22 aprile 1977: arrestati sette operai. Andavano in montagna a sparare
Sette presunti brigatisti rossi che tornavano da un’esercitazione a fuoco in Valgrande sono stati arrestati dai carabinieri di Verbania. Sono: Enrico Baglioni, 28 anni, di Milano (via Sant’Eusebio 16); Riccardo Paris, 32 anni, di Muggio (Milano); Elio Brambilla, 25 anni, di Agrate Brianza; Francesco Meregalli, 27 anni, di Sesto San Giovanni; Teodoro Rodia, 32 anni, di Milano (via Passo Rolle 19); Emilio Cominelli, 29 anni, di Sesto San Giovanni; Antonio Guido Guerriero, 21 anni, di Merate (Como). Erano in possesso di quattro rivoltelle calibro 38 Special, una calibro 22 di precisione e due pistole automatiche calibro 7,65, tutte con i numeri di matricola cancellati. Avevano inoltre un migliaio di cartucce per quelle armi.
Senza tregua e gli operai armati
In realtà i sette erano componenti dei Comitati operai della Magneti Marelli, e della Falck, organismi di punta dell’Autonomia milanese e della rete organizzativa di Senza tregua che proprio in quei mesi si stava ristrutturando.
Negli ultimi mesi del 1976 dai Comitati comunisti per il potere operaio erano usciti due gruppi di militanti. Il primo, per lo più ex maoisti, radicati nel CentroSud, diede vita alla formazione armate delle Unità Combattenti Comuniste. Il secondo, che faceva capo a due leader prestigiosi come Oreste Scalzone e Piero del Giudice, si organizzò nei Comitati comunisti rivoluzionari. Quel che restò, ed era il grosso del tessuto organizzativo dei Comitati comunisti, intorno alla testata Senza tregua, si caratterizzò per la centralità del discorso sull’armamento operaio. In questa ottica si andarono a differenziare l’organizzazione di combattimento, Prima Linea e le Squadre operaie e territoriali, radicate nelle situazioni sociali e nelle situazioni di lotta di massa.
La figura chiave, tra gli arrestati, è Enrico Baglioni, leader riconosciuto e protagonista della lunga vertenza della Magneti Marelli, a lungo uno dei punti più alti del conflitto operaio a Milano nella seconda metà degli anni Settanta
Che cosa rappresentasse Baglioni nella fabbrica lo racconta, con evidente, risentito rispetto, trent’anni dopo il blog di Lorenzo Gramaccioni, la Repubblica Italiana
Chi è Enrico Baglioni
Prendiamo Enrico Baglioni ad esempio. E’ un operaio che all’età di ventitré anni, nel 1973, varca i cancelli della Magneti Marelli di Sesto San Giovanni (conosciuta ai più con il romantico soprannome di Stalingrado d’Italia); duemila uomini e duemila donne giovanissimi, impiegati nella metalmeccanica leggera, che iniziano a parlare tra loro di cose che i propri genitori hanno sempre ignorato: l’importanza della donna nella società come lavoratrice e madre, l’emergenza della casa e il diritto all’abitare, la dignità dei lavoratori da tutelare.
In fabbrica Baglioni è adorato da tutti, “alla Magneti ha un tale seguito operaio da risultare secondo eletto nel consiglio di fabbrica, preceduto solo da un esponente della Cgil” (Giorgio Galli, Il partito armato). Quando invece esce dai cancelli ogni tanto fa il terrorista. Lo sanno tutti fuori, visto che a lui toccherà la complicata commemorazione funebre che tenta invano di dare un senso alla morte di Walter Alasia e il sangue che si è portata dietro.
Ma se una circostanza come questa appare ai nostri giorni motivo sufficiente per mettere in discussioni diritti intoccabili quali la potestà genitoriale o quello di espressione, tale non sembrava all’epoca agli operai della Marelli. Fermato sulle montagne intorno a Verbania con sette compagni mentre si esercitano a sparare, Baglioni sarà arrestato, detenuto e licenziato, un percorso accidentato che non riuscì a scalfirne la considerazione presso i colleghi. Che non solo gli pagarono lo stipendio di tasca propria durante l’anno di carcerazione, ma che quando venne rimesso in libertà provvisoria il 30 aprile 1978, lo scortarono tutti giorni all’interno dello stabilimento con trionfali cortei, nel riuscito intento di rendere vana la volontà del padrone di allontanarlo dal luogo di lavoro, nonostante il reintegro giudiziario.
La lotta alla Magneti Marelli
La vertenza Magneti Marelli è raccontata anche nell’Orda d’Oro, il grande volume curato da Nanni Balestrini e Primo Moroni e dedicato al “decennio rosso”. Il capitolo sull’Autonomia milanese è curato da Lucia Martini e Oreste Scalzone:
La stella polare di questo nostro processo d’organizzazione – i Comitati comunisti per il potere operaio – è la Magneti Marelli di Sesto San Giovanni. Vale la pena di raccontarne alcuni tratti di storia.
Nel 1976, dopo una lotta dura contro la ristrutturazione che ha visto l’invasione degli uffici della direzione, quattro membri del Comitato vengono licenziati dall’azienda. Comincia un braccio di forza tra gli operai e la direzione. Ogni mattina, i quattro compagni licenziati vengono portati dentro, in fabbrica, da un corteo che si forma all’ingresso. Contemporaneamente, c’è la discussione sulla vertenza al tribunale del lavoro.
A ogni grado di giudizio, il verdetto cambia: decreti di riassunzione e conferme del licenziamento si alternano. I quattro compagni, comunque, continuano a entrare ogni giorno portati dal corteo. A un certo momento, i quattro compagni vengono arrestati in Valgrande mentre si esercitano al tiro.
Il Comitato “gestisce” il dibattito sul loro arresto, distribuendo un volantino a un comizio di Trentin in piazza Castello a Milano. Dice, il volantino, che i ceti della piccola e media borghesia commerciante si armano, che i padroni hanno i loro corpi armati privati, e che dunque è legittimo che gli operai facciano altrettanto. Alla discussione della causa di lavoro, il tribunale viene regolarmente invaso da cortei operai.
Ci sono scontri coi carabinieri all’interno del palazzo di giustizia. Al processo penale per l’affare delle armi l’aula è piena di compagni che scandiscono slogan di solidarietà. Poco tempo dopo il processo, in fabbrica si svolgono delle elezioni per il consiglio dei delegati. Enrico Baglioni, uno dei licenziati e arrestati in Valgrande è tra i primi eletti.
La questione dei decreti operai
La vertenza sui licenziamenti continuerà, anche dopo la scarcerazione dei compagni, fin quando l’azienda non pagherà per fargli accettare il licenziamento – già dichiarato esecutivo dall’ultima istanza del Tribunale del lavoro – 25 milioni a testa, che verranno devoluti per la costruzione di un asilo-nido per i figli delle operaie. Dentro questa vicenda c’è tutta un’esperienza sociale, culturale, politica. Era il discorso sui “decreti operai”, sulla capacità di una rete di avanguardie rivoluzionarie di classe di esprimere il loro contropotere sul territorio, sull’intera organizzazione sociale. La riduzione dell’orario di lavoro e il salario sociale, il reddito garantito per tutti come il diritto alla vita: dati questi due assi rivendicativi si trattava di approssimarli nelle forme di lotta.
Lotta contro il comando d’impresa, la disciplina di fabbrica, l’aumento della produttività; lotta contro i prezzi, le tariffe, i fitti. E’ qualcosa di diverso, di più duro e di più agro del “vogliamo tutto” del ’69: si tratta di affermare una sorta di nuova “citoyenneté”, di introdurre delle modificazioni irreversibili nello stato di cose sociale. Quando, nel ’76, un gruppo armato fa irruzione nella portineria della fabbrica e spara alle gambe del capo dei “guardioni”, Matteo Palmieri, il Comitato boicotta l’ora di sciopero di protesta indetta dai sindacati. “Né una lacrima, né un minuto di sciopero per il capo dei guardioni”, scrive il volantino del Comitato. Ma la Magneti è la punta di un iceberg ben più vasto e profondo.
Ma torniamo alla cronaca dell’arresto
La cronaca della Stampa
L’operazione ha preso l’avvio nel pomeriggio di ieri, 22 aprile 1977. Un boscaiolo di Rovegro, del quale ovviamente non viene rivelato il nome, ha telefonato al comando dei carabinieri di Verbania per informare di avere visto un gruppo di persone armate e successivamente udito spari, in Alta Valgrande. Spiegava che il punto in cui li aveva visti era a circa due ore di marcia da Rovegro. Quegli uomini avevano probabilmente lasciato le loro auto sulla strada che porta a Cicogna. Auto che aveva notato parcheggiate ai margini di un pendio da cui si diparte il sentiero che porta nell’impervia e selvaggia Valgrande. Questa è la versione ufficiale.
Sta di fatto che poco dopo le 16, una squadra di nove carabinieri e quattro sottufficiali era a Rovegro. Parte erano in uniforme, gli altri in abiti civili. Scoperte sulla strada che da Rovegro porta a Cicogna le due auto, i militi si sono appostati. Quelli in borghese si sono messi insieme ad alcuni pescatori. Gli altri in divisa sono scesi per un paio di chilometri a valle.
La trappola dei carabinieri a valle
Quando i sette presunti brigatisti sono sbucati dal sentiero e sono risaliti sulle due auto, una «Dyane» gialla e una « 126 » bianca, entrambe targate Milano, i carabinieri in borghese, con le radio portatili, hanno avvertito i colleghi a valle che hanno fatto scattare la trappola. Messa la loro «gazzella» per traverso, bloccando la strada larga appena quattro metri, i nove militi armati di mitra si sono appostati. Non appena le due auto si sono fermate davanti allo sbarramento, i carabinieri sono balzati dal loro nascondiglio: «Nessuno si muova e mani sopra la nuca» , ha intimato un maresciallo. Sorpresi, i sette non hanno potuto tentare la benché minima reazione: alle loro spalle la strada era bloccata dai carabinieri in borghese sopraggiunti dopo avere dato l’allarme via radio.
Ad uno ad uno gli occupanti le due utilitarie sono stati fatti scendere con le mani alzate, messi contro un muro e perquisiti. Il primo è stato il Baglioni cui è stata trovata, infilata nella cintola, una «Smith e Wesson» cai. 38, carica. Il Paris aveva un coltello infilato in uno stivaletto. Gli altri non erano armati, ma un’attenta perquisizione delle due auto permetteva di trovare altre quattro rivoltelle, due pistole e un migliaio di cartucce. In un sacchettino c’erano centinaia di bossoli. Evidentemente, per non lasciare tracce dopo le esercitazioni di tiro, li avevano raccolti. Ce n’erano anche per fucile «Winchester» e per armi automatiche calibro 9.
Baglioni un teorico delle Brigate rosse
Portati in caserma e dichiarati in arresto per detenzione e porto abusivo di armi «clandestine» (per via dei numeri di matricola cancellati), possesso di munizioni anche di tipo proibito (quelle per fucile «Winchester» e per armi automatiche calibro 9), gli arrestati non hanno inteso dare alcun chiarimento. Invitati a nominarsi un avvocato, hanno fornito i nominativi di tre legali di Milano: gli avvocati Spazzali, Zezza e Medina Soltanto il Paris ha detto di non conoscere nessuno e di accettare un difensore d’ufficio.
Mentre venivano rinchiusi nel carcere di Verbania, prendevano l’avvio le indagini: le loro abitazioni a Milano e in Brianza venivano perquisite non si sa con quale esito. Sembra però che in quella del Rodia siano state trovate alcune schede provenienti dagli uffici della Magneti Marelli, dove il 2 aprile 1976 un commando di estremisti aveva fatto irruzione.
Del resto il nome del Rodia non era nuovo agli uomini dell’Antiterrorismo, che già sospettavano la sua partecipazione all’operazione della Marelli. Anche il Baglioni era conosciuto come un teorico delle Brigate rosse. Sembra sia stato denunciato dai carabinieri di Milano per violenza privata e costituzione di bande armate. Degli altri nessuno sospettava, a quanto pare, l’appartenenza a movimenti eversivi. Sono tutti operai, ad eccezione del Meregalli, ragioniere disoccupato.
Tutti e sette dovevano essere interrogati oggi pomeriggio dal sostituto procuratore Corrado Lembo, ma sembra siano sopravvenute difficoltà per reperire i difensori di fiducia. L’interrogatorio è stato rinviato a martedì prossimo. Si parla, comunque, di un processo per direttissima. Si era diffusa la notizia che gli arrestati avessero dichiarato ai carabinieri di considerarsi «prigionieri politici» La notizia però è stata ufficialmente smentita, tanto più che, come si è detto, non sono stati ancora interrogati.
Caccia al terrorista in Valgrande
Mentre sono in corso indagini a Milano, la Valgrande viene setacciata da squadre di carabinieri. Alla ricerca non soltanto del poligono di tiro clandestino, ma di un eventuale «santuario» delle Brigate rosse. Si pensa infatti che oltre alle armi leggere trovate in possesso dei sette arrestati, gli estremisti abbiano nella zona un armamentario più consistente. Ne sarebbe prova il fatto che tra i bossoli sequestrati c’erano quelli per fucile «Winchester» e per armi da guerra calibro 9.
Adesso le lingue si sciolgono. Più d’uno a Rovegro e a Cicogna dice di aver notato già in passato strane comitive nella zona. C’è chi asserisce di avere sentito sparare a lungo, come avvenuto ieri, già altre volte. Di campi paramilitari in Valgrande si era parlato quattro o cinque anni or sono a proposito di formazioni neofasciste. Nell’agosto di tre anni fa era stato scoperto dai carabinieri un grosso deposito di armi. Gli uomini dell’Antiterrorismo giunti a Verbania sono convinti che i sette arrestati appartengano a una « colonna» delle Br in addestramento.
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