Ascesa e caduta di Franco Giuseppucci, l’unico capo della Magliana

Il sequestro

A Roma, «don Massimiliano» era l’ottavo ostaggio preso dall’inizio dell’anno, ma la banda che l’aveva portato via la sera del 7 novembre non era composta da «professionisti». Idea il sequestro un certo Franco Giuseppucci, trentenne segnalato più volte dalla polizia per rapine e detenzione di armi. A quel tempo i suoi amici di Trastevere, di Testaccio e della Magliana gli avevano già cambiato soprannome: prima era «il fornaretto», poi era diventato «er negro» a causa del colorito scuro della pelle.

Oltre a compiere rapine e a commerciare armi, Giuseppucci faceva il «buttafuori» in una sala corse dalle parti di Ostia, gestita da un certo Enrico, uno che frequentava i giovani fascisti figli della Roma bene, i «pariolini» con capelli corti e scarpe a punta, giacconi paramilitari e passione sfrenata per le armi. Attraverso il giro dei possessori di macchine fuoristrada, ancora ristretto nel 1977, Enrico aveva conosciuto ed era diventato amico di Giulio Grazioli, figlio del duca Massimiliano. Le informazioni necessarie per il sequestro, dalle abitudini del futuro ostaggio alle sue possibilità economiche, venivano proprio da lì.

Il racconto di Abbatino

Uno della banda messa insieme da Giuseppucci, Maurizio Abbatino, all’epoca ventitreenne, racconterà ai giudici: «Si trattava di un salto di qualità rispetto alle rapine che sino a quel momento costituivano la nostra principale attività. Ovviamente un sequestro di persona richiedeva una maggiore organizzazione sia logistica che di impegno personale. Pertanto, mentre iniziavano i pedinamenti del sequestrando, prendemmo anche contatto, da un lato, con Giorgio Paradisi, il quale conosceva il Giuseppucci a ragione della comune passione per i cavalli e frequentazione di ippodromi, sale corse e bische, nonché con altra persona che faceva il ricettatore, conosciuta da Paradisi; dall’altro lato con una banda di Montespaccato, della quale ricordo facevano parte Antonio Montegrande, siciliano, Stefano Tobia, tale Angelo detto anche “faccia d’angelo” e un cognato di quest’ultimo».

Tra queste persone, la divisione dei compiti era precisa. Continua Abbatino: «Io, Giuseppucci, Piconi, Castelletti, Danesi, Enzo Mastropietro, Paradisi e “Bobo” dovevamo curare e curammo le fasi preparatorie del sequestro, nel corso delle quali si unì a noi anche Marcello Colafigli, conosciuto dal Giuseppucci, che procurò il cloroformio utilizzato per il rapimento. Il ricettatore amico di Paradisi doveva tenere, come in effetti tenne, i contatti con la famiglia del Grazioli. Quelli di Montespaccato dovevano custodire, come in effetti fecero, per qualche tempo l’ostaggio».

La nascita della banda

Promotore delle iniziative e anima della banda che stava nascendo era Franco Giuseppucci, «er negro» che da tempo si muoveva tra rapinatori e ricettatori della capitale, uno che intimidiva solo a guardarlo, occhi e sopracciglia spioventi, collo taurino. La prima denuncia a suo carico risaliva al 1974, per detenzione e porto illegale di pistola.

Nel 1976 i carabinieri della compagnia Trastevere scoprirono una roulotte, appartenente a Giuseppucci e parcheggiata al Gianicolo, piena di armi. «Er negro» fu arrestato, ma dopo qualche settimana uscì di galera: la roulotte aveva un vetro rotto e Giuseppucci sostenne che delle armi che c’erano dentro lui non sapeva niente, evidentemente ce le aveva messe qualcun altro, forse la persona che aveva rotto il vetro. Fu creduto e scarcerato.

Un’altra storia di armi

Un’altra storia di armi, poco tempo dopo, mise in contatto «er negro» con Abbatino e gli altri della Magliana che più tardi avrebbero sequestrato il duca Grazioli. Giuseppucci «lavorava» con Enrico De Pedis, chiamato «Renatino», uno di Testaccio che era già stato in carcere diverse volte per rapina. Mentre De Pedis si trovava in galera «er negro» doveva custodirgli i «ferri del mestiere», e dopo la scoperta della roulotte al Gianicolo teneva un borsone con pistole, fucili e munizioni nel suo «Maggiolone» Volkswagen.

Un giorno si fermò al bar davanti al cinema Vittoria, a Testaccio, per bere qualcosa, e lasciò l’auto con le chiavi inserite. «Er negro» non era certo l’unico malvivente in giro per il quartiere, e un malavitoso della zona, «Paperino», non si fece sfuggire l’occasione: adocchiata la Volkswagen con le chiavi nel quadro, salì a bordo e si dileguò. Appena si accorse del bottino che c’era su quella macchina «Paperino» provò a combinare quello che certamente sarebbe stato un affare, arrivò al Trullo e vendette le armi a un rapinatore che conosceva, al prezzo di due milioni.

Giuseppucci non ci mise molto a sapere che fine aveva fatto la sua macchina, e il giorno stesso si presentò dal rapinatore che aveva comprato pistole e fucili per riaverli indietro. Il nome di Enrico De Pedis, conosciuto anche al Trullo, fece sì che tutto si risolvesse senza incidenti, e che il «negro» si unisse al gruppo del rapinatore. Le deposizioni di Maurizio Abbatino, a quel tempo frequentatore dei rapinatori della Magliana, del Trullo e del Portuense, raccontano come nacque il nuovo sodalizio criminale

Il racconto del “sorcio”

[Racconta Fulvio Lucioli che] «a Roma era già operante un gruppo comprendente tra gli altri Giuseppucci e Abbatino, con i quali Toscano e Selis erano in rapporti di amicizia. Favorita da questi rapporti, vi fu una fusione tra il gruppo di Acilia e quello di Roma; Toscano, detenuto a Rebibbia, ne parlò con Lucioli, proponendogli di aderire alla nuova organizzazione che si occupava prevalentemente di rapine e traffico di stupefacenti, e riferendogli che, oltre a lui stesso, ne facevano già parte Giuseppucci e Selis come capi, e poi Abbatino, Colafigli, Mancone, Piconi, Danesi, Castelletti, Paradisi e Mastropietro. Lucioli accettò la proposta di Toscano, e sino alla scarcerazione ricevette tra le duecento e le trecentomila lire alla settimana, che venivano consegnate a sua madre da Abbatino, Piconi e altri.»

La banda ormai s’era allargata, e aveva deciso di avere campo libero su Roma. In pochi anni nuovi criminali, tutti ragazzi tra i venti e i trent’anni, entravano in scena. Erano «i romani», pronti a soppiantare le organizzazioni venute da fuori, come per esempio quella dei Marsigliesi, e a scendere in guerra contro chiunque si mettesse tra loro e il guadagno, il controllo del territorio e degli «affari», dalla droga alla gestione delle bische e delle scommesse clandestine. Uno dei soppiantati, Albert Bergamelli, gangster della generazione precedente ucciso nel carcere di Ascoli Piceno nell’agosto dell’83, membro del leggendario «clan delle 3 B» insieme a Jacques Berenguer e Maffeo Bellicini, li aveva bollati fin dalla loro apparizione con un certo disprezzo: «Sono solo dei borgatari, gente che agisce senza alcuna razionalità, senza una mente direttiva».

La morte

Un sabato sera, il 13 settembre 1980, Franco Giuseppucci si presentò all’ospedale Nuovo Regina Margherita con una pallottola in corpo. Era solo, aveva guidato la Renault 5 per qualche centinaio di metri, dal luogo in cui gli avevano sparato fino al pronto soccorso. Alle 20.05 entrò in sala operatoria. «Ferita d’arma da fuoco del torace, lateralmente a sinistra», scrisse il chirurgo di guardia sul foglio dell’ospedale, con l’aggiunta di «prognosi riservata».

Il «negro» morì sotto i ferri mezz’ora più tardi. Addosso non aveva documenti, ma un milione e trecentomila lire in banconote, due milioni e mezzo in assegni, il Rolex d’oro, la catenina con la medaglietta, un anello con brillante e un mazzo di chiavi. Lo identificarono i poliziotti del commissariato Trastevere chiamati dagli infermieri. Franco Giuseppucci, infatti, aveva incontrato il suo assassino in una piazza di Trastevere.

L’ultimo slancio vitale

Era con qualche amico e il fratello Augusto − di sette anni più giovane e di mestiere fornaio, lo stesso che Franco aveva fatto un tempo e che gli era valso il soprannome di «fornaretto» prima che cominciassero a chiamarlo «negro» − nella sala biliardo del bar Castelletti, a piazza San Cosimato. Stavano giocando dal pomeriggio, e ormai s’era fatta sera quando Giuseppucci salutò la compagnia dicendo che doveva andare a Tor di Valle: voleva controllare come andavano le cose e fare qualche puntata. Uscì dal bar e raggiunse la Renault 5 di sua moglie; lui aveva una BMW, ma gliel’avevano sequestrata.

Girò la chiave nello sportello, l’aprì e s’infilò nell’abitacolo. Mentre stava accendendo il motore comparve un uomo sul marciapiede, dal lato sinistro della macchina: era giovane e magro, con i capelli biondi e lunghi che sembravano di una parrucca, un paio di occhiali scuri. Non si sa se Franco lo guardò in faccia mentre il ragazzo gli sparò il primo colpo fracassando il finestrino e colpendolo su un fianco; si sa invece che ebbe la prontezza di fare retromarcia, uscire dal parcheggio e partire a forte velocità.

Il killer non fece in tempo a esplodere il secondo colpo, corse a piedi nella stessa direzione in cui era andata la sua vittima, e arrivato alla fine della piazza salì su una moto Honda guidata dal suo complice. Provarono a inseguire la Renault 5 di Giuseppucci, ma quando questa si fermò davanti all’ospedale l’abbandonarono e proseguirono la loro fuga.

Gli amici “neri” del “negro”

L’esecuzione non era certo stata perfetta, ma il «negro» morì ugualmente, in sala operatoria anziché in strada. L’ispiratore della banda della Magliana, visto che non si poteva parlare di capi in quel piccolo esercito di criminali allergici a qualsiasi ordine, era stato fatto fuori. Aveva trentatré anni, l’ultimo compleanno l’aveva passato in galera, dov’era finito con l’accusa di ricettazione. A gennaio dell’80, infatti, gli avevano trovato dei travellers’ cheque rubati in una rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma compiuta da un commando di neofascisti.

Coi giovani terroristi neri Giuseppucci era in buoni rapporti, loro gli portavano i proventi di furti e rapine e lui glieli riciclava. Utilizzava quei ragazzi, di tanto in tanto, anche per fare qualche «lavoretto», l’avvertimento a qualcuno che non si decideva a pagare i debiti di gioco o gli interessi sui soldi prestati «a strozzo», oppure l’eliminazione di chi non voleva piegarsi alle leggi dell’estorsione. Del resto lui, Franco Giuseppucci detto «er negro», era e si dichiarava un fascista: a casa aveva dei dischi con le registrazioni dei discorsi di Mussolini, medaglie e gagliardetti con le effigi del Ventennio. «Tuttavia questa sua infatuazione», ricorderà Abbatino, che gli fu amico fino all’ultimo, «non ne condizionava minimamente l’azione, né lo conduceva a perdere di vista gli interessi e gli scopi della banda che erano tutt’altro che politici»

La vedova che non sa nulla

Interrogare la moglie di un pregiudicato morto ammazzato, il più delle volte, serve solo a togliersi un pensiero. Bisogna farlo e si fa, si comincia sempre dai parenti stretti della vittima, ma quasi mai se ne cava qualcosa di utile. Di solito dicono che il marito era una persona tranquilla, che pensava solo alla famiglia e al lavoro. Oppure che i rapporti erano talmente rarefatti che dell’attività del loro uomo non sanno niente. In entrambi i casi il risultato è lo stesso, e finisce per essere trascritto nelle ultime righe del verbale: «Non ho altro da aggiungere e non so chi possa aver ucciso mio marito, né chi aveva interesse a volerne la morte».

Successe anche con la moglie di Franco Giuseppucci, Patrizia, di dodici anni più giovane del marito e madre di Maurizio, un bambino che aveva due anni quando il «negro», suo padre, morì assassinato da un killer dai capelli biondi.

Patrizia fu avvisata con una telefonata alle nove e mezza di quel sabato sera, le dissero di andare subito all’ospedale Nuovo Regina Margherita perché Franco aveva avuto un incidente. Si fece accompagnare dalla madre e dal cognato e lì, riferì al poliziotto che l’interrogò un’ora più tardi negli uffici della Questura, «ho appreso che mio marito era morto, in quanto gli avevano sparato.» Per il resto, spiegò che con Franco aveva ormai molto poco in comune. Si vedevano di rado, lui rincasava sempre più tardi e addirittura «saltuariamente», una cosa che Patrizia non poteva più sopportare: litigavano quasi ogni volta si trovavano faccia a faccia. Da qualche mese s’erano trasferiti a vivere dalla madre di lei, sempre alla Magliana, e forse anche per questo lui in casa non voleva rimanere. Fatto sta che non ci rimaneva, e che cosa facesse fuori, lei, Patrizia, disse di non saperlo.

«Suo marito che lavoro faceva?» chiese il poliziotto. E Patrizia, innocentemente: «A quanto ne so lavorava presso il forno di suo padre». Il poliziotto insisté: «Ma come passava il tempo? Aveva degli amici? Chi erano? Si incontravano a casa vostra? Di che cosa parlavano?» Patrizia si tenne sul vago, chissà se per scelta o perché realmente non ne sapeva di più: «So che mio marito aveva molti amici, che io conosco soltanto di vista, non sono in grado di dire i nomi.

Da loro riceveva spesso telefonate, oppure venivano a citofonargli sotto casa». Davanti a lei Franco non aveva mai combinato affari né organizzato qualcosa di losco. «E delle corse di cavalli, delle scommesse all’ippodromo, non sa niente?» tentò ancora il poliziotto. «Mio marito era un frequentatore degli ippodromi della capitale», rispose telegrafica la signora Giuseppucci, ventun’anni, vedova da poco più di due ore, «presso i quali mi ha condotto alcune volte.».

Provando a scandagliare nella vita domestica andò appena un po’ meglio. Negli ultimi tre giorni − raccontò Patrizia − dopo l’ennesima lite, Franco era scomparso. Tornò a casa soltanto il venerdì sera, verso le nove e mezza. Cenò e andò a dormire. La mattina dopo uscì intorno alle dieci, e salutò la moglie dicendole che sarebbe passato a prenderla in serata, per portarla fuori. Invece le cose erano andate diversamente, e lei lo aveva rivisto cadavere all’ospedale.

Gli amici del biliardo fanno i vaghi

Anche coloro che erano stati con Giuseppucci al biliardo del bar Castelletti fino a pochi attimi prima che gli sparassero − tutti pregiudicati o con varie denunce a carico − non furono di grande aiuto con le loro testimonianze. Augusto, il fratello del «negro», disse che con Franco non si incontrava spesso, «mi risulta che era un assiduo frequentatore e giocatore alle corse dei cavalli e per questo motivo era solito portare molto denaro liquido con sé, ma ignoro quale era la sua vera attività perché lui non mi ha mai riferito alcunché circa le sue amicizie.»

Vide mentre gli sparavano, e riferì che dopo aver assistito all’agguato lui e i suoi tre amici montarono in macchina e si gettarono all’inseguimento della moto col killer a bordo, le tennero dietro per un tratto di strada, ma poi la persero nel traffico. Gli altri amici, invece, dissero cose diverse. Uno raccontò che dopo lo sparo a Franco, visti andar via sia la vittima che il sicario, il gruppo decise che «per non avere noie con la polizia» era meglio cambiare aria: salirono sulla BMW di Augusto Giuseppucci, si fecero un giretto e tornarono in piazza mezz’ora dopo; lì trovarono i carabinieri che li accompagnarono in caserma.

La testimonianza di Giorgio Paradisi

Un altro, Giorgio Paradisi, negò addirittura di aver visto sparare a Giuseppucci. «Eravamo sulla BMW di Augusto», disse al carabiniere che l’interrogava, «e ci stavamo facendo una passeggiata in macchina, siamo arrivati a piazza San Cosimato e voi ci avete fermato.»

«A noi risulta», lo interruppe l’ufficiale, «che tu e i tuoi amici eravate davanti al bar e avete visto sparare. È vero?»

«No, le cose stanno come le ho detto», rispose sicuro Paradisi, proveniente pure lui dalla Magliana. «Ci risulta che dopo il colpo d’arma da fuoco siete partiti dalla piazza a forte velocità, e siete tornati dopo mezz’ora», provò a incalzare il carabiniere. «No», ribatté quello impassibile, «ho già detto che ci siamo fatti un giro per Roma. Guidavo io, e durante la passeggiata ho accelerato l’andatura perché a me piace guidare veloce.»

«Conosci Franco Giuseppucci? Che rapporti c’erano tra voi?»

«Lo conosco da molti anni, abbiamo commesso alcuni reati insieme e sono stato anche arrestato con lui. L’ultima volta che l’ho visto è stata due giorni fa.» In Questura, saputo che il cadavere all’ospedale Nuovo Regina Margherita era di Franco Giuseppucci detto «er negro», decisero di cominciare le indagini dall’ippodromo di Tor di Valle. E verso le dieci e mezza di quel sabato sera ancora estivo il brigadiere di Pubblica Sicurezza Emilio Verrillo girava per le tribune e i bar in cerca di notizie sul morto e di indizi sugli assassini.

Fonte: Giovanni Bianconi, Ragazzi di malavita

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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