19 marzo 1980: Prima Linea uccide il giudice Guido Galli
Dall’autobiografia di Armando Spataro che, al di là dei diversi ruoli, lui pm, Guido Galli giudice istruttore, ne fu il più stretto collaboratore nelle inchieste antiterrorismo
[Guido Galli] fu ucciso il 19 marzo 1980, davanti all’aula dell’Università Statale di Milano dove attendeva di entrare per tenere la sua lezione. Aveva quarantotto anni. Ricordo quelle ore come le stessi vivendo adesso: al mattino di quel 19 marzo, Guido mi dice che a mezzogiorno deve andare a casa perché è San Giuseppe e si festeggia l’onomastico di suo figlio. Anche quel giorno, lo accompagno a casa con la mia scorta. Mi dice che sarebbe andato nel pomeriggio in università e che dopo ci saremmo rivisti in ufficio, come facevamo quasi ogni giorno. Lo aspetto, dunque, nella mia stanza: è ormai pomeriggio. Mi telefona il capo della Digos, Mario Lo Schiavo: «Armando, corri in università, la Statale…».
Capisco subito. Non lo lascio finire, esco dall’ufficio urlando e corro a piedi alla Statale, a poca distanza dal Tribunale. Non c’è ancora molta gente, ricordo due capitani dei carabinieri (uno è Sandro Ruffino) e un funzionario della Digos che cercano di tenermi lontano da Guido Galli perché sanno che cosa lui è per me. Il vero mio maestro, il fratello maggiore che non ho mai avuto. È steso per terra, di fronte all’aula 305 dove avrebbe dovuto svolgere la sua lezione, con il codice aperto a meno di mezzo metro da lui, vicino alla mano. Sulla sua agendina telefonica c’è scritto: «Se mi succede qualcosa telefonate ad Armando Spataro tel. n…».
La sentenza per l’omicidio
Ho ancora la fotocopia di quella pagina. La figlia Alessandra frequenta la facoltà di Giurisprudenza e quel giorno è alla Statale. Viene a sapere dell’attentato e si avvicina al papà. Gli amici le stanno attorno. Il «Corriere della Sera» pubblica il giorno successivo, in prima pagina, la foto del corridoio della Statale dove è avvenuto l’omicidio: il codice aperto, ancora per terra, è in primo piano. Sotto la foto, un articolo di Giovanni Testori che dice: «Il codice che gli era caduto di mano resta aperto davanti agli occhi atterriti dei giovani e di noi tutti. Aperto a dirci cosa? Che la legge dell’umana convivenza è più forte di ogni Caino…».
Il progetto della 28 marzo
Nell’ottobre del 1980, quando Marco Barbone iniziò a collaborare, sapemmo che Guido sarebbe potuto morire anche il giorno prima, il 18 marzo: Barbone stesso, Paolo Morandini, Daniele Laus e Manfredi De Stefano (poi membri della Brigata 28 Marzo) erano sotto casa sua, armati e con auto rubata, pronti ad ucciderlo. Un ritardo di Guido nell’uscire di casa gli regalò altre ventiquattr’ore di vita. Galli era dunque il primo e più importante bersaglio dei terroristi milanesi.
Non ho avuto il tempo di parlare ai suoi studenti, ma ho avuto la fortuna di fare da magistrato affidatario per il tirocinio di due dei «bambini Galli», Alessandra e Carla, nostre colleghe, due tra i migliori uditori che abbia mai avuto la fortuna di seguire, così diverse tra loro ma entrambe eguali a Guido. Spero di avere trasmesso loro anche solo una minima parte di quel che Guido aveva insegnato a me.
I magistrati si ricompattano
L’omicidio ricompattò i magistrati di Milano. Anche i giudici istruttori, come noi della Procura avevamo fatto dopo la morte di Emilio, indirizzarono un documento al Csm chiedendo che l’ufficio fosse dotato degli strumenti adeguati e moderni di lavoro che mancavano e che i magistrati «a rischio» venissero sottoposti a misure di sicurezza. «Repubblica» scrisse anche che un primo momento di unità è stato raggiunto quando un drappello di giudici istruttori ha imboccato le scale che portano al piano superiore, quella della Procura della Repubblica. Destinazione: l’ufficio del sostituto Armando Spataro.
Domenica «il manifesto» in un articolo aveva indicato Spataro come «capo ufficio ombra» della Procura milanese, accusandolo di accentrare le inchieste di terrorismo. E ad Armando Spataro i giudici istruttori hanno voluto esprimere la propria solidarietà. Non lo avrei mai dimenticato. Di Guido, dopo, ho scoperto tante altre cose: Bianca, la moglie, mi ha mostrato, ad esempio, i bei disegni che Guido faceva. Aveva una passione: disegnava campi di battaglia ed eserciti schierati l’uno contro l’altro. Armi e divise disegnati in modo incredibilmente preciso. Il disegno, una vera passione per lui.
La passione per la montagna
Quindici giorni prima della sua morte mi mandò una cartolina dal Passo del Tonale: sopra la firma, il disegno di uno sciatore (lui) sotto il sole e quello di un magistrato in toga (io) che parla alla Corte. Ho visto poi tante fotografie di Guido e tutti noi suoi amici ne abbiamo una che lo ritrae seduto e sorridente – come sempre – in montagna. In un’intervista ad Ibio Paolucci, dell’«Unità», anche Bianca ha ricordato quel giorno: si festeggiava l’onomastico del figlio Giuseppe e della mamma di Guido ed erano stati invitati a casa anche i nonni. C’erano due torte a casa quel 19 marzo, una per il pranzo e l’altra per la cena, ma Guido poté gustare solo la prima e con quella festeggiare solo una volta. (…)
A suo padre, Guido Galli aveva scritto nel 1957 una lettera per spiegare perché aveva deciso di fare il magistrato e non l’imprenditore: «Perché vedi, papà, io non ho mai pensato ai grandi clienti o alle belle sentenze o ai libri: io ho pensato, soprattutto, e ti prego di credere che dico la verità come forse non l’ho mai detta in vita mia, a un mestiere che potesse darmi la grande soddisfazione di fare qualcosa per gli altri».
Gli arresti e le ammissioni
Dopo pochi mesi arrestammo gli assassini: a due capi di Prima Linea di Milano (Bruno La Ronga e Silveria Russo) chiesi perché avessero ucciso uno come Guido. Dopo avermi insultato, la donna mi disse che mi avrebbero parlato solo se non ci fossero state altre persone nella stanza e se mi fossi impegnato a non riferire a nessuno di quel colloquio. Accettai: mi dissero che ben sapevano chi era Guido, che avevano le loro fonti nel palazzo di Giustizia. Sapevano, dunque, che lui era la vera mente dell’antiterrorismo a Milano e che io ero solo uno strumento nelle sue mani raffinate, sapevano che sarebbe passato in Procura.
Alludendo ad Alessandrini e Galli, dicevano che erano gli uomini come loro a legittimare le istituzioni, non i biechi repressori (e credo proprio che tra questi collocassero anche me). Ho rivisto tanti anni dopo Silveria Russo, è persona diversa. Sarei disposto a parlare con lei dei suoi figli e della sua vita; mentre non potrei farlo con un testimone che ancora oggi ricordo: era un giovane abbastanza colto (peraltro, studente di Guido), il cui padre vendeva biciclette. Una «pentita» – Fiammetta Bertani – ci disse, cinquanta giorni dopo l’omicidio, che in quel negozio lei ed altri avevano acquistato le biciclette usate per la fuga nel dedalo di viuzze attorno all’università di Milano.
Lo sentii come testimone e lui negò tutto; gli dissi che c’era chi già aveva confessato e che avevo solo bisogno di riscontri, che lui, ad esempio, provasse a riconoscere delle foto. Rispose – e così fece poi suo padre – che lui non voleva essere tirato in ballo in queste cose anche perché «se avevano ucciso Galli qualche ragione doveva pure esserci stata». Rimase in carcere, come il padre. Non ricordo il nome di quel giovane, ma non riesco a dimenticare la rabbia di quel giorno.
Tanti ricordi dopo
Rammento tante altre cose del dopo 19 marzo: una riunione di lavoro a Parma, qualche giorno dopo l’omicidio, io che ancora continuavo ad essere mentalmente assente e Piero Vigna che mi scuote (una volta per tutte) stringendomi un braccio e dicendo secco e forte: «Oh Armando!»; io e Giuliano Turone (i nostri rapporti di amicizia e stima si erano un po’ raffreddati per qualche dissenso sulle modalità di conduzione delle indagini sull’omicidio Torregiani) che ci ritroviamo nell’ufficio di Guido, dove avevo accompagnato Bianca a ritirare le cose del marito, e ci abbracciamo piangendo dopo che Gerardo D’Ambrosio ci aveva pregato di guardarci negli occhi. E ricordo la pena e la rabbia che mi assalirono mentre, nel giugno dell’80, firmavo otto ordini di cattura contro i responsabili dell’omicidio di Guido, prima che il processo fosse trasferito a Torino.
19 marzo 1980: da pochissimo aveva iniziato a collaborare Patrizio Peci delle Br, ad aprile ’80 iniziò a farlo Roberto Sandalo di Prima Linea, e poi, in autunno, come ho già detto, Marco Barbone e Michele Viscardi, pure di Pl, uno degli autori materiali degli omicidi di Alessandrini e Galli; e poi tanti altri. Il 21 giugno dell’80 la Corte d’Assise di Milano condannava Corrado Alunni a ventinove anni di reclusione e i suoi complici a pene oscillanti tra i venti ed i ventotto anni. Le condanne vennero confermate in appello. Il terrorismo stava per essere spazzato via, ma quel 1980 fu l’anno orribile per l’Italia, non solo per la strage di Bologna del 2 agosto.
Se… se… se…
Se Sandalo avesse parlato un mese prima… Guido sarebbe vivo. Se Guido non fosse andato all’università quel pomeriggio… se io fossi andato a parlare quel pomeriggio all’università, con la mia scorta… se il processo Alunni, formalizzato, fosse finito ad altro giudice istruttore… se… se… La tua luce annienterà le tenebre nelle quali vi dibattete (Così è scritto sulla lapide che i familiari di Guido hanno voluto nel palazzo di Giustizia di Milano, al secondo piano, accanto alla porticina del suo piccolo ufficio.)
Oggi 19 marzo 1980, alle ore 16 e 50 un gruppo di fuoco della organizzazione comunista Prima Linea ha giustiziato con tre colpi calibro 38 Spl il giudice Guido Galli dell’ufficio istruzione del tribunale di Milano […]. Galli appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alla necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento, di fronte alla contemporanea crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere […].
(Così è scritto nel comunicato di Prima Linea che rivendicò l’uccisione di Guido Galli e che paradossalmente contiene di lui un alto ed involontario elogio.) Guido a terra, nel corridoio dell’università, di fronte all’aula dove stava per tenere lezione. Aveva il codice accanto, sul pavimento. Questa è l’immagine che continua a venirmi in mente. E io non posso fare a meno di evocarla, anche a costo di apparire retorico, quando lo ricordo in pubblico o nei convegni in cui si parla delle modalità della lotta al terrorismo.
Quel codice in mano
Un groppo, allora, mi stringe la gola e la platea che mi ascolta – piccola o grande che sia – è costretta, imbarazzata e silente, ad aspettare che mi passi. Ma io la sento vicina, partecipe, rispettosa, e questo mi aiuta molto. E spesso, allora, per superare l’empasse, penso a quel presidente del Consiglio dei ministri che, nel 2005, ha dichiarato alla stampa estera: «Non ci si può aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano».
Ecco: la rabbia torna a rianimarmi e, pensando sempre a Guido ed a quel codice che era la stella polare della sua vita, mi dico che forse quel presidente del Consiglio non si rendeva conto della gravità di ciò che diceva, forse non sapeva nulla di Galli o – più probabilmente – ignora che si può consapevolmente accettare il rischio della propria fine solo per difendere il senso della legge. La rabbia scioglie così quel nodo. Riprendo a parlare di Guido, la platea supera il suo imbarazzo, mi incoraggia e riesco ad arrivare fino alla fine.
Armando Spataro
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