La guerra fratricida della Magliana e la morte di De Pedis

Da tempo, ormai, il gruppo di banditi originario della Magliana − che morto Giuseppucci s’era aggregato intorno ad Abbatino e Colafigli, ai quali s’erano aggiunti Toscano e Mancini − aveva deciso di arrivare alla resa dei conti coi «testaccini», i quali avevano perso Abbruciati sull’asfalto di Milano e ora erano guidati da «Renatino» De Pedis. I contrasti risalivano alla fine del 1981, quando fu ammazzato Domenico Balducci senza che Abbatino e gli altri ne sapessero niente, ed erano diventati insanabili dopo la «missione» di Abbruciati a Milano per l’attentato al banchiere Roberto Rosone.

I due spezzoni

«I testaccini», ha spiegato ai giudici Vittorio Carnovale (nella foto), che veniva dal gruppo di Acilia-Ostia ma si era legato ai «maglianesi», «intrattenevano rapporti con altre organizzazioni criminose dei quali tenevano all’oscuro l’altra parte della banda. Non solo; non sempre dividevano i proventi delle attività delinquenziali in modo equo, tale da garantire la piena assistenza ai detenuti.»

Colafigli e Mancini, ad esempio, erano in carcere da più di un anno per l’agguato di via Donna Olimpia ai fratelli Proietti, un’azione che rientrava in quel piano di vendetta contro gli assassini di Giuseppucci che aveva cementato l’unione tra le due anime della banda. Ebbene, secondo i loro amici i «testaccini» non rispettavano l’obbligo di aiutare i due compagni.

Ma i propositi di vendetta del gruppo di Abbatino contro De Pedis e gli altri non ostacolavano gli affari in comune, soprattutto nel traffico di droga. «Il fatto che noi avessimo deciso di eliminarli», confesserà «crispino», «non ci impediva di continuare con loro il traffico degli stupefacenti, come se niente fosse.»

Il blitz Lucioli

Mentre i due gruppi si studiavano a vicenda, aspettando il momento opportuno per risolvere i contrasti a colpi di pistola, sulla banda si abbatté l’ondata di arresti dovuta alle prime confessioni di Fulvio Lucioli, arrestato e deciso a collaborare coi giudici per rifarsi una vita. Quasi tutti i leader finirono in carcere, e si arrivò a un processo che si concluse nel 1986. Nelle gabbie, durante le udienze, gli imputati avevano modo di parlarsi e scontrarsi. Discorsi spesso tesi, a testimonianza che la rottura era ormai senza ritorno.

A «Renatino» De Pedis, proprio durante il processo, Mancini e Toscano rimproverarono di aver preso un avvocato di piccolo calibro, lui che con tutti i soldi che aveva poteva scegliere i migliori. Ma quello rispose che il processo «l’aveva già fatto fuori», «in corridoio», e che l’avvocato in aula non gli serviva; intendeva dire che la sua posizione era già al sicuro, sistemata attraverso la corruzione, e questo convinse una volta di più i «maglianesi» che dei «testaccini» non ci si poteva fidare. «I processi li fate in corridoio solo per voi, non per tutti», rinfacciò Edoardo a «Renatino».

Finito in carcere dopo che i poliziotti avevano pedinato la sua giovane amante, Maurizio Abbatino scoprì di non essere più un capo. O meglio, che chi un giorno lo considerava uno dei capi non si fidava più di lui. E che quindi lui non si poteva più fidare.

Lo strappo con Abbatino

A Rebibbia c’era pure «Marcellone» Colafigli; con «crispino» aveva il divieto di incontro, ma riuscì a mandargli una lettera attraverso lo «spesino», il detenuto che distribuisce la spesa nelle varie celle. Usava un tono scherzoso, Colafigli, ma in quel pezzo di carta c’era scritto che Abbatino e gli altri non s’erano dati da fare abbastanza per fargli ottenere l’infermità mentale, e questo lui non lo dimenticava. Poi i due riuscirono a incontrarsi nel reparto ospedaliero del carcere: Marcello rimase freddo con Maurizio, e ogni volta che questo cercava di arrivare a un chiarimento quello si rifiutava.

Dopo un po’, nello stesso reparto, arrivò anche Edoardo Toscano, l’amico inseparabile di Abbatino, arrestato con «crispino» nello stesso appartamento; i due si parlarono attraverso le finestre dell’infermeria, ed Edoardo ribadì che Colafigli ce l’aveva con loro perché s’era sentito abbandonato. Solo che poco dopo Toscano finì nella cella di «Marcellone» e riuscì a chiarire ogni cosa, mentre Abbatino continuò a essere considerato un traditore.

«Né Edoardo fece nulla per tranquillizzare Colafigli sul mio conto», ricorderà poi Abbatino, «in quanto subentrò da parte sua nei miei confronti un certo livore, essendo io riuscito a farmi ricoverare in clinica. In particolare, sull’atteggiamento del Toscano influì la moglie, la quale riteneva privilegiata la mia famiglia per le maggiori possibilità di incontri con me rispetto a quelli che poteva avere lei col marito. D’altra parte al Toscano non era piaciuto che io avessi speso circa trenta milioni che appartenevano all’organizzazione per acquistare uno strumento che doveva servire ad applicarmi un pacemaker.»

Regole interne e vincoli di solidarietà

Abbatino si sforzava di far capire agli altri che la cosa migliore era che lui riuscisse non a evadere − che poi si sarebbe trovato con la polizia alle calcagna − ma a farsi scarcerare regolarmente per motivi di salute, in modo da poter riprendere in mano le fila dell’organizzazione, gestire in maniera oculata gli affari della banda e occuparsi adeguatamente dei detenuti per farli uscire di galera. Gli amici però non ne vollero sapere, ormai Maurizio aveva rotto, ai loro occhi, i vincoli di solidarietà.

Secondo le regole interne, non solo c’era l’obbligo del mutuo soccorso verso i detenuti e i loro familiari − oltre alla «stecca», cioè la percentuale di guadagni sugli affari che andavano avanti, bisognava garantire la «settimana», una sorta di stipendio che permettesse di conservare lo stesso tenore di vita a chi finiva in galera e alla sua famiglia -; i «bravi ragazzi» che si ritrovavano dietro le sbarre dovevano anche attenersi a un «codice di comportamento».

Il primo punto era quello di non «scendere a patti di alcun genere con il personale carcerario»; ufficialmente, si intende, perché poi guardie, infermieri e tutti coloro che era possibile «avvicinare» venivano regolarmente contattati e retribuiti per ottenere trattamenti di favore. Ma era vietato accettare le regole della legge e del carcere, per cui non si potevano chiedere attestati di buona condotta, permessi e licenze. Inoltre, in ogni momento il detenuto della banda doveva avere in testa l’obiettivo dell’evasione: tutto andava finalizzato alla fuga, e quando Gianni Girlando, «il roscio», non solo ottenne un permesso, ma alla sua scadenza ritornò disciplinatamente in cella anziché darsi alla latitanza, fu guardato con sospetto dagli amici. La stessa cosa stava accadendo, ora, con Abbatino.

«Si determinò una mia progressiva emarginazione dalla banda», ha spiegato «crispino», «dovuta anche al fatto che probabilmente chi aveva in mano la gestione delle lucrose attività “sociali”, aveva tutto l’interesse ad aggravare la mia posizione agli occhi dei detenuti, in quanto riteneva ingombrante una mia presenza all’esterno del carcere. In pratica, se io fossi uscito regolarmente dal carcere, la direzione delle attività sarebbe tornata saldamente in mano alla “vecchia guardia”.» (…)

Una resa dei conti non più rinviabile

Ormai, fra quei tanti rivoli in cui si stava sciogliendo la banda della Magliana, la resa dei conti non era più rinviabile. (…) Nell’aria di guerra interna che si respirava, Fabiola Moretti e Antonio Mancini, «l’accattone», che aveva preso il posto di Abbruciati nel cuore della ragazza dopo la morte di Danilo, cercarono di barcamenarsi a causa dei legami che continuavano ad avere sia con gli uni che con gli altri. Colafigli e Toscano accusavano De Pedis di non aiutarli adeguatamente, e pretendevano le loro parti di guadagno sugli affari di «Renatino»; «Marcellone», dal carcere, inviò un suo amico di Primavalle da un altro «testaccino» che gestiva le sale giochi di quel quartiere, minacciandolo se non avesse accettato di «steccare» con lui i suoi guadagni.

In carcere Antonio Mancini venne a sapere dei piani di morte dei suoi amici, e tentò di intervenire: «Colafigli e Toscano avevano deciso di far fuori “Renatino”. Io, siccome De Pedis, attraverso Fabiola Moretti, provvedeva alle mie esigenze e a quelle della stessa Moretti, mi ero intromesso tra gli uni e l’altro, per evitare che a De Pedis potesse accadere qualcosa»

Fabiola prova a fare da paciere

Da quando era diventata la sua donna, «l’accattone» aveva voluto che Fabiola non vendesse più la droga. Per questo De Pedis cominciò a passare la «settimana» per lei e per Mancini.

Il fatto suscitò gelosie e rimostranze nelle altre donne, che invece riscuotevano i soldi da Claudio Sicilia. Lo giudicavano troppo parsimonioso rispetto a De Pedis. Arrestato «Renatino», anche la Moretti si rivolse a Sicilia, ma De Pedis continuò a farle arrivare altro denaro attraverso i suoi «luogotenenti». (…)

Il capo dei “testaccini” non voleva saperne di continuare a versare denaro a Marcellone e l’operaietto e mettersi a «steccare» con loro. Non doveva nulla a nessuno, diceva, perché fino a quel momento i guadagni della banda erano sempre stati divisi alla pari. Se lui aveva fatto fruttare i soldi mentre gli altri se li erano mangiati non poteva farci nulla. «E poi», disse una volta a Fabiola, «se gliela do vinta adesso, finisce che quelli pretenderanno che io gli allacci pure le scarpe.» Ma «quelli», dall’altra parte, insistevano, e la situazione era giunta a un punto che ormai potevano parlare solo le pistole.

L’operaietto

Edoardo Toscano, classe 1953, detto «l’operaietto» perché si industriava sempre e dimostrava di sapersela cavare in ogni circostanza. Prima segnalazione per furto a 18 anni non ancora compiuti. Primo arresto per rapina e tentato omicidio a 22. Gli amici lo consideravano uno «studioso di criminalità». Perché si informava su tutti i delitti che avvenivano non solo in Italia e sui modi per sottrarsi alla giustizia. Piccolo di statura, naso ingombrante e occhi un po’ in fuori, uscì di galera, in libertà provvisoria, la mattina del 13 febbraio 1989. Aveva 35 anni e mezzo, e una gran voglia di ammazzare il suo ex amico De Pedis prima di fuggire all’estero.

«”Renatino”», continua il racconto della Moretti, «venne a sapere che Edoardo lo cercava e ritenne di doverlo uccidere. Altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Bruno Tosoni “reggeva” i soldi di Toscano, circa cinquanta milioni di lire, offrì a costui una somma pari perché attirasse Toscano in un’imboscata. L’incarico di uccidere Toscano toccò a “Renatino” a “Cileno” e a “Ruffetto”… Anche in altre occasioni “Rufetto” era stato usato come killer dai testaccini.» Si stava riproducendo, inesorabile, il meccanismo di qualche anno prima con Nicolino Selis e i suoi amici, quando i complici di un tempo si cercavano per ammazzarsi.

Omicidio a Ostia

La mattina del 16 marzo, quando era libero e stava sulle tracce di De Pedis già da un mese, Edoardo Toscano andò a Ostia. Lì, poco prima di mezzogiorno, aveva appuntamento con il suo «cassiere»: quel Bruno Tosoni, occupazione panettiere, che a cinquantadue anni aveva sì la qualifica di «sorvegliato speciale», ma era riuscito a contenere le noie con la giustizia. Bruno, baffoni alla Stalin e capelli imbiancati sulle tempie, gestiva due panifici, uno dei quali nella centralissima via della Marina, tra una pizzeria e un negozio di lingerie e costumi da bagno.

Edoardo arrivò al panificio, Bruno uscì e i due si misero a parlare sul marciapiede, sotto un sole pallido: Tosoni con le spalle alle vetrine, Toscano di fronte a lui, spalle alla strada. Stavano discutendo da qualche minuto quando dietro a Edoardo comparve il suo assassino: tre colpi di pistola, altrettanti lampi, un proiettile nel cranio e uno nel torace; il boss della Magliana cadde sui vasi di oleandri che era già morto, si dovette aspettare l’arrivo dei poliziotti perché qualcuno gli chiudesse gli occhi e lo coprisse con un lenzuolo.

Il ferimento del “basista”

A esecuzione avvenuta il killer era scomparso a bordo della solita moto rombante con complice protetto dal casco integrale. Bruno Tosoni rimase ferito di striscio a un piede, lo portarono in ospedale, guarì in trenta giorni. Dovette sostenere gli interrogatori dei poliziotti e del giudice, ma anche degli amici del«l’operaietto» che s’erano già messi a caccia di chi l’aveva ammazzato. (…)

Due giorni prima di morire, nell’aula della Corte d’Assise d’appello dove era stato assolto come gli altri imputati della banda, Edoardo aveva incontrato il suo amico Colafigli. Gli disse che avrebbe chiarito tutto con le persone che avevano degli obblighi nei suoi confronti: non fece in tempo, oppure il chiarimento non fu sufficiente.

La vendetta a Campo de’ Fiori

Undici mesi più tardi, all’ora di pranzo di venerdì 2 febbraio 1990, la morte arrivò nel cuore di Roma. In via del Pellegrino, a poche decine di metri da piazza Campo de’ Fiori, ancora piena dei rumori e dei colori del mercato rionale. Accadde all’improvviso.

«Ho sentito un gran botto», raccontò l’inquilina del primo piano di un vecchio palazzo di via del Pellegrino al cronista di un quotidiano romano. «Mi sono affacciata e ho visto quell’uomo per terra con il sangue che gli usciva dalla bocca. Il motorino era con le ruote per aria. Il botto era stato preceduto da un paio di spari.»

L’uomo col sangue che usciva dalla bocca era Enrico De Pedis. Trentasei anni da compiere il 15 maggio, come era scritto sulla carta d’identità. Nella foto del documento appariva elegante e pettinato con cura, capelli con la scriminatura a sinistra, giacca, cravatta e colletto inamidato. L’avevano abbattuto mentre se ne stava andando col suo motorino. L’Honda bianco, dopo i due colpi di pistola, aveva proseguito a zig zag per cinquanta metri. Come fosse guidato da un ubriaco. Prima di schiantarsi contro un’auto parcheggiata.

I killer erano scappati in moto. Di fronte al luogo dell’agguato c’era un bar. Come sempre nessuno aveva visto niente. «C’è stato un fuggi fuggi generale», raccontò il barista.

Il capo della mafia dei colletti bianchi

Il capo dei «testaccini» era morto così, fulminato dopo un appuntamento e un incontro nel quale tutto sembrava essere andato come previsto. Era arrivato in via del Pellegrino per trattare con un commerciante l’acquisto di alcuni preziosi. Conclusa la discussione, salì sul motorino per andarsene. A quel punto entrarono in scena i killer che con due colpi secchi vendicarono Edoardo Toscano e tutti gli «sgarri» che venivano imputati a «Renatino».

Quando lo assassinarono, Enrico De Pedis aveva assunto un «ruolo centrale all’interno “dell’anima finanziaria” dell’associazione. Rappresentava il fondamentale elemento di collegamento e punto di riferimento tra i vari De Tomasi, Serafini, Nicoletti, Vitale» e una lunga sequela di altri nomi. Cinque mesi prima della sua morte, la Squadra Mobile di Roma aveva presentato un rapporto. Vi si parlava della «mafia dei colletti bianchi» nella capitale, che «cura interessi macroscopici, concentrandosi soprattutto sul riciclaggio del denaro sporco con il sistema ormai collaudato delle società di comodo.».

Un nullatenente che gestisce tanti affari

E al centro del rapporto c’era proprio lui, Enrico De Pedis: «Pur risultando nullatenente», accusava la Squadra Mobile, «gestisce indirettamente esercizi commerciali della capitale nei quali ha investito i proventi delle sue illecite attività. La rilevanza della sua posizione in seno a organizzazioni criminose e la sua riconosciuta abilità fa sì che lo contatti dalla mafia siciliana. Lo ritiene all’altezza di rappresentarla nel traffico di droga dalla Sicilia a Roma… Il “cinese pentito” Koh Bak Kin lo indica come intermediario di un traffico dall’Estremo Oriente alla Sicilia»

Ristoranti a Trastevere e nel centro di Roma, negozi e imprese edili risultavano intestate ai parenti di De Pedis. Compresa la madre Edda, amministratore unico della Edda Prima, sede nella sua casa della Magliana, una società dedita «all’acquisto e vendita di beni immobili, rustici e urbani, loro rifacimento e nuove costruzioni». «Venivano altresì acquisite notizie», continuava il rapporto, «che l’Enrico De Pedis e il Giuseppe Sergio De Tomasi avevano rilevato il noto locale notturno Jackie ‘O sito in via Boncompagni nonché, in esclusiva, la boutique Coveri di questa città.»

In molti lo conoscevano come il nuovo «re» dell’usura e del gioco d’azzardo, ma anche come uno sospettato di avere stretti legami coi Servizi segreti. A parte l’evasione organizzata dal tribunale, s’era adoperato per far trasferire poliziotti e carabinieri troppo tenaci nelle indagini. Antonio Mancini aveva cominciato a frequentarlo quasi quotidianamente. La domenica mattina «Renatino» passava a prenderlo a casa per portarlo a colazione in una pasticceria di Testaccio.

Le buone amicizie di Renatino

«Vi era anche una ragione precisa», spiegherà «l’accattone» a un magistrato, «che mi induceva a stare con De Pedis. Si diceva che egli avesse preso il posto di Giuseppucci nei contatti di un certo livello. Intendo dire non i contatti con persone della malavita, che erano piuttosto normali, ma contatti con organi dello Stato, con funzionari di questa o quella Polizia. Quando mi riferisco a questi contatti, non intendo affatto dire che De Pedis fornisse informazioni alla Polizia, bensì esattamente il contrario. Cioè De Pedis riusciva a ottenere notizie da organi e funzionari dello Stato circa operazioni o provvedimenti che si dovevano adottare. In particolare si diceva che De Pedis fosse in contatto con uno della DIGOS di Roma, dal quale riceveva importanti o utili informazioni. Veniva così a sapere con congruo anticipo se eravamo seguiti, e che intenzioni avessero gli organi di Polizia nei nostri confronti.»

Con gli amici lo stesso «Renatino» si vantava delle conoscenze che aveva «in alto». Quel venerdì mattina, a Campo de’ Fiori, non poté fare nulla contro chi aveva l’ordine di toglierlo dal mondo.

I killer in trasferta

Cinque giorni prima, il 28 gennaio, erano arrivati a Roma due malavitosi toscani, Dante Del Santo − chiamato «il cinghiale», di Massa Carrara, con lunghi trascorsi nei manicomi criminali − e il suo amico Alessio Gozzani. A Fiumicino li aveva controllati una pattuglia della «Polaria» insieme a Libero Mancone. Risultarono «puliti» e li dovettero rilasciare. Nella capitale dovevano semplicemente rifornirsi di cocaina da quelli della Magliana. Due killer «esterni» potevano tornare utili. Così finirono per essere coinvolti nell’omicidio di De Pedis.

Al giudice istruttore, nel 1993, l’ha svelato, dopo alcune titubanze, Vittorio Carnovale. Il pentito ha raccontato che Enrico Nicoletti, uno degli imprenditori legati a De Pedis, fece sapere a lui e gli altri amici che «Renatino» stava trattando un affare con Angelo Angelotti. «Io – disse – e Marcello Colafigli, già amico di vecchia data di Angelotti, lo contattammo. Ci confermò la trattativa in corso. Soprattutto, ci informò la mattina dell’omicidio che proprio quel giorno aveva un appuntamento con De Pedis. Quando giunsero a Roma Del Santo e Gozzani, eravamo in attesa di sapere quando dovesse avvenire l’incontro tra De Pedis e Angelotti. Per ciò informammo del lavoro che stavamo facendo Gozzani e Del Santo, i quali si offrirono di partecipare anche loro… Chi sparò fu Del Santo»

Per gli investigatori fu fin troppo logico collegare l’assassinio di De Pedis con quello di Toscano. Lo inserirono nella faida tra i compari di un tempo, «testaccini» e «maglianesi». Per questo, quando a luglio fu riacciuffato l’evaso Colafigli, il pubblico ministero gli chiese conto di quel delitto.

La testimonianza di “Marcellone”

«Vorrei che lei capisse», rispose «Marcellone». «Chi vorrebbero ammazzare è il sottoscritto. Sono certo di ciò dal momento che mi pedinavano e mi si appostavano sotto casa… Il giorno che fu ammazzato De Pedis ero da un mio parente qui a Roma, anzi vicino Rieti.».

Il magistrato gli ricordò la sua amicizia con Edoardo Toscano, probabile vittima di «Renatino», ma Colafigli replicò: «Ma io sono anche amico di Renatino. L’ho conosciuto tramite Franco Giuseppucci che era amico di entrambi, poi Franco è morto, io ho ammazzato “il pescetto” per vendicarlo, e da allora sono rimasto legato a De Pedis, con cui ho avuto degli incontri in carcere… Quando sono uscito da Reggio Emilia non ho avuto modo di incontrarlo».

Er palletta

Con «Renatino» manteneva un forte legame Raffaele Pernasetti. «Er palletta», aveva dei buoni motivi per temere anche lui una vendetta. Sul suo conto Colafigli disse: «Ho avuto modo di incontrare Raffaele Pernasetti in questi ultimi giorni proprio per dirgli che non avevo nulla contro di lui. L’ho incontrato a Testaccio, da Augustarello, un ristorante. Non avrei mangiato con Raffaele né con nessun altro, l’ho incontrato davanti al locale. È stata una persona cara di cui non voglio fare il nome e di cui mi fido che mi ha detto che l’avremmo potuto incontrare in questo posto, e così è stato. Raffaele non è male, l’ho visto sincero nel dirmi che non c’era niente. Lui si è informato se mi serviva qualcosa e io gli ho detto di no»

FONTE: Giovanni Bianconi, Ragazzi di malavita.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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