17 giugno 1982: Hyperion, ricercati Berio e Simioni. E i capi br raccontano il Superclan

Un mandato di cattura internazionale è stato emesso dalla magistratura romana contro Duccio Berio e Corrado Simioni, i docenti italiani fondatori — insieme con Giovanni Mulinaris,- in carcere da qualche mese — della scuola di lingue e Istituto culturale «Hyperion» di Parigi, considerata ormai da anni lo schermo di attività terroristiche a livello internazionale e più volte al centro delle cronache sull’eversione. Il provvedimento, firmato dal giudice istruttore romano Rosario Priore, ha seguito di qualche giorno quello analogo firmato il 14 giugno scorso dai magistrati di Venezia contro coloro che sono considerati i vertici di questa presunta centrale terroristica. Le accuse che il giudice della capitale contesta ai docenti sono quelle di costituzione di banda armata, di attentato alla personalità dello Stato e di violazione della legge sulle armi. Le stesse accuse sono state formulate contro Mulinaris, arrestato mesi fa nel Veneto (Berio e Simioni, secondo le ultime segnalazioni giunte all’autorità giudiziaria, si trovano In Francia e fino a qualche giorno fa erano rintracciabili presso Hyperion).

E’ però probabile che ora, in seguito all’emissione del mandato di cattura, abbiano deciso di nascondersi per evitare la procedura di estradizione già avviata dalla magistratura. L’esistenza di due inchieste parallele su un identico fatto potrebbe sfociare nei prossimi giorni in un conflitto di competenza tra la magistratura romana e quella veneta. Tuttavia c’è da rilevare che mentre l’Indagine del magistrati della città, lagunare sembra avere per argomento i contatti tra l’Hyperion e le Brigate rosse, l’Inchiesta romana si sviluppa su spazi più ampi, prendendo In considerazione, tra l’altro, il ruolo di mediazione che i tre docenti avrebbero svolto tra l’Olp e i gruppi di guerriglia europei che comprendono, insieme con le Brigate rosse, la Raf tedesca, l’Eta basca, l’Ira irlandese, il Napap francese.

Le accuse dei pentiti

A far riaprire il fascicolo delle indagini relative al ruolo che nel quadro del terrorismo internazionale viene attribuito a Hyperion hanno contribuito soprattutto le dichiarazioni di alcuni «terroristi pentiti». Con le loro confessioni hanno colmato alcuni vuoti che ormai da qualche tempo avevano bloccato l’iniziativa del magistrato, il quale si era già occupato di questo filone delle indagini del terrorismo nel contesto dell’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, proseguendo un’istruttoria cominciata a Padova dal sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero. Il ruolo dell’«Hyperion» era stato preso In considerazione nel capitolo riguardante il collegamento del terrorismo Italiano con le organizzazioni estere. Nella motivazione del mandato di cattura il magistrato romano attribuisce ai tre docenti ruoli ben precisi.

Una rete di assistenza

Si contesta loro, infatti, d’aver organizzato una vera e propria rete di assistenza per gli esponenti delle Brigate rosse fuggiti in Francia, dove avrebbero addirittura costituito una «colonna» in continuo contatto con i clandestini del nostro Paese. Un’altra accusa è quella d’aver preso contatti con esponenti del terrorismo mediorientale per consentire ai terroristi italiani di poter essere addestrati in campi libanesi o di altri Paesi arabi allo scopo di affinare le tecniche della guerriglia. Infine l’Istituto «Hyperion» avrebbe fatto da mediatore tra gruppi palestinesi e organizzazioni terroristiche internazionali per il reperimento e la distribuzione di armi al vari gruppi terroristici italiani e stranieri. E’ probabile che in attesa dell’esito delle ricerche di Berlo e Simioni il magistrato romano interroghi nei prossimi giorni Giovanni Mulinaris, per cercare di avere un ulteriore riscontro alle dichiarazioni dei «pentiti» che hanno dato un nuovo impulso all’inchiesta.
fonte: la stampa, 18 giugno 1982

Il Superclan

Corrado Simioni e i suoi sodali spaccarono il Collettivo politico metropolitano contestando la scelta di quello che sarebbe stato il gruppo dirigente delle nascenti Brigate Rosse (Curcio, Cagol, Franceschini, Moretti) di mantenere una presenza organizzata nelle lotte operaie e sociali anche nella fase della costruzione dell’organizzazione per la lotta armata. Misero capo a una teoria e a una pratica di organizzazione superclandestina (da qui il soprannome di Superclan) che teneva assieme propositi roboanti e scarse realizzazioni. Il tutto insaporito da un plateale avventurismo. Ecco le testimonianze dei tre leader delle Brigate rosse sul leader del Superclan

Moretti sui rapporti internazionali

Non sopportavo il suo [di Simioni, n.d.a.] modo di fare. Cominciavamo appena a fare qualcosa di concreto oltre le chiacchiere, non c’era ancora un progetto definito, ma una cosa io e i compagni della mia stessa formazione avevamo chiara in testa: sarebbe stato un disastro se si fosse andati a qualcosa di men che controllabile. Simioni era l’opposto. Aveva la mania della segretezza, un po’ millantatore e un po’ suggestionato dai romanzi di spionaggio. Ma ci voleva altro che dar qualche nome della guerriglia latino-americana per coinvolgerci in avventure non trasparenti. Un dissidio sul metodo era più che sufficiente per dare un taglio netto, almeno per me. Se accetti dei livelli di segretezza, accetti una gerarchia. Con Simioni avevamo chiuso fin dal CPM, non lo vedemmo più e apprendemmo dai giornali che era finito a Parigi. Avevamo in Francia dei compagni espatriati alcuni anni prima, che erano in grado di collegarci con tutti i movimenti rivoluzionari di una certa consistenza. A Parigi c’erano più o meno tutti, e si arrivava attraverso canali riservati, ma non segretissimi. Avevamo un credito che ci consentiva di incontrare chi volevamo. Mi mossi [su Parigi, n.d.a.] dall’inverno del 1978 al 1981. Ma fu un compito al quale mi dedicai saltuariamente. Sapevo fin troppo bene qual era il nostro stato reale, grande capacità operativa ma anche grandi difficoltà politiche. Con i rapporti internazionali non ne avremmo risolto neppure una. Mi fermavo [a Parigi, n.d.a.] non più d’un giorno o due, come se facessi una riunione d’un’altra colonna. Prendevo l’aereo la mattina presto a Roma e tornavo con un altro aereo la sera a Milano. Se penso che ero fra i brigatisti più ricercati e passavo quattro volte in un giorno i controlli di frontiera, dev’essere vero che ero matto, come mi dissero una volta i palestinesi. All’inizio ci andavamo in tre, poi venne con me qualche volta Laura Braghetti, che parla francese molto bene. Prendemmo una base in affitto. Lauretta era molto giovane e le fu facile farsi passare per una studentessa .

Curcio: quella proposta a Margherita

Tutto cominciò da uno scontro di potere al convegno di Pecorile. Corrado Simioni arrivò con l’intenzione di conquistarsi una posizione egemonica all’interno dell’agonizzante Sinistra Proletaria: pronunciò un intervento particolarmente duro, e sostenne che il servizio d’ordine andava ulteriormente militarizzato. La sua operazione non riuscì, ma una volta tornato a Milano non si diede per vinto: senza avvertire nessuno propose ai responsabili del servizio, alle nostre “zie rosse” [le donne dell’organizzazione, n.d.a.], delle azioni illegali e degli attentati inconcepibili per una organizzazione ancora inserita in un movimento molto vasto e, praticamente, aperta a tutti. Tra l’altro si rivolse a Margherita [Cagol, n.d.a.] per chiederle di piazzare una valigetta di esplosivo sulla porta del consolato USA a Milano. A quel punto Margherita, Franceschini e io ci trovammo d’accordo nel giudicare le sue idee avventate e pericolose. Decidemmo così di isolarlo assieme ai compagni che gli erano più vicini, Duccio Berio e Vanni Mulinaris: li tenemmo fuori dalla discussione sulla nascita delle Brigate Rosse e non li informammo della nostra prima azione, quella contro l’automobile di Pellegrini.

Coinvolse nello strappo anche Gallinari

Simioni radunò un gruppetto di una decina di compagni, tra cui Prospero Gallinari e Françoise Tusher, nipote del celebre Abbé Pierre: si staccarono dal movimento sostenendo che ormai non erano altro che cani sciolti. C’erano però degli amici comuni che ci tenevano informati delle loro discussioni interne e conoscevamo il loro progetto di creare una struttura chiusa e sicura, super-clandestina [Superclan, n.d.r.], che potesse entrare in azione come gruppo armato in un secondo momento: quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati una volta superata la caotica situazione di transizione in cui ci trovavamo

Franceschini: era un avventurista

Lo conosco bene perché poi fondò insieme a Curcio il Collettivo Politico Metropolitano. Io a quei tempi ero a Reggio, ero uscito dalla FGCI e dal Partito Comunista e avevamo fondato un collettivo nella nostra città. Entrammo in contatto con questo Collettivo Politico Metropolitano e lo conobbi attraverso il cub della Pirelli. Poi però i rapporti si deteriorarono velocissimamente. Con lui già si parlava di lotta armata: era uno di quelli che spingeva di più verso la lotta armata, tant’è che l’occasione della rottura tra Curcio e me da una parte, e lui e il suo gruppo dall’altra avviene nel settembre 1970, di fronte ad alcune sue proposte che ritenevamo assolutamente avventuriste, come si diceva allora, totalmente demenziali, diremmo oggi. La prima proposta che fece all’inizio di settembre fu di uccidere il principe Borghese, invitato ad un comizio in piazza a Trento da Avanguardia Nazionale. Diceva di aver già preparato tutto: aveva i cecchini e si doveva andare lì ad ucciderlo. Siamo nel settembre 1970.

Quegli avventati progetti omicidi

Il fatto veramente inquietante era che la colpa dell’assassinio di Valerio Borghese doveva ricadere su Lotta Continua che andava formandosi allora. Aveva una teoria del “tanto peggio, tanto meglio”: l’unica via rivoluzionaria era la lotta armata e questi gruppi semilegali costituivano un freno. Bisognava fare l’attentato e sbarazzare il campo da Lotta Continua che si stava formando. La proposta gli venne rifiutata. La seconda proposta era connessa al viaggio di Nixon in Italia alla fine di settembre. Ci propose di uccidere due ufficiali della NATO a Napoli: diceva di avere preparato tutto, anche se poi non si capiva mai chi fossero queste persone che, dietro di lui, avevano preparato tutto. Noi non dovevamo farlo: dovevamo essere d’accordo con lui a gestire le operazioni in un certo modo. Rifiutammo anche questa proposta e decidemmo di bruciare la macchina di un capo reparto della Siemens. Dicevamo che le sue proposte erano follie, che bisognava partire dalle fabbriche e così decidemmo l’azione contro il capo della Siemens. Su questo ci fu una rottura tra noi e lui e il suo gruppo. Noi chiamavamo questo gruppo “Superclan”, nel senso di superclandestino. Loro comunque operarono in Italia fino al 1973-1974, poi sciolsero questa organizzazione e se ne andarono a Parigi dove aprirono l’Hyperion.

La testimonianza di Gallinari

Nella sua autobiografia “Un contadino nella metropoli” Prospero Gallinari racconta la vicenda della sua militanza nel Superclan, durata un anno e mezzo:

In questa situazione io scelgo di continuare i miei rapporti con la posizione che appare la più decisa sulla scelta strategica (…) Ma si dimostra ben presto una scelta infelice la mia

Qui l’abstract

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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