24 gennaio 1979: così le Br uccisero Guido Rossa
Da quel portone, nella mattina umida del 24 gennaio 1979, esce un uomo. Fa ancora buio, sono appena le sei e mezzo. E c’è vento, qualche sventagliata di pioggia. L’uomo si chiama Guido Rossa, è un aggiustatore meccanico e un alpinista apprezzato, passione che lo riporta alle montagne del bellunese dov’è nato, alla Torino circondata dalle Alpi dove tanto ha vissuto. È anche un delegato sindacale del suo reparto, la quasi mitica Officina dentro l’Italsider, il grande complesso siderurgico di Cornigliano, a ponente della Lanterna e oltre il torrente Polcevera, intitolato a Oscar Sinigaglia, pioniere della siderurgia italiana.
Una delle grandi cattedrali del lavoro a Genova, novemila gli operai, se ci aggiungi le ditte esterne e l’indotto arrivi a undicimila e più. Guido ha quarantaquattro anni, è marito di Silvia che è impiegata alla Sip e padre di Sabina, che ha sedici anni e va alle magistrali al “Lambruschini”, in Castelletto, il quartiere borghese che confina con quell’Oregina dove sono soprattutto operai e portuali, aristocrazia del lavoro, a popolare le case arrampicate lungo le strade strette che hanno mangiato la collina regalando in cambio un piccolo assaggio di benessere.
Un uomo solo
Guido Rossa la sera prima ha lasciato la sua Fiat 850 rossa parcheggiata poco più avanti, all’inizio di via Fracchia. Sulle alture cannibalizzate dalla speculazione edilizia degli anni Sessanta, le case sono tante e le strade strette, i parcheggi una lotteria. Già è andata bene aver trovato ancora un posto libero, addossato alla ringhiera che chiude in alto il terrapieno su cui è costruita la strada. Meno di cento metri da casa, una manciata di passi appena dal giardino sotto gli alberi che si vedono anche dal santuario, con i giochi di ferro dai colori scrostati dove si ritrovano i bambini delle case lì intorno, dove lui stesso si ferma spesso, quando torna a casa prima del solito, perché stare con i bambini e i ragazzi è una delle cose che più fa volentieri, che gli strappano un sorriso.
Guido è solo. Si è guardato intorno, una necessità, non un’abitudine: perché la sua vita è cambiata tre mesi prima, in fabbrica, in una mattina che sembrava come tante, il 25 ottobre. Quando gli hanno fatto vedere quei documenti con sopra la stella a cinque punte, quando il compagno di lavoro che gira per i reparti in bicicletta si rivela un brigatista. Quando tutto si accelera, perché c’è una denuncia che firma lui solo, un processo che manda l’uomo che ha denunciato in carcere e lui a prendersi quella responsabilità solitaria su cui non ha mai avuto dubbi, esitazioni. Ma per i compagni dell’arrestato no, non c’è giustificazione: se denunci sei una spia, sei un infame. E devi pagare. Ma quanto?
Quel furgone bianco
Quel mercoledì di gennaio nelle case ci sono già luci accese, chi si prepara per andare al lavoro, a scuola, ma lui per strada non incontra nessuno. Ha percorso pochi metri di via Ischia, buttando un sacchetto di spazzatura nel bidone vicino a casa, ha svoltato verso via Fracchia, la stessa strada di mille mattine, superando il civico 30, davanti al giardino. Ha aperto la portiera dalla parte del passeggero, perché la macchina ha il muso in avanti e il lato del guidatore è addossato alla ringhiera che separa la strada dal muraglione su cui è costruita.
Dietro alla 850 e a un’altra utilitaria c’è un furgone bianco, e ha le porte del retro che si stanno aprendo. Rossa non ci fa caso: solo quando sentirà il primo sparo che infrange uno dei finestrini, mentre sta entrando per sistemarsi al posto di guida, si rende conto che quelle due figure che intravede nel buio stanno aspettando lui: si chiude dentro, prova a reagire, a scalciare. Quello che non sa è che morirà, da lì a pochi minuti. Perché ci sono quei colpi alle gambe, destinati a lui così come è accaduto a tanti altri: ma ne arriveranno altri, uno al fegato e uno definitivo, al cuore.
Roberto, Pippo ed Elio
Una di quelle due persone, chi spara gli ultimi colpi tornando indietro mentre sta già fuggendo, si chiama Riccardo Dura, ha ventotto anni e ha scelto di chiamarsi “Roberto” da quando è un brigatista. Il primo a sparare è stato Vincenzo Guagliardo, “Pippo” per gli altri della colonna genovese e non solo: e con le armi in mano corrono via, per raggiungere l’auto in cui un terzo complice li attende per fuggire. È un istruttore di nuoto e studente di Medicina che si chiama Lorenzo Carpi e che ha scelto di chiamarsi “Elio” per un’ipotetica rivoluzione. Dietro alle finestre illuminate nessuno ammette di averli visti né sentiti.
Guido Rossa non può sapere e non saprà mai che il suo destino è legato a quello di chi un anno dopo o poco più perderà a sua volta la vita in un portone a cento metri dal suo – normale, anonimo: la speculazione edilizia non si è curata di impegnare grandi studi di architettura, ha costruito scatoloni dipinti in colori chiari mangiati presto dal vento e dall’umido del mare, con infissi in metallo quasi tutti uguali – quel portone che vede ogni volta che esce da casa, proprio in fondo alla strada in leggera discesa, via Fracchia numero 12.
Tutta una storia in cento metri
D’altronde, in quella parte di Oregina, le strade si intrecciano sinuose in un nastro grigio di asfalto: via Boine diventa via Ischia, si dirama a sinistra in via Fracchia che curva ancora su sé stessa. Il 28 marzo del 1980, in un’altra notte fredda e ventosa, Riccardo Dura morirà dietro la porta di un appartamento del piano terreno di quel palazzo, appena oltre quel portone, durante un blitz dei carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa, insieme ad altri tre brigatisti.
E ancora un’ultima cosa non poteva sapere l’aggiustatore meccanico Guido Rossa, uscendo per l’ultima volta dal portone su cui c’è ancora oggi il suo nome sul citofono, interno 10, perché lì ci vive ancora Silvia, sua moglie: che quella scaletta lunga e ripida accanto all’entrata è quella che porta i due giovani che gli hanno appena sparato a correre giù in via Capri, dove c’è una Fiat 128 che li aspetta con “Elio” pronto al volante a mettere in moto e via, sparire. La Storia passa così, cento, duecento metri da una tappa all’altra.
Lascia un commento