno: tutti lavoratori; nessun ferito tra le forze dell’ordine, salvo qualche contuso. Guerra fredda e non solo
Uno dei tanti «eccidi proletari» del dopoguerra la cui genesi può essere attribuita, in buona sostanza, allo scontro tra due parti politiche contrapposte collocate sui versanti opposti dello schieramento internazionale?

Certo, il 1950 è l’anno in cui inizia la guerra in Corea. Si diffonde in tutto il continente europeo il timore di una nuova guerra mondiale. La politica aggressiva dei sovietici in Oriente fa vacillare la speranza che il consolidamento di due blocchi rigidamente definiti possa portare ad una stabilizzazione dei rapporti internazionali. Stalin sembra accarezzare l’idea di non considerare la propria sfera di influenza come unica area di azione. La rivoluzione cinese del 1949 e l’acquisizione della bomba atomica sembrano dare ragione a quanti paventano il rischio di una volontà espansiva dell’URSS: la guerra di Corea è lì a dimostrarlo e lo stesso leader sovietico, in un colloquio con Mao, individua in quel conflitto l’avvenimento in grado di aprire una nuova fase che «mandi al diavolo Jalta». Il Presidente del consiglio De Gasperi definisce il Partito comunista «quinta colonna sistematica e organizzata», sul versante opposto Togliatti dichiara che in caso di una guerra della reazione capitalista contro l’URSS, il compito dei comunisti italiani sarebbe stato di «combattere l’aggressore», anche affiancando l’esercito sovietico nel caso questo si trovasse ad inseguire l’aggressore entro i confini nazionali.

L’allineamento dei comunisti italiani alle posizioni sovietiche è totale, e si comprende così come, proprio in quell’estate del 1950, il PCI possa essere identificato come un nemico interno da controllare con ogni mezzo, anche a costo di limitare le garanzie costituzionali, anche al prezzo di esercitare una costante repressione nei confronti di ogni movimento sociale, invariabilmente interpretato come articolazione del piano eversivo comunista. In altri termini, con il conflitto coreano giunge a compimento un processo di salda identificazione di ogni conflitto sociale o vertenza sindacale con le strategie rivoluzionarie del Partito comunista volte allo scardinamento dello Stato e della democrazia. In questo quadro internazionale così stringente, è vero che, come puntualizza Federico Romero, è indispensabile considerare il profondo intreccio tra le vicende italiane e quelle internazionali, così come, – e questo è il punto che ci interessa – evidenziare gli spazi di iniziativa politica autonoma di cui gode il nostro paese.
Tra Stati Uniti e Italia si definisce infatti una relazione bilaterale, sviluppatasi sulla base di interazioni reciproche, mai a senso unico, nella quale si ridefiniscono anche le forme della sovranità nazionale. Un’alleanza che «apre uno spazio negoziale entro il quale (a Roma come a Washington) si muove una pluralità di attori e di strategie.» La gestione politica della conflittualità sociale e i rapporti da istituire con le rappresentanze organizzate del mondo del lavoro è un ambito che rientra, per larga parte, in questo spazio di autonomia nazionale.

Nel caso italiano uno dei tratti peculiari del suo processo di inserimento nel nuovo sistema internazionale risiede nella scelta dei governi repubblicani di accentuare, per rafforzare la loro legittimazione, il vincolo atlantico. Governi cioè che enfatizzano la «vulnerabilità della nazione per consolidare la propria stabilità interna e ancorare la sicurezza del paese alla protezione statunitense». Una necessità derivante, come ha notato Franco De Felice, da un livello di consenso debole dei gruppi di comando del paese rispetto ad altri paesi europei, da una minore credibilità delle élites italiane nel proporsi come centri «di ricomposizione nazionale» e di realizzazione delle speranze di cambiamento emerse dalla guerra. È un aspetto che evidentemente ha a che fare con le politiche di governo del conflitto sociale. I condizionamenti della guerra fredda, quindi, non possono essere interpretati come fattori esclusivi in grado di determinare interamente le scelte di politica interna; diversamente la situazione internazionale diverrebbe un alibi – come ha notato Ennio Di Nolfo – per «scaricare dalle responsabilità delle loro scelte o della loro miopia gran parte degli uomini politici italiani».

Tra Italia e Stati Uniti si costituisce un’alleanza in cui si agisce «insieme per il contenimento», ciascuno con le proprie culture politiche, con incomprensioni e diffidenze anche marcate, ma la crisi internazionale e interna convergono nel rendere solido il «matrimonio di interesse» tra le due sponde dell’Atlantico.
Dopo il 18 aprile, in particolare il largo successo della Democrazia cristiana assegna al governo italiano un ulteriore margine di manovra nei confronti del potente alleato. È in questa relazione dinamica che vanno collocate le politiche degli esecutivi guidati da De Gasperi, è in questo spazio di scelta che vanno approfonditi i primi anni della Repubblica, il governo della conflittualità sociale, l’azione degli apparati centrali e periferici dello Stato di fronte al protagonismo del mondo del lavoro.
Una volta ottenuto il sostegno di Washington e stabilizzato l’assetto interno – sostiene Mario Del Pero – De Gasperi cerca di attenuare gli effetti interni della guerra fredda, di resistere alle pressioni americane quando spingono per misure repressive più drastiche nei confronti del Partito comunista italiano. In qualche modo un tentativo di «contenere il contenimento», con una miscela di motivazioni che vanno dall’opportunità di conservare l’esistenza di un partito – il PCI – che rende indispensabile il ruolo della DC e legittima la richiesta di aiuti, ai timori che un’iniziativa apertamente ostile nei confronti dei comunisti – come mettere il partito fuorilegge – possa comportare un vasto scontro nel paese e forse una guerra civile.

Ma cosa determina davvero la «resistenza» dei governi a guida democristiana ad adottare misure drastiche nei confronti del PCI? È il principio di legittimità costituzionale che prevale sulla logica della guerra fredda? Probabilmente gli uomini di governo italiani sono più consapevoli dei rapporti di forza nel paese, del radicamento popolare del PCI e quindi «realisticamente» meno disponibili a seguire la strada dello scontro frontale, tuttavia se spostiamo la nostra attenzione dalla dimensione propriamente politica alla storia dei conflitti di lavoro del primo decennio postbellico e poniamo in primo piano quanto si può ricavare dalle carte italiane – a Roma, dalla Presidenza del consiglio al ministero dell’Interno, e in periferia, dai prefetti ai questori – l’idea di un’azione dei governi italiani volta al «contenimento del contenimento» sembra vacillare o quanto meno essere posta più volte in discussione. O meglio, la decisione di non forzare gli assetti sul piano politico-costituzionale – appunto adottando misure draconiane sul PCI – impone di conseguenza una politica capillarmente repressiva di tutte le attività ad esso riconducibili, compresi evidentemente i movimenti contadini e operai, nella quale il confine tra «contenimento difensivo» e «tutela offensiva» degli equilibri di potere non è sempre così chiaro.

Tutto ciò richiama la necessità di una periodizzazione più puntuale di quegli anni decisivi e prima ancora richiede un’attenzione alle culture di governo e istituzionali presenti nel paese, agli apparati dello Stato e ai suoi protagonisti, alle visioni del conflitto e della democrazia che essi esprimono. La guerra fredda, infatti, non fu, scrive Holger Nehring, «l’unico rilevante campo di forze. Il rapporto tra gli attori che operarono all’interno di tali campi politici – le distanze che li separavano, le loro traiettorie – ebbero un ruolo altrettanto significativo», così come è bene considerare «le modalità con cui i soggetti sociali – spesso per impulso dei loro governi – plasmarono il mondo che li circondava come il mondo della Guerra fredda». C’è dunque un perimetro all’interno del quale indagare le scelte autonome di governo in relazione ai problemi che emergono dal protagonismo del mondo del lavoro e rintracciare le culture politiche e istituzionali che si confrontano con il conflitto sociale, cercando di tenere ben presente il costante nesso tra dimensione locale, nazionale e internazionale. Pci, comunisti e conflitto sociale Il secondo dopoguerra italiano ha la peculiarità di avere tra i suoi protagonisti il più radicato e organizzato partito comunista dell’Occidente. Il consenso ampio che il PCI ottiene, conserva per decenni nel mondo del lavoro e, più trasversalmente, in alcune aree del paese, ne fanno uno dei grandi partiti di massa italiani.

Allo stesso tempo, la fedeltà all’Unione sovietica lo rendono irriducibile ad un soggetto solo nazionale. Senza volere ripercorrere i versanti del dibattito storiografico sul nodo autonomia/eterodirezione i cui termini oltrepassano i limiti di queste note, è utile richiamare alcuni aspetti del rapporto tra PCI e URSS, tra politicizzazione della conflittualità e autonomia dei movimenti sociali nel dopoguerra, puntualizzare la specifica vocazione politica del sindacato e, infine, la lunga durata di alcuni di questi tratti in una regione come l’Emilia Romagna. Ciò per definire l’approccio con il quale analizziamo il conflitto sociale.

Sulla prima questione: le politiche con cui i comunisti italiani intervengono sul ciclo conflittuale del dopoguerra non sono determinate dall’alleanza con Mosca. Certo, le congiunture politiche interne sono determinanti per mutare gli atteggiamenti del PCI, e il confronto con i dirigenti sovietici è costante, tuttavia anche la storiografia che più ha messo in discussione il paradigma dell’«autonomia» e della «diversità» del Partito comunista italiano sostiene che «il rapporto tra il PCI e l’URSS era molto complesso, e non può essere ridotto a una totale subordinazione del PCI». Ciò che qui interessa in particolare è che in questa complessità coabitano relazioni molto strette – come le decisioni di politica estera – ma anche aree di larga autonomia: proprio nel «lavoro educativo, di mobilitazione – scrivono Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky – di reclutamento e così via il PCI era libero di sviluppare e modificare tattica e forme di lavoro proprie senza interventi di Mosca».

Le politiche con cui i comunisti italiani si relazionano con i movimenti sociali e con le rivendicazioni del mondo del lavoro sono quindi ascrivibili al quadro interno del paese. Per il nostro ambito di indagine non è così dirimente il «legame di ferro» con l’Unione sovietica, mentre è da tenere ben presente la cultura e il modello organizzativo stalinista del partito e la lettura del conflitto sociale che questa determina.
Altro punto. L’aumento della conflittualità sociale a partire dall’estate 1947, la politicizzazione delle vertenze sindacali, il tentativo di controllare e guidare i movimenti contadini e operai da parte della leadership comunista, facilita l’interpretazione del conflitto sociale come disegno eversivo. È vero che il PCI dopo la rottura dell’alleanza di governo e dopo i duri richiami subiti a Szklarska Poreba in Polonia, quando viene fondato il Cominform, spinge sull’acceleratore e mobilita le proprie forze per alzare il livello dell’«opposizione sociale nel paese», tuttavia ridurre all’azione politica del PCI la cifra del ciclo conflittuale della fine degli anni 40 impedisce di cogliere questioni e fenomeni importanti.

Innanzitutto il protagonismo delle organizzazioni sindacali e in particolare delle Camere del lavoro, importante se l’analisi muove da conflitti sociali territorialmente ben definiti. Non c’è dubbio, gli uomini della CGIL sono spesso anche gli uomini del PCI: negli anni del dopoguerra il rapporto tra i due gruppi dirigenti è molto stretto. È il partito, in virtù di una cultura che vede nell’azione sindacale un’articolazione subordinata dell’iniziativa politica più generale del «movimento operaio», che detta la strategia cui tutte le organizzazioni sociali ad esso vicine si devono attenere. È un rapporto, tuttavia, che i protagonisti dell’epoca vivono come una risorsa, senza alcuna sensazione di limitazione della propria autonomia. Inoltre, lo stesso ruolo che ricoprono i partiti nel dopoguerra accentua il forte legame che con essi intrecciano i sindacati. Il nesso costitutivo tra sindacato e partiti appare come una strada in qualche modo obbligata per la legittimazione delle rappresentanze del mondo del lavoro e per tentare un loro efficace inserimento nel nuovo contesto politico-istituzionale repubblicano.

Tutto ciò, assunto come dato prevalente e compiutamente esplicativo, ha portato ad un uso estensivo della categoria di «cinghia di trasmissione» che ha contribuito a produrre un’immagine sfocata delle organizzazioni sindacali, le profonde differenze funzionali, le sue articolazioni sul terreno della contrattazione e – questo ci interessa da vicino – il suo costante confronto e intreccio con le culture sociali dei lavoratori. Le Camere del lavoro trasferiscono a livello sindacale – ha osservato Andrea Panaccione – una cultura politica imperniata su un internazionalismo bipolare la cui lettura «in termini di lotta tra i “due sistemi” consolida il senso di appartenenza», favorisce la «compattezza come virtù dell’organizzazione» e la «disciplina come virtù del militante», in cui l’impegno per la produzione si contrappone al «luddismo» delle classi dirigenti.

Sono proposte che incontrano tratti culturali autonomamente presenti nel mondo del lavoro operaio: solo per accenni, ci riferiamo, da un lato, alla diffusa percezione di una forte separatezza sociale che si traduce in una visione della realtà spesso dicotomica – «noi e loro» – e, dall’altro, alla radicata cultura del lavoro presente tra i lavoratori industriali per i quali il «mestiere», il saper fare, è ancora una componente fondamentale della loro identità. Gli aspetti più propriamente politici proposti dai partiti di sinistra e dal sindacato vanno così ad interagire con visioni solidaristiche già presenti nelle culture popolari e con una cultura del lavoro ben salda, motivo di prestigio e di orgoglio, fino a definire una figura di militante in cui l’impasto tra cultura politica, sindacale e sociale risulta difficile da dipanare.

Per queste ragioni si possono indagare i conflitti sociali del dopoguerra come fenomeni non meramente riconducibili alla conflittualità politica o alle strategie dei partiti della sinistra. Il protagonismo del mondo del lavoro incrocia la politica e l’ideologia, ma non si tratta di una relazione monodirezionale o sempre gerarchicamente strutturata. Spesso lo scambio e le contaminazioni sono in entrambe le direzioni, le culture popolari, contadine e operaie, filtrano all’interno delle organizzazioni sindacali e politiche, contribuiscono a determinarne comportamenti e atteggiamenti. Ciò è vero in particolare dopo la guerra e la lotta di liberazione che ha creato, specie nell’Italia settentrionale, condizioni favorevoli all’iniziativa dei lavoratori industriali, ed è ancor più evidente nelle regioni, come l’Emilia, in cui l’identificazione con la proposta comunista si allarga, fuoriesce dalle fabbriche e coinvolge l’intera realtà del mondo rurale. Non c’è bisogno di molti sforzi da parte del PCI o della Camera del lavoro per sollecitare all’iniziativa un mondo del lavoro all’interno del quale le speranze di cambiamento e la disponibilità alla mobilitazione collettiva sono ben presenti.

È appena il caso di ricordare come in Emilia si tratti di un protagonismo che non nasce in questi anni, ma che si ricollega esplicitamente alle lotte sindacali del periodo prefascista, all’eredità del socialismo riformista dei municipi rurali, delle Case del popolo e delle cooperative degli anni giolittiani, da un lato, e alla tradizione invece antagonista e classista dei «contromondi» rossi, dall’altro volume parleremo sì di Partito comunista e di CGIL, ma soprattutto di militanti comunisti e di sindacalisti di fabbrica. Infine, osservare il conflitto sociale da una prospettiva locale permette di ricostruire con efficacia l’interazione tra l’insieme di questi fattori, ma contribuisce anche a fornire qualche elemento di riflessione in più per la storia del Partito comunista italiano.
Le vicende di una federazione provinciale come quella modenese, importante per dimensione quantitativa e per valore simbolico – la Resistenza, l’egemonia conquistata a spese dei socialisti qui tradizionalmente egemoni – seconda in questo senso solo alle roccaforti operaie del triangolo industriale, sono un osservatorio privilegiato per verificare sul campo il tormentato e faticoso cammino col quale il Partito comunista italiano riesce a conformarsi al modello di quel «partito nuovo» delineato da Togliatti. Al di là della storia politica dei gruppi dirigenti nazionali, indagare il percorso del PCI a partire dalle federazioni di periferia restituisce la vischiosità di tante posizioni che faticano ad essere ricomprese nell’alternativa secca tra «democrazia progressiva» e «spallata rivoluzionaria», tra «lavoro parlamentare» e «cultura del mitra», ma soprattutto contribuisce ad allargare lo sguardo e a considerare le culture e il radicamento sociale dei gruppi dirigenti locali che, in definitiva, costituiscono il corpo di un partito che, pur organizzato nel culto del capo e gerarchicamente ordinato, non può prescindere dal loro consenso.

Nel caso della federazione di Modena, il forte radicamento nel mondo contadino e operaio, la difficoltà a stabilire relazioni strutturate con altri ceti sociali – a partire proprio da quei ceti medi tanto invocati da Togliatti proprio a Reggio Emilia nel 1946 – la stessa origine popolare di larga parte del suo gruppo dirigente, contribuiscono a delineare una cultura di «autosufficienza proletaria». Una cultura che, se incrocia con facilità i tratti tipici dello stalinismo, se ha posizioni ambigue sulle pratiche violente, non è però sovrapponibile alle posizioni politiche nazionali più vicine a Secchia, ma non corrisponde neanche al disegno togliattiano.

Solo attraverso strappi e lacerazioni la federazione modenese, ma con essa buona parte del Partito emiliano, riuscirà a marginalizzare e poi ad abbandonare le tentazioni insurrezionali, ad avvicinarsi al modello vincente a livello nazionale e poi a proporsi come un originale esperimento politico e di governo locale a partire dagli anni Sessanta. Stato e conflitto sociale: una prospettiva periferica? Così delimitato il campo – non solo vincoli della guerra fredda, non solo azione politica del PCI – al centro del volume sono le modalità con cui le istituzioni dello Stato, nelle sue articolazioni territoriali e con l’insieme delle sue culture, affrontano il conflitto sociale. Le idee con le quali le classi dirigenti italiane, i ceti economici e i corpi dello Stato interpretano il conflitto, i loro tratti contingenti e le ascendenze di lungo periodo.

L’intento è quindi di verificare come il protagonismo sociale che si origina dal 1945 si scontra con una proposta tradizionale di integrazione subalterna e paternalistica del mondo del lavoro, con le forme della «continuità» dello Stato e dei suoi uomini, ma soprattutto con il sostanziale rifiuto di uno Stato di tipo nuovo dopo il fascismo e la Resistenza. Il continuo riferimento degli uomini di governo della prima legislatura repubblicana all’esperienza liberale come modello da riprendere e rafforzare senza prevedere un nuovo rapporto tra Stato e società, tra Stato e cittadini, l’idea della democrazia come sistema da contenere e da correggere, appaiono come un desiderio di chiudere una parentesi destabilizzante, una fase eccezionale, quella del 1943-’45, da consegnare alla storia.

In ultima analisi, ciò che sembra riemergere, è la persistenza e la riaffermazione del conflitto sociale come attacco eversivo allo Stato. In questo senso, il caso del 9 gennaio 1950 non è un anello qualsiasi nella catena di eccidi verificatisi nel dopoguerra nel corso di conflitti di lavoro. In questa occasione siamo di fronte all’uccisione di sei lavoratori davanti ad una grande fabbrica, in un ambiente urbano, ben dentro l’ambito della dimensione industriale del paese. Non sono morti ascrivibili, anche in una versione strumentalmente consolatoria, ad un conflitto generato dall’arretratezza, a condizioni sociali e culturali legati al sottosviluppo.
Non si tratta di «cafoni» del Mezzogiorno, ma di operai del Nord: il cuore della «modernità». Inoltre, è un eccidio che si verifica al centro della regione rossa per eccellenza, quell’Emilia già al centro delle attenzioni del governo prima come «Messico d’Italia» e ora come territorio «di frontiera», dominata da una forza antisistema, da «normalizzare» e sul quale ristabilire l’autorità dello Stato; quell’Emilia, allo stesso tempo indicata dalle sinistre come modello alternativo di governo da opporre a Roma, prefigurazione di una possibile «società futura» da proporre alla nazione.

Non si tratta quindi di un caso locale, come vedremo analizzando l’intera vicenda. Basterebbe a supportare questa affermazione la reazione all’evento dei partiti politici di opposizione che si riuniscono con tutti i deputati a Modena subito dopo i fatti, le reazioni compatte ma preoccupate del governo e degli apparati dello Stato.
Seguendo le settimane e i mesi successivi si ricava la convinzione che il 9 gennaio 1950 a Modena si sia raggiunto il punto limite dello scontro politico che la giovane Repubblica italiana potesse sostenere, che di ciò si rendano conto i diversi attori in campo e che nell’insieme compiano più o meno esplicitamente un passo indietro. In questo senso, si tratta di un avvenimento che trascende evidentemente l’ambito regionale per investire la storia italiana e la periodizzazione di quegli anni. Il sindacato e i partiti di sinistra gestiscono quei momenti difficili in modo sostanzialmente fermo, ma moderato. Nel PCI l’eccidio provoca a livello locale una drammatica resa dei conti le cui conseguenze si fanno sentire anche a Roma: la posizione di Secchia si indebolisce e la leadership di Togliatti, dopo aver superato i difficili mesi in cui subisce un incidente stradale e deve resistere alla richiesta di Stalin, non sarà più messa in discussione.

D’altra parte, dopo il 9 gennaio 1950, diminuiranno sensibilmente gli episodi violenti e le morti nel corso di conflitti di lavoro e non si ripeterà più un avvenimento tragico di queste dimensioni. La «protezione» della democrazia, obiettivo dei governi della prima legislatura, verrà da quel momento – anche in virtù di quell’eccidio – perseguita All’alba della Repubblica 21 spostando l’attenzione dalle politiche di ordine pubblico alle politiche di contenimento amministrativo e ai progetti di riforma. I processi Altro aspetto utile, e non ultimo, attraverso cui leggere le questioni che abbiamo delineato è la trama processuale che segue l’eccidio del 9 gennaio. Si tratta di una documentazione di grande interesse, cui il volume dedica un ampio spazio, che permette di approfondire e dettagliare i comportamenti dei protagonisti della vicenda e, seppure dall’angolo prospettico dell’attività giudiziaria, di seguire ancora una volta l’evoluzione nei rapporti tra poteri dello Stato e tra Stato e cittadini. Il processo di primo grado si svolge presso il tribunale di Modena nel 1952.

Dopo una rapida decisione di archiviare la denuncia firmata dai deputati dell’opposizione contro il ministro dell’Interno, il prefetto e il questore di Modena, e dopo una sentenza istruttoria della Corte d’Appello di Bologna che aveva riconosciuto come «ignoti» i responsabili delle morti del 9 gennaio, sul banco degli imputati salgono 34 lavoratori accusati di «resistenza aggravata a pubblico ufficiale» e «tentata invasione di edifici».
La sentenza di assoluzione, che di fatto smentisce le ricostruzioni della prefettura, della questura e dei carabinieri, provoca le ire del prefetto Bracali nei confronti del Pubblico Ministero – che pure ricorrerà in appello – proseguendo anche in questo caso con un atteggiamento che rivela ancora una realtà di scontro assoluto tra due mondi che non permette l’esistenza di posizioni terze. Il processo d’appello, nel 1954, si risolve velocemente. Il Pubblico Ministero ritira l’accusa di «tentata invasione di edifici» sulla quale era fondato il ricorso, mantenendo in piedi solo l’accusa di «resistenza aggravata a pubblico ufficiale» per un solo imputato. Di fatto è la rinuncia a proseguire l’azione.

La Corte d’Appello di Bologna, non senza un manifesto imbarazzo per il comportamento contraddittorio della pubblica accusa, non può fare altro che confermare la sentenza di primo grado. Sull’altro versante non ci sarà alcun tentativo di arrivare ad un processo penale a carico dello Stato e dei suoi funzionari, ma solamente una lunga causa civile. Le carte non ci permettono di definire con certezza le motivazioni alla base di queste scelte, ma è lecito supporre che sia da parte del Pubblico Ministero sia da parte degli avvocati delle vittime, coordinate dal Comitato nazionale di Solidarietà democratica, prevalga una valutazione realistica volta a non esasperare ulteriormente la situazione. Da un lato si rinuncia a perseguire penalmente i lavoratori, dall’altra si punta a raggiungere invece un risultato civilmente e politicamente importante: il riconoscimento delle responsabilità dello Stato e un risarcimento ai parenti delle vittime.

La lunga azione legale che gli avvocati di Solidarietà democratica sostengono contro lo Stato viene preparata ancor prima della sentenza d’appello, ma prende corpo solo dopo il 1954. La causa civile che, come detto, mira ad ottenere un risarcimento pecuniario, ha un andamento tormentato e, nella sua parte conclusiva, si colloca ormai in un contesto politico profondamente mutato: dopo numerosi rinvii la causa termina, infatti, con un accordo extragiudiziario tra gli avvocati dei familiari delle vittime e l’Avvocatura dello Stato nel 1964. Tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare l’esito della controversia legale non rappresenta un esito lineare: negli anni ormai del centro sinistra la vicenda si conclude con il riconoscimento da parte dell’Avvocatura dello Stato, costituitasi in nome del ministero dell’Interno, dell’opportunità «morale» di un risarcimento – contrattato al ribasso – di circa due milioni di lire ai famigliari delle vittime, ma rivendica ancora l’uso «legittimo» delle armi da fuoco, quella mattina del gennaio 1950, da parte delle forze di polizia

Uno Stato quindi che appare ancora sulla difensiva, che non concede spazio per alcuna autocritica, che ammette sì un «bonario» componimento della «lite» giudiziaria, ma esclude ogni responsabilità nel comportamento dei suoi uomini. Che questo accada nel 1952, in occasione del processo di primo grado, potrebbe forse essere ascrivibile – pur con le cautele che abbiamo descritto – allo scenario della guerra fredda e del conflitto frontale che attraversa il paese. Che accada invece nel 1964, quando gli «anni duri» sembrano passati, il miracolo economico sta cambiando il paese e i protagonisti della vita politica italiana sono Moro, Fanfani e Nenni, e non più Scelba, apre probabilmente altri scenari e altri problemi interpretativi. Restano aperte cioè, anche in una fase nuova della storia d’Italia, la questione della legittimazione del lavoro e delle sue autonome rappresentanze presso le istituzioni della Repubblica, così come la definizione e il riconoscimento degli spazi del conflitto sociale. Problemi che non si possono quindi confinare agli anni di impianto della democrazia repubblicana o al periodo del centrismo, ma che si ripresenteranno in altri momenti di passaggio e di crisi della vicenda italiana. Ma questa è un’altra storia

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

2 commenti su “9 gennaio 1950: Modena, il più grave eccidio operaio della storia repubblicana

  1. L’architetto e il generale. Ieri a Derry (Irlanda), oggi a Diyarbakir (Kurdistan)

    di Gianni Sartori

    Inquietante. Non solo per il disastro culturale, sociale o semplicemente umano che si va profilando. Ma, ancor più, per la mancanza di fantasia, la protervia nell’adottare i soliti sistemi concentrazionari da parte di chi detiene il potere economico-politico- militare. Quasi una coazione a ripetere, peraltro ben documentata, analizzata e denunciata.

    Ieri nell’Irlanda del Nord sotto occupazione britannica, oggi in Bakur (il Kurdistan entro i confini turchi).

    Questo è quanto avviene nel distretto di Sûr, centro storico della città curda di Diyarbakir: la costruzione di immobili sottoposti a considerazioni fondamentalmente securitarie, nonostante questo implichi la distruzione dei rapporti di vicinato, delle relazioni sociali e culturali. Senza alcuna considerazione per la storia, le tradizioni, la struttura preesistente nel centro storico della città, l’area su cui erano intervenute le ruspe della società pubblica TOKI (Amministrazione di sviluppo dell’edilizia sociale, quella preposta alla realizzazione di alloggi popolari ad alta intensità abitativa).

    Andando a cozzare contro qualsiasi principio di buon senso urbanistico.

    Come ha denunciato Selma Aslan (copresidente dell’Ordine degli architetti di Diyarbakir): “le larghe strade sono state ormai completate in modo da consentire la realizzazione di edifici pubblici (dall’inquietante aspetto di caserme o di prigioni nda) e ben sei posti di polizia”. Larghe strade che tra l’altro consentono ai mezzi militari – e all’artiglieria in particolare – di spostarsi agevolmente. Come avvenne a Derry nel secolo scorso e prima ancora nella Parigi ottocentesca (vedi Napoleone III) con i boulevards che sostituirono la rete di vicoli, viuzze e stradine adatti per le barricate.

    In precedenza il quartiere, etichettato dall’amministrazione turca come “bidonville” (del tutto a sproposito), era stato forzatamente evacuato. Secondo l’architetto le violente demolizioni e le successive ristrutturazioni non rimarranno senza conseguenze, ma saranno fonte di traumi futuri per i cittadini sottoposti.

    In qualche modo questa è l’inevitabile conclusione di un processo di sistematica distruzione della città vecchia (compresi alcuni illustri palazzi storici in basalto nero completamente rasi al suolo) avviato nel corso dell’assedio a cui venne sottoposta nel 2015 e 2016.

    Già nel marzo del 2016 iniziava l’opera demolitrice e successivamente la TOKI venne incaricata della – quasi altrettanto devastante – ricostruzione.

    Con la realizzazione di edifici talmente incongrui rispetto alla struttura storica e alla tradizione locale da suscitare calde proteste da parte di architetti e urbanisti.

    Nonostante le demolizioni, poteva almeno essere preservata – secondo Aslan – la planimetria delle antiche vie. In realtà sembra che si sia voluto modificare in maniera irreversibile anche la demografia locale, lo stile di vita. Per esempio trasformandole in attrattiva turistica a fini esclusivamente commerciali.

    Erodendo, cancellando le relazioni di vicinato.

    Fermo restando che presumibilmente parte dei vecchi abitanti di Sûr non rientreranno nel loro quartiere di origine, ma finiranno disseminati in altre zone della città.

    Oltretutto, come si diceva, l’aspetto delle nuove costruzioni ricorda quello di prigioni o di caserme. Insieme alle larghe strade realizzate sembrano proprio progettate per l’eventualità di una occupazione militare d’emergenza. Così come per rastrellamenti e perquisizioni. Senza escludere l’insediamento di collaborazionisti, militari o membri dei servizi sotto copertura (in Irlanda del Nord, in alcuni appartamenti di Divis Flats e Rossville Flats abitavano addirittura membri delle SAS).

    Inoltre – come denunciano gli architetti – i materiali utilizzati sono di pessima qualità e in futuro non mancheranno problemi.

    E allora come non riandare – per analogia – con la memoria a quanto avveniva nei primi anni ottanta a Derry (vedi Rossville Flats dove vennero ammassati gli abitanti sfrattati del Bogside e di Creggan) o a Belfast (con la “caricatura imperialista del falansterio” denominata Divis Flats)?

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