40 anni dopo, i falsi ricordi del generale Dozier
In occasione del quarantennale della sua liberazione, il generale Dozier ha deciso di sfornare le sue memorie. Ha ormai 90 anni e rivendica perfetta lucidità. Sarà anche così-Ma quello che emerge, in tutta evidenza, dall’intervista concessa alla Stampa è un forte grumo di falsi ricordi. L’ex ufficiale americano, infatti, parla di un tentativo di lavaggio del cervello da parte del brigatista Di Lenardo. L’unico che resisterà alle torture successive al blitz, a sua volta reso possibile dall’uso della tortura sui fiancheggiatori delle Br arrestati. L’unico che non si pentirà e sarà pure condannato per calunnia per aver detto la verità. In realtà, uno dei nodi del sequestro è che le Br non riuscirono a interrogare Dozier perché nessuno dei carcerieri parlava un inglese fluente. Resta quindi difficile credere che senza capirsi potessero tentare di lavargli il cervello… Un falso ricordo quindi o un lapsus, visto che i suoi liberatori usarono un altro tipo di lavaggio, il waterboarding, per scoprire il covo e poi spezzare la resistenza dei suoi carcerieri catturati e trasformarli in pentiti?
Nel libro “Colpo al cuore” Nicola Rao ricostruisce l’uso della tortura per chiudere i conti con la lotta armata. Particolare rilievo è riservato, ovviamente al sequestro Dozier. Ecco il capitolo sul blitz per liberare il generale americano
Le torture il blitz
La notte tra mercoledì 27 e giovedì 28 gennaio 1982 Emilio e i suoi compagni la trascorsero tranquilli. Avevano saputo delle retate compiute dalla Digos a Verona negli ambienti dell’organizzazione. Sapevano che alcuni militanti erano stati fermati. Ma soltanto uno di loro, Federico Volinia, sapeva del covo.
Di lui però ci si poteva fidare ciecamente. Questo pensò Emilio prima di addormentarsi, cercando, come stava facendo da qualche sera, di scacciare dalla mente lo spettro di una nuova esecuzione a freddo che presto avrebbe potuto eseguire. La notte tra mercoledì 27 e giovedì 28 gli ospiti della Gabbia d’Oro la passarono in bianco. Tornati al residence verso le sei del mattino, dopo aver messo le basi per il blitz in via Pindemonte, l’adrenalina li aveva completamente posseduti. La posta in gioco era troppo alta.
Il dottor Genova si chiedeva di continuo cosa sarebbe successo ai suoi superiori, a lui, all’Italia, se durante l’assalto l’ostaggio fosse stato ucciso. Certo, Improta e De Francisci giuravano sulla professionalità del nucleo che avrebbe fatto l’irruzione. Ma le incognite erano infinite. E se all’ultimo momento le Br avevano deciso di spostare Dozier in un nuovo covo? E se al momento dell’irruzione gli uomini del Nocs si fossero trovati davanti a un inferno di fuoco?
Sarebbe stata una carneficina. alle sette e mezzo l’operazione prese il via. Da Roma era arrivato un altro nucleo del Nocs che avrebbe messo in sicurezza tutta l’area, mentre l’altra squadra sarebbe entrata nel covo. Il nucleo operativo, con passamontagna, mimetiche blu, anfibi, armi da guerra, corde per scalare il palazzo e una sorta di ariete per sfondare la porta, salì su un camion della ditta di trasporti Domenichelli. Quel mezzo li avrebbe portati in via Pindemonte.
Dietro di loro gli altri, compresi i capi, su un altro camion mimetizzato. Intanto altre squadre erano già sul posto. Alcuni agenti, travestiti da spazzini, «pulivano» via Pindemonte tenendo sott’occhio l’entrata del palazzo. Altri, con una pala meccanica, si erano finti operai e avevano, di fatto, bloccato l’accesso alla strada. I due camion arrivarono alla Guizza intorno alle 8.30, parcheggiarono a poca distanza dall’obiettivo e aspettarono. Federico aveva descritto tutto nei minimi dettagli.
«È un appartamento di cinque stanze», aveva detto facendo anche uno schizzo della casa. «In quella centrale c’è la tenda con dentro l’americano. la porta non mi sembra blindata. Vedrete che volerà via al primo colpo». Intorno alle 9.30 un uomo e una donna entravano al civico 2 chiedendo a un inquilino che incrociarono a che piano si trovasse lo studio dentistico. Questi spiegò che era al primo piano rialzato. I due lo ringraziarono e salirono a piedi le scale. arrivati al piano diedero una rapida occhiata alla porta accanto a quella dello studio dentistico. effettivamente non sembrava blindata.
Scesero con calma le scale e se ne andarono. «la serratura è normale», riferirono i due agenti dell’ucigos a Improta che li aspettava in strada ad alcune centinaia di metri. l’informazione fu immediatamente passata via radio al nucleo operativo nascosto dentro il camion.alle 10.30 arrivarono in ordine sparso otto volanti della questura di padova e una ventina di auto civetta. In poco tempo via pindemonte e via Monti furono circondate.
Il covo-prigione si affacciava proprio sopra un grande magazzino: il supermercato Dea. Quando, alle 11, da roma arrivò il via all’operazione, un nucleo di copertura del Nocs si piazzò davanti all’ingresso del supermarket, bloccando entrate e uscite: «Scusate signori, ma temiamo che qualcuno stia per compiere una rapina, dobbiamo fare dei controlli».«Via via via, tutti fuori», urlò ai suoi uomini il maggiore edoardo perna, che guidava il blitz. Dietro di lui usciro-no correndo altri sei agenti speciali, con passamontagna, giubbotto antiproiettile, pistola e mitra. perna, vicecapo del Nocs, era l’unico del gruppo a viso scoperto. percorsero il piano e mezzo che li separava dal covo. In apnea. Senza pensare. Senza respirare. erano le 11.20.emilio era ancora in canottiera e pantaloni del pigiama. andò in cucina da Martina e Daniela e domandò loro stancamente: «che ci mangiamo oggi a pranzo?»
Ma prima che le due ragazze potessero rispondergli fu colpi-to da qualcosa di strano: mentre fino a un attimo prima dall’esterno arrivavano rumori di auto che passavano, operai che urlavano, gente che chiacchierava, improvvisa-mente ogni suono era cessato. l’intera zona era piombata in un silenzio totale, tombale, assordante. «Ma che succede là fuori?» chiese emilio. Si avvicina-rono alla finestra che dava sulla piazza, sopra il supermercato, e allora capirono: per strada c’erano alcuni uomini mascherati che indossavano cappucci di nylon.
«Cazzo la polizia, la polizia!!!» urlò Emilio.«Vai sull’ostaggio, subito!» ordinò a Giorgio. che tolse la sicura alla pistola, spalancò la tenda e puntò l’arma alla testa dell’incredulo americano.Dopo la strage di via Fracchia, il protocollo delle Br prevedeva che, in caso di irruzione di polizia e carabinieri in un covo-prigione, per evitare di essere massacrati, non si dovesse reagire con le armi. Ma si minacciasse di sparare all’ostaggio se, nel frattempo, non fossero stati avvisati gli avvocati dei brigatisti. una sorta di trattativa per evitare di essere uccisi o portati via e torturati senza che nessuno ne fosse al corrente.emilio applicò il protocollo alla lettera. Mentre Giorgio teneva sotto tiro l’americano, lui e gli altri, pistole in pugno, si avvicinarono al corridoio per parlare agli agenti che da un momento all’altro si sarebbero presentati davanti alla casa.
Mentre Daniela diceva: «Sento dei rumori sul pianerottolo, sono già qui fuori», Emilio ebbe il tempo di pensare: Il fatto che si siano fatti vedere vuol dire che non vogliono sparare, e loro per primi sono disposti a trattare la nostra resa.Ma la sua ipotesi restò in vita per pochi secondi.la porta si staccò dagli infissi come un foglio di carta. Grosse figure nere e mascherate, con in testa caschi che sembravano scafandri, li travolsero come un uragano. Due di loro andarono direttamente nell’altra stanza, dove Giorgio teneva sotto tiro Dozier. lo colpirono in testa con il calcio di una pistola.
Giorgio stramazzò a terra. avrebbe avuto il tempo di sparare all’ostaggio, come prevedeva il regolamento delle Br, ma non se l’era sentita. In quel momento, a uno degli agenti partì un colpo di pistola che, per fortuna, si conficcò nel muro.emilio e gli altri erano a terra, legati e incappucciati. li avevano portati fuori dalla casa e lasciati sul pianerottolo. Nel frattempo stavano arrivando Improta, De Francisci, Genova e tutti gli altri per il sopralluogo nel covo. Dozier era già in questura a Padova quando De Francisci telefonò al ministro dell’Interno rognoni. «Ministro, abbiamo liberato Dozier.»
«Ma chi? Noi?» chiese Rognoni. «Sì, sì, noi, la polizia, da soli.» Il ministro tirò il più lungo sospiro della sua vita. Poi prese il telefono rosso, quello collegato solo con il Quirinale e palazzo Chigi, e avvertì Pertini e Spadolini. Era fatta. Intanto i brigatisti stavano ancora a terra sul pianerottolo.
«Sei una mignotta, vero?» chiese un agente a Martina. A ogni «no», arrivavano calci ai fianchi. «Come cazzo ti chiami? Qual è il tuo nome di battaglia?» cominciarono a domandare altri agenti ai quattro terroristi catturati. Le richieste erano accompagnate da calci in tutte le parti del corpo. Dopo l’ennesimo calcio, quello che sembrava il capo del gruppo rispose: «Il mio nome di battaglia è Emilio e mi chiamo Antonio Savasta».
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