29 marzo 1973: i fazzoletti rossi occupano la Fiat di Mirafiori

Il 1973 segna una svolta importante nella storia del movimento proletario in Italia, e anche nella configurazione organizzativa della sinistra rivoluzionaria.L’evento centrale fu senza dubbio la conclusione drammatica della vertenza contrattuale, con l’occupazione della Fiat Mirafiori, che segnò l’episodio culminante dell’intero ciclo di lotte autonome iniziato nel ’68. Gli anni precedenti, 1971 e 1972, erano stati caratterizzati da una crisi dei gruppi della sinistra extraparlamentare e da un riflusso delle lotte di fabbrica, mentre, parallelamente, emergevano gruppi sociali attivi nel territorio metropolitano delle grandi città, e il baricentro del movimento andava spostandosi dalla dimensione di fabbrica a quella dell’appropriazione sociale. Proprio in questo passaggio l’occupazione della Fiat segna un momento di congiunzione essenziale. Inoltre, l’occupazione di Mirafiori determina il collasso della funzione svolta dai gruppi rivoluzionari, svuotando la loro funzione d’avanguardia.

Nella sequenza fotografica le prime pagine, il 30 marzo 1973, della Stampa, di Lotta Continua e dell’Unità. di cui pubblico anche pagina 4. Fantastico l’understatemente dell’organo del Pci: ammirevole organizzazione ….

La lotta alla Fiat

Nel mese di marzo, a Torino, si creano le condizioni per dare la spallata finale alle resistenze padronali alla conclusione dell’accordo; la piattaforma sindacale chiedeva inquadramento unico, parità di trattamento per quanto riguarda le ferie, settimana di 40 ore su cinque giorni (sabato libero), riduzione delle ore straordinarie obbligatorie. In marzo andava delineandosi un accordo insoddisfacente, e il sindacato era sottoposto ad una intensa critica operaia.

Gli operai della Fiat iniziarono forme di lotta autonome, fino a giungere, a metà del mese, a lanciare uno sciopero a oltranza che in poco tempo si generalizzò a tutte le officine di Mirafiori, e anche ad altre sezioni. Quotidianamente i cortei interni spazzolavano le officine ma, nonostante questo, il 27 circolò la voce di un accordo inadeguato al numero di ore di sciopero (oltre 170) già spese dagli operai.

L’occupazione

La mattina del 29 i gruppi rivoluzionari – in particolare Lotta continua e Potere operaio – si presentarono alle porte con dei volantini che rilanciavano lo sciopero a oltranza. Ma quando gli operai entrarono, quella mattina, il clima era più pesante del previsto. E, poco dopo l’entrata del turno cominciarono ad arrivare fuori le notizie sul fatto che dentro si stava decidendo l’occupazione. Più tardi, mentre “La Stampa” annunciava che era stato fatto l’accordo, gli operai venivano fuori a piantare le bandiere rosse sui cancelli.

Le forme organizzative dell’occupazione rimasero per tutti misteriose, forse per gli stessi operai.Ma certamente là dentro stava accadendo una cosa molto importante: la nuova composizione sociale degli operai portava dentro la fabbrica modelli di comportamento che più nulla avevano a che fare con la tradizione del movimento comunista. Questi modelli di comportamento prendevano origine nella vita quotidiana dei proletari di nuova immissione. Non più emigrati meridionali privi di radicamento nella metropoli, ma giovani torinesi e piemontesi scolarizzati, e formatisi nel clima delle lotte studentesche e delle esperienze aggregative di quartiere.

I giovani operai contro il lavoro

L’occupazione di Mirafiori costituisce la prima manifestazione del proletariato giovanile in liberazione, che costituirà il reticolo sociale portante delle lotte degli anni seguenti, fino all’esplosione del 1977. Nell’esperienza dell’occupazione di Mirafiori emerse la radicalità di un rifiuto consapevole della prestazione lavorativa. Il rifiuto del lavoro si era fatto movimento consapevole, ma non poteva costituire il suo sistema organizzativo all’interno della fabbrica.

Nei giorni dell’occupazione Mirafiori era come una cittadella inespugnabile, e lo stato si guardò bene dall’intervenire in qualsiasi modo. Però quella cittadella era tutt’a un tratto inutile. Il padrone era piegato, gli operai avevano ribadito la loro estraneità a qualsiasi accordo, pur imponendo un sostanziale passo in avanti su questioni fondamentali dell’egualitarismo (ferie, inquadramento, riduzione degli straordinari). Però il problema si spostava ad un ambito più ampio. Il movimento doveva esprimere un’altra direzione e nuovi orizzonti.

Lo scenario della crisi

Le prime avvisaglie della crisi, accelerata poi dal rincaro del petrolio, portavano sulla scena nuovi attori: inflazione, disoccupazione, marginalizzazione di interi settori, espansione del circuito del lavoro nero: questi erano gli aspetti di un processo di metropolizzazione che andava disegnandosi.Le urla senza senso, senza più slogan, senza più minacce né promesse dei giovani operai con il fazzoletto rosso legato intorno alla fronte, i primi indiani metropolitani, quelle urla annunciavano che una nuova stagione si apriva per il movimento rivoluzionario in Italia. Una fase senza ideologie progressiste né fiducia nel socialismo, senza alcuna affezione per il sistema democratico, ma anche senza rispetto per i miti della rivoluzione proletaria, mostrava le sue prospettive.

Fu in questo mutamento di scenario che prese forma il nuovo fenomeno politico-culturale dell’autonomia operaia.

Potere Operaio: occupazione armata

Fin qui “L’orda d’oro”, il livre de chevet del Settantasette, curato da Primo Moroni e Nanni Balestrini. Per gli esiti immediati della lotta ci soccorre il blog di Salvatore Ricciardi, Maelstrom, che riprende l’editoriale di Potere operaio che annuncia la scissione negriana:

«Il 29- marzo a Mirafiori, Rivalta, in tutte le sezioni Fiat lo sciopero a oltranza si trasforma in occupazione armata. È in questa forma che agli operai si rivela l’effettualità di un esercizio diretto del potere contro l’insieme delle condizioni repressive messe in atto da padroni e sindacati dal settembre ’69 a oggi. Il partito di Mirafiori si forma per mostrare l’impossibilità capitalistica di uso degli strumenti di repressione e di ristrutturazione».

Gli esiti dell’occupazione

«Dopo cinque mesi di lotta per il rinnovo del contratto, e quasi duecento ore di sciopero, giovedì 29 marzo 1973 alla Fiat Mirafiori di Torino il primo turno aderiva alla nuova astensione dal lavoro proclamata dai sindacati. Circa 10.000 operai formavano un corteo interno, poi si dividevano in diversi gruppi che bloccavano i 12 cancelli d’ingresso nello stabilimento esponendo bandiere rosse, striscioni, cartelli. Aveva inizio l’occupazione di Mirafiori che, all’epoca, raccoglieva tutti i giorni circa 60.000 dipendenti. Una vera e propria città nella città, con enormi officine e chilometri di recinzione. Il blocco della produzione e i picchetti ai cancelli continuavano venerdì 30 marzo e proseguiva lunedì primo aprile. La lotta si estendeva ad altri stabilimenti cittadini e nella provincia. Il protagonismo di massa e l’organizzazione basata sui delegati eletti dagli operai nei reparti erano il nerbo e la direzione del movimento.

Diego Novelli su «L’Unità» del 3 aprile riferiva dell’alto grado di maturità e intelligenza raggiunto dal movimento, della forza dei nuovi strumenti rappresentativi di base (delegati e consigli) che consentiva una rapida crescita del livello politico. Nella tarda serata di lunedì la Flm e la Federmeccanica raggiungevano un accordo. I punti salienti erano: abolizione delle categorie e delle qualifiche mediante l’inquadramento unico; aumento salariale di 16.000 lire al mese uguale per tutti; riduzione dell’orario di lavoro settimanale a 39 ore mediante la concessione di una giornata di riposo ogni otto settimane lavorative; una settimana in più di ferie; riconoscimento del diritto allo studio mediante l’ottenimento delle 150 ore retribuite».
[Diego Giachetti, L’occupazioni di Mirafiori, in: «Carta», 22 maggio 2003].

Il miglior accordo della storia operaia

Era il 9 aprile e la Fiat era stata convinta ad abbandonare la propria arroganza, i sindacati la subalternità. La forza operaia si era imposta!

Dopo l’occupazione di Mirafiori la classe operaia italiana ottenne l’accordo più alto della sua storia. Per la prima volta, in ambito capitalistico, si abolivano le categorie a solo due e si scendeva sotto le 40 ore settimanali. Questo risultato trascinò l’accordo del ’75 sul «punto unico di contingenza» e l’ampliamento della gamma degli automatismi salariali (passaggi automatici di categoria ecc.). L’accordo sul punto unico di contingenza produsse effetti a cascata: da un lato fu un potente fattore di restringimento del ventaglio retributivo, dall’altro finì per assorbire quasi per intero la dinamica salariale.

I padroni avevano aperto la borsa oltre le previsioni. Quello era l’unico modo, per i padroni, di cercare di mantenere nell’ambito della dinamica sindacale uno scontro di classe che si andava caratterizzando come scontro complessivo di potere. Avevano visto giusto i «fazzoletti rossi» non accettando quell’accordo. Il problema non era più in fabbrica, non era più nel salario. Sganciare i soldi, per i padroni è possibile, possono recuperarli tempo dopo, ma perdere il potere è una strada senza ritorno.

Ma per quel livello alto di scontro di classe il movimento non era adeguato, non era pronto, eravamo tutti in ritardo. Lo scontro si frantumò. Ci voleva una idea-forza, una prospettiva concreta e unificante per ricomporre il tessuto di classe che si andava sgretolando, non produzioni organizzative.

Un passo indietro

Nello stesso post Salvatore Ricciardi ricostruisce i mesi precedenti di lotta, che concorrono a detrminare in modo significativo il salto di qualità nella lotta operaia:

Autunno 1972, contratti dei metalmeccanici. La Federmeccanica, con l’appoggio del governo Andreotti, punta sulla regolamentazione del diritto di sciopero, piena utilizzazione degli impianti e controllo fiscale dell’assenteismo. Alla Fiat, un corteo interno di impiegati si unisce a quello degli operai, scatta la rappresaglia: cinque lettere di licenziamento a operai e impiegati individuati grazie alla rete spionistica interna.

Il 17 novembre 1973 il vicecomandante dei guardioni si scaglia con l’automobile contro un picchetto: la polizia arresta due operai colpevoli di aver accennato una reazione. Altri quattro compagni ricevono lettere di licenziamento. Il 25 novembre, la sinistra extraparlamentare organizza una manifestazione a Torino, «contro le 600 denunce, contro il governo Andreotti, contro il fascismo». Polizia e carabinieri la reprimono violentemente. 26 novembre, le Br incendiano quasi contemporaneamente nove automobili di altrettanti fascisti scelti tra quelli che operavano in fabbrica al servizio dei guardioni di Agnelli.

Le spazzolate, le 800 denunce, i 5 licenziamenti

Tre giorni dopo gli incendi, nel corso di uno sciopero, un corteo interno di 4.000 lavoratori percorre con le bandiere rosse tutti i reparti spazzando crumiri e fascisti. Il capofficina del montaggio, considerato responsabile di un licenziamento, viene scacciato dalla fabbrica, insieme a un altro capetto, con al collo una bandiera rossa. Col passare dei giorni i cortei interni, divenuti oramai una pratica usuale, cominciano a porsi come momento di potere proletario in fabbrica. Il 9 dicembre 1972 la questura di Torino presenta denunce contro 800 lavoratori. Molti sono operai accusati di «sequestro di persona con l’aggravante di aver compiuto il reato in più di cinque».

Agnelli licenzia cinque compagni. Fiat e Flm firmano un comunicato congiunto, il cosiddetto «verbale di intesa», presto ribattezzato dagli operai «verbale di resa»: «Le parti si sono date atto di reciproca volontà di evitare ogni forma di degenerazione della vertenza aperta per il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici, e di non introdurre in un conflitto di questo rilievo elementi di drammatizzazione che farebbero sorgere nuovi ostacoli al raggiungimento d’una intesa […]. L’azione sindacale esclude ogni forma di violenza». Un delegato viene arrestato con l’accusa di aver favorito la fuga di un’operaia rincorsa dai celerini.

Le sospensioni contro lo sciopero

Il 22 gennaio la direzione invia cinque preavvisi di licenziamento. Lo stesso giorno, alla Lancia, i celerini sfondano i picchetti sparando sugli operai: quattro feriti. Come rappresaglia a uno sciopero di 185.000 lavoratori, la Fiat il 2 febbraio 1973 sospende 5.000 operai. La risposta è un corteo interno di 20.000 operai che a Mirafiori spazza crumiri e fascisti. Fioccano i licenziamenti con le motivazioni più banali e provocatorie del tipo, per esempio, per aver disturbato il lavoro. Il 9 febbraio a Roma la più grande manifestazione operaia dà la misura della contraddizione tra la combattività delle masse e l’incapacità della direzione sindacale. Non si è ancora spenta l’eco della manifestazione di Roma, che a Torino il 12 febbraio 1973 alle ore 9,30 un nucleo delle Br sequestra Bruno Labate, segretario provinciale della Cisnal.

Le confessioni di Labate

Il fascista messo alle strette rivelò alcune connessioni politiche tra la Cisnal e la direzione Fiat e tra questa e diverse agenzie private di investigazione. Sulla scorta di tali indicazioni fu agevole, sia all’avanguardia di fabbrica, sia ai collegamenti territoriali, riattivare politicamente – in funzione della lotta – il discorso sullo spionaggio Fiat. A due anni di distanza lo spettro delle schedature, della sorveglianza, della selezione, si reincarnava ufficialmente nella ignobile proliferazione di centrali fasciste, di assunzione e di controllo, protette e nutrite da notabili Fiat, devoti agli Agnelli. Dunque molte anime, forse, ma un solo corpo sempre teso alla prevenzione terroristica e alla rappresaglia esemplare.

Da «Il Giornale dei capi» edito dalla Fiat, con diffusione interna per i soli capi, n. 2, febbraio 1973:

Si fornisce un bilancio globale delle gravi conseguenze che le violenze hanno avuto: – feriti e contusi un centinaio […] – le macchine dei dipendenti danneggiate in novembre, dicembre e gennaio sono state 800 – danni alle strutture delle officine e degli uffici (cancelli di separazione […], porte sfondate, arredi di ufficio danneggiati, incendio di un ufficio sindacale…) […]. Chi compie questi atti tenta di sfuggire all’individuazione, e il più delle volte ci riesce nascondendosi nella massa: i bulloni lanciati dai cortei, le aggressioni collettive a persone e a cose offrono possibilità di impunità quasi certa“.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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