5 gennaio 1977: evasione di Fossombrone, un successo a metà
Agli inizi del 1977 le carceri sono un colabrodo: tre giorni prima scappano in 13 da Treviso. Li guidano Prospero Gallinari e un grande rapinatore, il 22 gennaio fuggiranno da Pozzuoli le due nappiste Franca Salerno e Maria Pia Vianale.
L’evasione di Fossombrone invece riesce a metà. Alcuni, i malavitosi romani che hanno procurato l’auto d’appoggio (tra cui Lallo lo Zoppo e Antonio “Accattone” Mancini), li hanno trasferiti poche ore prima: una soffiata o un’intuizione investigativa imperfetta che limita ma non scongiura il danno.
I due politici, il brigatista catturato prima del blitz in cui cade Mara Cagol e uno degli autonomi arrestati per la rapina di Argelato, li hanno invece bloccati dalle guardie.
L’unico bandito politicizzato a cui riesce il “ciocco”, Antonio Marocco, diventerà un operativo di rilievo nella galassia armata che germina dall’Autonomia organizzata/Rosso. Per finire, alla conclusione dei giochi, nell’autunno 1982, pentito/reinfiltrato nella banda che lavorava alla ricostruzione delle Br a Torino.
La cronaca della Stampa
Sono evasi minacciando le guardie con un coltello e una pistola falsa – La clamorosa fuga a quattro dal carcere di Fossombrone – La prigione ospita 200 detenuti (“tutti pericolosi”, dice il direttore), vigilati da 60 agenti – L’evasione preparata fra grande criminalità ed eversione “politica”: del gruppo fa parte anche un brigatista – Premiati gli agenti che hanno bloccato Maraschi, luogotenente di Curcio
(Dal nostro inviato speciale) Pesaro. 6 gennaio. Il collegamento operativo tra grande criminalità ed eversione «politica» è confermato nell’evasione di Fossombrone: il bresciano Ermes Zanetti, il romano Antonio Paoloni e Paulo Olfredi, di Busto Arsizio, sono gli esponenti di un banditismo deciso ma lontano dalla politica; il torinese Antonio Marocco, di 23 anni, ha nel fascicolo un’accusa diversa: la partecipazione a bande armate, e i terminali della Criminalpol di Roma lo segnalano come brigatista.
I due ‘politici’ bloccati e il compagno bandito
Ma il legame tra malavita spietata e detenzione «politica» si fa più evidente tra chi non è riuscito nella fuga: Massimo Maraschi è accreditato come luogotenente di Renato Curcio e Claudio Vicinelli è uno dei responsabili, ad Argelato, dell’uccisione del brigadiere Lombardini. Con loro avrebbe dovuto lassciare la casa di pena marchigiana un killer del clan dei marsigliesi, Laudovino De Santis, imputato della morte dell’agente Marchisella per la rapina di piazza dei Caprettari a Roma. Maraschi e Vicinelli sono stati bloccati dagli agenti di custodia. Laudovino De Santis era stato trasferito appena dodici ore prima nel carcere di Viterbo. Con lui erano stati allontanati altri due pericolosi elementi: Giuseppe Magliolo e Antonio Mancini. «Qualcosa non andava — dice il direttore del carcere — e proprio ieri si è provveduto a dividere il gruppetto».
Una raffica di mitra per fermare i fuggitivi
La casa di pena non è distante dall’abitato. Sul camminamenti del muraglione che la cinge per un perimetro di un migliaio di metri, s’intravedono due agenti di custodia. Hanno il mitra in spalla, sono gli stessi che ieri dopo le 19.20, ricevuto l’allarme, hanno fatto fuoco: due, tre sventagliate e proiettili lanciati nell’oscurità, senza un obiettivo, per impaurire. Poi, assicurano in paese, tutto è tornato ala normalità: soltanto qualche auto, alcuni funzionari di polizia, altri ufficiali dei carabinieri e quattro cani sguinzagliati nei campi fradici di pioggia attorno al carcere.
Stamane si era già alla routine. Nessun posto di blocco sull’autostrada Adriatica che collega Rimini e Ancona al nodo bolognese: nessun «alt» sulla statale che conduce ad Arezzo e a Roma passando per l’interno. Soltanto gli agenti di custodia, indaffarati in portineria e negli uffici, ma «come sempre, perché — spiegano — qui l’emergenza c’è ogni giorno: siamo in sessanta per duecento reclusi, tutti pericolosi, tutti decisi ». Ad aprire 11 portone c’è Domenico Fabbri. Ieri sera gli è stato puntato un coltello alla gola. Un’arma rudimentale ma molto affilata: il manico di un mestolo appuntito e molato con cura, il tessuto della camicia, sgranato nei fili del colletto, testimonia la violenza della pressione.
Un premio per chi ha fermato il brigatista
II ministro annuncia, con l’inchiesta amministrativa che già prende il via, l’ipotesi di una promozione per meriti speciali per gli otto agenti. Sono ancora tutti in caserma. In servizio c’è Stefano Carboni, che ha avuto un polso fratturato, e c’è Luigi Telese, che si è opposto a Massimo Maraschi. Non ha avuto paura: «Renato Curcio è fuori, mi aspetta», gli ha detto Maraschi per guadagnare la fuga. Lui è riuscito però a dar tempo ai colleghi di serrare i due grandi cancelli che isolano la portineria. Domenico Fabbri non vuole parlare. E’ un abruzzese silenzioso, preoccupato soltanto delle due chiavi che gli evasi hanno portato via.
Solo un coltello, nessuna pistola
La casa di pena di Fossombrone è alla sua prima evasione clamorosa. Mai. in passato, era accaduto ma c’è tra gli agenti chi dice che tutto era prevedibile. «Troppa libertà, troppi permessi speciali », dicono i più anziani, che vorrebbero metodi decisi. Fossombrone è di nuovo nella routine. Soltanto il dibattito si fa più acceso tra quanti sono chiamati a gestire gli istituti di pena. L’indagine non appassiona. Arriva la notizia che l’auto usata dagli evasi, che era una fiat 127 di Roma, era stata , presa in affitto in un’auto scuola della capitale. A bordo, i carabinieri hanno tro vato un coltello ricavato da un cucchiaio e la carta d’identità di un agente, Antonio Di Meola.
Uno dei quattro, prima di allontanarsi, gli aveva chiesto la giacca e il berretto. Di Meola non ha potuto dire di no: una pistola lo minacciava. « Ma forse — dicono i colleghi — era soltanto una rivoltella di mollica di pane ». Si tenta un inventario delle armi: nessuna rivoltella. Anche Domenico Fabbri, il portinaio, ne sembra convinto: «Sul coltello non ho dubbi — dice —, me lo hanno puntato alla gola. Ma per la pistola non so. Probabilmente era finta». E’ una testimonianza d’impotenza, una conferma di quanto sia semplice lasciare un carcere. In serata si è appreso che a Massimo Maraschi lo hanno ricoverato d’urgenza nel reparto neurochirurgico dell’ospedale regionale di Ancona. I medici non hanno ancora stilato il referto.
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