18.9.81: l’omicidio Rucci chiude la lotta a San Vittore

omicidio Rucci

Il 18 settembre 1981 poco prima delle ore 8, mentre si recava in macchina per raggiungere la Casa circondariale di Milano San Vittore dove prestava servizio al primo raggio, il Brigadiere Francesco Rucci rimase vittima di un attentato rivendicato da “Nuclei comunisti”, un nucleo riconducibile a “Prima Linea”. (…) L’attentato fu collegato al clima di tensione allora esistente nell’istituto penitenziario milanese.

La validità della pista seguita venne confermata anche da un volantino nel quale si diceva che il brigadiere era stato “giustiziato” per l’attività «al primo raggio di San Vittore … braccio famigerato per le torture a cui i boia costringono le avanguardie comuniste prigioniere». Il primo raggio di “massima sicurezza” di San Vittore era utilizzato durante lo svolgimento dei processi per tenere i detenuti provenienti dalle carceri speciali.

A bordo della sua Fiat 128 il sottufficiale ha percorso Via Merula, dove abitava, fino all’incrocio con via Ludovico il Moro. Un’Alfetta azzurra lo ha stretto sulla destra costringendolo a fermarsi. Forse tre gli assassini. Uno è rimasto in macchina, gli altri due sono scesi per sparare. I primi colpi sono giunti dalla parte del guidatore, ma non sono andati a bersaglio. Francesco Rucci ha trovato una via di fuga dall’altro lato dell’auto, ma ad attenderlo c’era l’altro terrorista che lo ha raggiunto.

Sette colpi al torace e al volto

Il Poliziotto cadde a terra subito, ma i terroristi gli spararono ancora sette colpi in tutto al torace, ma anche al volto. Non volevano solo uccidere ma anche infierire sul cadavere. Francesco Rucci ha lasciato sua moglie conosciuta proprio nel carcere di San Vittore dove lavorava come assistente sociale nel settore dei detenuti tossicodipendenti. La moglie era in attesa del primo figlio per la metà di ottobre.

Il Brigadiere era in una lista ritrovata nel parlatorio del carcere contenente quattro Brigadieri e tre Guardie degli Agenti di Custodia da eliminare. Rucci aveva fatto richiesta di essere trasferito lontano da Milano ma era stato trasferito a Bergamo. Era ritornato in servizio a Milano proprio per stare più vicino alla moglie perché tanto stare a Bergamo o Milano “è lo stesso” aveva detto.

Così il sito della polizia penitenziaria ricostruisce l’omicidio del brigadiere Rucci da parte del gruppo di fuoriusciti di Prima linea che faceva capo a Sergio Segio e Diego Forastieri, decisi a proseguire la lotta armata con un occhio di riguardo ai temi della prigionia. E in effetti la scelta dell’omicidio interveniva in maniera pesante sulla realtà di San Vittore, dove da mesi era in corso una “lotta sulla socialità” dai risultati sorprendenti e che finì ovviamente schiacciata dalla rappresaglia innescata dall’agguato. Ce la racconta uno dei protagonisti, Paolo Margini, in un lungo racconto, di cui ho tagliato il finale

Una lunga estate di lotta

Nel 1981, nel carcere milanese di San Vittore ci fu la lunghissima primavera estate di lotta in cui progressivamente in tutti i raggi saltarono le regole di chiusura: celle aperte 24 ore, ai colloqui la gente scavalcava normalmente il bancone per stare tutta l’ora abbracciata coi propri cari, dai raggi i detenuti scendevano in rotonda con la coperta in spalla, a mo’ di sacco a pelo, e si facevano aprire i cancelli dalle guardie dicendo: “Stanotte dormo al terzo!”, e via così.

Erano saltate le “conte”, che avvengono più volte al giorno e sono il metodo pratico con cui il carcere controlla che nessuno sia sparito, ovvero evaso. Non potendosi più effettuare tale conteggio, la speranza della direzione del carcere era che almeno il muro di cinta e il portone d’ingresso tenessero duro. In quell’epoca a San Vittore fiorì, oltre alla libertà di movimento, oltre all’intersecarsi delle relazioni, oltre ai momenti di solidarietà, di disubbidienza, di lotta, di appropriazione, anche l’arte e il culto del bello.

A caccia di arredo per le celle

Ogni cella faceva a gara a essere la più fornita di nuovo arredamento, prelevato negli uffici dell’apparato di controllo: direzione, studi medici, sala riunioni cui si aveva ormai legittimo e continuo accesso, per cui c’era chi aveva in cella la poltroncina, chi la sedia girevole, i quadri, i vasi, nella nostra un cavalletto professionale da pittore.

In un camerone erano riusciti a far entrare un tavolo da riunione così grande che o ci stava lui o i quattro o cinque coincellini, ma chi se fregava, tanto la cella era ormai solo per dormire, perché era tutto un continuo viavai ogni giorno tra tutti i raggi a scambiarsi visite, al punto che per avere un momento di intimità o per guardare alla tv un programma in santa pace, erano gli stessi detenuti a chiudere il proprio cancello e talvolta financo il blindo “per non essere rotti i coglioni”.

La produzione industriale di alcol

La produzione interna alcolica e illegale di grappa era passata dalla fase artigianale in cella, con il coperchio sigillato alla pentola con impasto di farina secco e la storta ricavata dalla piegatura dell’antenna della tv, alla produzione industriale, con vari ex bidoni da pattumiera posizionati in serie, collegati con tubi da giardinaggio reperiti in varie incursioni, cui confluivano tutta la frutta, tutti i fruttini della distribuzione quotidiana, le marmellate, lo zucchero e anche parte del vino quotidiano.

Ognuno aveva ogni giorno la scelta tra acquistare mezzo litro di vino rosso o tre lattine di birra da 0.33, e in tempi normali erano in vigore gli accordi di scambio tra detenuti astemi, rari e preziosi, e alcolisti, che erano la larga maggioranza, quindi si pensi al sacrificio del proprio vino per avere in cambio grappa, il cui effetto, a detta del pensiero generale, era comunque maggiormente apprezzato. Quando in agosto ottenemmo per tutto il mese la doppia razione, ognuno, pur cedendo il vino alla causa comune, disponeva comunque di tre birre nella giornata.

Uno scontro tra due visioni strategiche

Una narrazione completa di quella folle stagione, con tutti gli episodi e gli aneddoti, vale almeno un libro, che pone però il problema di descrivere anche come tutto finì, a causa della divergenza tra chi voleva continuare nel modo più duro la lotta armata sia fuori che dentro il carcere e chi, come me e ormai molti altri, aveva già da tempo compreso che tale lotta non aveva futuro, e sarebbe stata meglio una ritirata strategica comune piuttosto che soccombere al pentitismo

Per capirsi, tra compagni che ancor oggi si rivedono e si abbracciano, la divisione era tale da comportare minacce di morte non verbali, ma all’atto pratico realistiche e in alcuni casi effettivamente portate a termine, il che non è esattamente lo stesso che quando in una lite fra amici ci si offende a vicenda o non ci si parla più.

Dal nostro raggio a tutto il carcere

Quella lunga rivolta del 1981, cominciata in sordina verso marzo al secondo raggio, sede di noi detenuti politici, e poi allargata tumultuosamente a tutti e sei raggi maschili e al femminile, aveva prodotto anche ampi rapporti politici e sociali con i compagni fuori, ma non solo. I giornali riportavano le notizie.

I magistrati accorrevano perché da noi chiamati a rispondere sui diritti del detenuto, fino al punto che tre di loro, specifici delle nostre inchieste, dovettero venire a convegno nella nostra sezione politici: Eravamo almeno sessanta, suddivisi, per garanzia dei magistrati, in tre sole celle, mentre in una cella di fronte, come fossimo a teatro, c’erano i tre magistrati assieme a una delegazione di cinque di noi, e qualche guardia.

Una tragedia sfiorata

Le richieste vertevano fra l’altro, sulla concessione di colloqui, oltre che con i legittimi parenti, anche con conviventi e amici, e li ottenemmo, oltretutto non “una tantum” ma permanenti. Invece, in un altro momento di quel tempo, c’era stata una crisi grave. La direzione aveva ritenuto che la nostra sezione politica fosse in rivolta e che avessimo sequestrato le guardie. Al piano sotto al nostro c’era già un’intera compagnia di carabinieri in assetto di guerra pronto a irrompere nella nostra sezione, e sarebbe stato un macello.

Fortunatamente, fra tutti i personaggi della politica, un unico deputato, democristiano, Alberto Garocchio, osò entrare da solo, senza protezione, a parlare in mezzo a noi che eravamo tutti nel cortile dell’aria, e poi uscendo poté chiarire che il sequestro delle guardie era una bufala. Ciò confermato dalle guardie stesse, che dissero di essere rimaste al proprio posto di lavoro e di presidio oltre l’orario perché non era venuto nessuno a dar loro il cambio. Questa la forza, l’impatto collettivo sulla società.

L’impatto dell’omicidio Rucci

In seguito avevamo già concordato con la procura di incontrare verso metà settembre, il procuratore capo di Milano Mauro Gresti, sui temi della detenzione e della scadenza dei termini per la carcerazione preventiva, ma una settimana prima, all’esterno, un gruppo di irriducibili, o giapponesi come li chiamavamo, uccise uno dei capi delle guardie di San Vittore, uomo peraltro di trista fama; ma il vero motivo dell’omicidio, come poi gli autori scrissero nel volantino, era di sostenere che la lotta si fa in quel modo e non con le “tendine rosa” per le quali noi stessi venivamo accusati.

La trasmissione a Radio Popolare

Cosa c’entra ciò con l’arte, cui è intitolato questo scritto? L’arte ci aveva aiutato molto, in quei mesi di libertà nel carcere, esperienza così duratura che mai si è vista simile in alcuna altra parte al mondo. Avevamo scritto, cantato, dipinto, recitato, inventato, riarredato le celle e affrescato i muri al punto che avrebbe potuto farci un servizio una rivista tipo Casa Viva; avevamo un’emittente radio “interna” che ogni giorno alle 12 faceva una trasmissione, Radio Due Tre, curata da me personalmente, con tutte le notizie del giorno, e pure musica. Chi ci mandava in onda era Radio Popolare, che riceveva ogni dì per tempo i testi dei comunicati, dattiloscritti in più copie carbone poi contrabbandate ai colloqui tramite la rete dei parenti e recapitati alla radio, dove venivano letti come se la trasmissione fosse fatta direttamente dal carcere.

Una perquisizione ridicola

Oltre al vasto pubblico, le stesse guardie ascoltavano puntualmente la trasmissione con attenzione, perché era per loro quasi l’unico modo di sapere cosa succedesse nel carcere. Raggiunsero poi il vertice del ridicolo quando un mattino presto, giunti in sezione in massa, fecero la più accurata perquisizione alla ricerca degli apparati di trasmissione, cioè microfoni e antenne!

E in quell’occasione manco trovarono la macchina fotografica che serviva per scattarci delle foto non già a fini eversivi o di evasione, ma solo per far uscire dei rullini con delle belle istantanee singole o di gruppo. Questo è arte. L’arte finì con l’uccisione già descritta.

La rappresaglia scatta di notte

Passammo tre notti a sentire le urla delle guardie: “Vi uccideremo tutti!”, mentre noi eravamo i topi in gabbia. Poi, dopo il funerale, vennero in forze quando era ancora notte, e portarono via centotrenta tra noi e gli altri raggi, riempiendoci di mazzate fino in rotonda, dove erano schierate le nuove reclute per far loro vedere come si fa, e poi di nuovo mazzate giù nelle segrete, fino alla consegna, per il trasferimento, ai carabinieri, che per fortuna non parteciparono al macello.

Quelli rimasti vissero nel terrore per un bel po’ girando imbottiti di giornali sotto i vestiti in funzione anti manganello.Noi trasferiti fummo tutti spediti al sud, ciascuno in un carcere diverso. Io finii a Catanzaro e vi stetti tre mesi, tenuto sempre in isolamento per la pericolosità: nonostante la solidarietà delle altre celle che mi mandavano viveri e complimenti, non potei mai fare l’aria con gli altri detenuti.

Dopo due o tre settimane mi riuscì di camminare normalmente e non sentire più dolori nelle parti del corpo. Avevo la macchina Olivetti e cominciai appunto a scrivere su argomenti lievi: dapprima due parodie scientifiche, “Non disturbare l’equino che dorme” e “La dinamica delle briciole nel letto”, facendo poi seguire una parodia teatrale in endecasillabi e settenari aulici sul secondo lancio dello Space Shuttle che aveva subito dei guai in orbita, da me amplificati già nel titolo: “La Precipitazione Dello Sciuttelio”. In questi modi l’arte volava sopra le disgrazie e soccorreva la mia solitudine. (…)

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.