Omicidio Tobagi, i Carabinieri non fermano prima Barbone perché puntano alle Br

E’ l’8 di luglio del 1980. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è ascoltato dalla I commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro Moro. Qualche minuto prima, nel descrivere il metodo e le tecniche vincenti della struttura antiterrorismo da lui diretta, insiste sull’ “assoluta riservatezza”. Poi si fa scappare questa precisa indicazione investigativa sul delitto Tobagi, commesso appena 40 giorni prima.

Si poteva salvare Tobagi?

Un errore inspiegabile in un generale piemontese del suo rango. Un errore che diventa una fuga di notizia a settembre, quando l’Espresso pubblica i contenuti dell’audizione. Così bisogna anticipare l’arresto del capobanda, Marco Barbone, per impedirne la fuga. I carabinieri sapevano molto sulla “Brigata 28 marzo” grazie a un ex militante delle FCC diventato un “infiltrato” nella primavera 1979. Rocco Ricciardi ha già permesso dei colpi importanti contro suoi compagni e ha dato anche informazioni su Barbone e la sua compagna.

I compiti dell’infiltrato

Se sulla base di queste informazioni si potesse salvare Tobagi è ancora questione aperta e dolorosa. Le polemiche politiche e mediatiche hanno animato diverse vicende processuali. Ieri, a offrire una diversa interpretazione del caso, è arrivato, dalle pagine di Contropiano, Alessandro Padula, uno degli ultimi leader delle Br-Pcc arrestati (e torturato). La sua ipotesi è che Barbone e i suoi siano stati tenuti con il guinzaglio lento per non bruciare Ricciardi. La sua missione principale era infatti arrivare alla colonna Walter Alasia. Obiettivo realizzato ai primi di dicembre: e i due brigatisti caduti in trappola saranno ammazzati.
Qui potete leggere il suo contributo alla verità storica.
Qui invece la ricostruzione delle polemiche e delle vicende giudiziarie. L’ha scritta Davide Steccanella, oggi noto come l’avvocato di Cesare Battisti (ma è molte altre cose belle e importanti) per il blog di Paolo Persichetti.

Un “pezzo” di modernariato

Un pezzo di respiro storico, scritto trent’anni fa, nel decennale dell’omicidio di Walter Tobagi, sulla figura del “Barbone di via Solferino”, protagonista del delitto. 
walter tobagi

“Venne Maggio e fu speranza e fu bandiera, bella e nuova e dritta sulla barricata”. Così cantava del ’68 Ivan della Mea, intellettuale proletario e comunista. L’illusione per lui finì presto, si ritrovò “come un cervello gauche disidratato” a cantare di tragedie di lumpen, di alcolizzati dei Navigli e di storie di piccola violenza. I Maggi per lui divennero poi quelli delle feste popolari tradizionali, nell’ Appennino tosco-emiliano, che aveva imparato a conoscere e ad amare al seguito di Gianni Bosio, alla ricerca di una cultura proletaria e contadina in via di estinzione sotto la spinta omologatrice del neocapitalismo.

Aveva poco più di vent’anni nel ’68 Walter Tobagi, si era presentato in redazione all’Avanti ancora liceale e già collaborava, freddo lucido e appassionato. Non sapeva che la sua parabola sarebbe stata nel segno della Passion di Maggio.

Un riformista in Statale

Il suo primo libro raccontava appunto la storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia. Glielo pubblicò nel 1970 una piccola casa editrice milanese, la Sugar.

Un opera di respiro, probabilmente la prima sull’argomento, con qualche approssimazione e molte felici intuizioni. Non ebbe molta fortuna. Perché c’era già dentro tutto Tobagi. La voglia di conoscere, capire, spiegare, senza odio per l’avversario, senza compiacimenti ruffiani verso l’onda di piena.

Non era una storia dall’interno. Erano pochi i riformisti a Milano, in Statale, nel Sessantotto e dintorni. Lui, un giovanotto dalla faccia da bravo figlio, assistente di Dal Prà, un certo Claudio Martelli, e qualche altro, clandestino o comunque ignoto alla vaste masse, come si diceva allora.

Gli intellettuali civettuoli

Gli altri, intellettuali e dintorni, già civettavano col Movimento come mosche cocchiere sulle spalle del cavallo imbizzarrito. Certo non erano ancora gli anni del salotto Crespi ma certa gente ha sempre saputo fiutare l’ aria. Forse non hanno propriamente avuto quel ruolo di suggeritori che i suoi compagni hanno voluto vedere e gridare, contro lo Stato dell’emergenza e della democrazia consociativa, eppure nella tragedia di Tobagi quel coro ha cantato più di una nota dissonante.

Dieci anni dopo studiava già da direttore del Corriere della Sera. Una tarda sera di quel maggio ne parlava con uno dei grandi inviati di via Solferino, a lui particolarmente caro, anche se comunista. Gli avevano offerto un posto nella direzione del Giorno. L’amico gli consigliò di rifiutare. Aveva ancora tempo per migliori occasioni. Non sapevano, invece, che stava per esplodere il congegno a orologeria innescato in un maggio altrettanto tragico -un’arancia meccanica, se volete, che di una violenza assurda e immotivata si tratta, eppure precisa espressione di un conflitto che in qualche modo riconduce alla rivolta contro la società del dominio totalitario-. Non accettò.

Milano, 14 maggio 1977

14 maggio 1977, Milano. Quartiere Ticinese, quel quartiere cantato da Ivan della Mea, delle alcolizzate uccise per amore, degli aspiranti suicidi che vagano nella nebbia. Nostalgie di una Milano proletaria oramai inghiottita e digerita dalla macchina neocapitalista. Nelle case di ringhiera occupate si intrecciano le storie di giovani proletari e di angeli ribelli indecisi tra due possibili traiettorie di morte, tra la guerra allo Stato del partito armato e la guerra a se stessi della scimmia sulla spalla (molte traiettorie finiranno per intersecarsi).

Due giorni prima, a Roma, squadre speciali della Questura hanno stroncato nel sangue la manifestazione pacifica del Movimento che, approfittando dell’anniversario della vittoria del referendum sul divorzio, cerca di riprendersi la piazza dopo mesi di stato d’ assedio e di divieti di manifestazione. Un poliziotto in borghese sul ponte Garibaldi ammazza Georgiana Masi, con un colpo calibro 22.

La biforcazione del 77

Il colpo è decisivo per la definitiva biforcazione del Movimento del Settantasette che già aveva oscillato tra la fantasia eversiva, potente ma disarmata, di Indiani e femministe e la rabbia armata o comunque violenta del 12 marzo e della cacciata di Lama. Chi crede che si sia già troppo giocato col fuoco si ritrae spaurito. Chi pensa che sia invece proprio il momento di giocarsi tutto trae la conclusione che non ci sono più spazi di mediazione pacifista. Se lo Stato ha deciso di sparare su chi è sceso pacificamente in piazza dietro l’ usbergo dei radicali, beh, la parola tocca proprio alle armi.

Barbone

E’ di questo avviso una delle tante bande giovanili dell’Autonomia milanese, Romana-Porta Vittoria. Si qualificano come giovani proletari, ma il sociologo più compiacente si ritrarrebbe indignato di fronte a tanto ardire. La capeggia Marco Barbone, figlio di un manager dell’industria editoriale. Lo spalleggia Morandini jr., figlio di uno dei maggiori critici cinematografici italiani. Cosi’ molte altre bande di giovanissimi che fanno riferimento a quel magmatico aggregato che si esprime pubblicamente nella rivista “Rosso”. Hanno deciso che è il giorno buono per regolare a modo loro i conti con una leadership -i professori Negri e Pancino- che non fa corrispondere le parole ai fatti. Hanno titolato l’ ultimo numero del giornale “Avete pagato caro, non avete pagato tutto”. In copertina troneggia una P38 che spunta da una selva di passamontagna calati e mani armate di spranghe e molotov.

Fuoco sulla “pula”

Si distribuiscono le armi, sotto il carcere di San Vittore si fa fuoco, muore un agente, Custrà [si scoprirà molti anni dopo che in realtà si chiamava Custra, nda]. E’ di quest’anno il rinvio a giudizio: c’è anche Barbone nel mazzo. Nascono quel giorno come realtà organizzativa autonoma le Formazioni combattenti comuniste. Il generale è Corrado Alunni, ex br latitante, secondo ufficiale designato Maurice Bignami, figlio di un partigiano comunista riparato all’estero per evitare la repressione scelbiana, all’epoca detenuto. Nel corso di una perquisizione a casa del professore Negri si è infilato il suo cappotto – si passano circa 25 centimetri di differenza- al cui interno c’erano numerosi moduli in bianco di carte di identità e si è fatto beccare. La truppa è composta dai ragazzini: ma molti sottufficiali sono già convinti di portare nella Tolfa il bastone da maresciallo.

Le FCC sono destinate alla diaspora: la scheggia principale confluirà, dopo l’ arresto di Alunni, in Prima Linea (gli avellinesi si candideranno alle Br ammazzando a Patrica il procuratore Calvosa e per sbaglio un loro compagno, Roberto Capone). Nasceranno poi i Proletari armati per il Comunismo e Guerriglia rossa. Dalla scrematura di quest’ultima banda sorgerà appunto la Brigata 28 marzo, i sei personaggi in cerca d’autore che finiranno col mettere in scena la tragedia di Tobagi.

Il tentativo di Scalzone

Quel pomeriggio del 14 maggio in via De Amicis, con la generosità un po’ fessa che lo caratterizza, c’è Oreste Scalzone, leader di una delle bande rivali dell’Autonomia. Quando comincia la sparatoria cerca di fermare la mattanza. E’ già tardi. Poco discosto, ai margini delle file sparse dei pitrentottisti c’è un fotografo di movimento [in realtà sono due I fotografi: uno è il cognato dello stesso Scalzone e i compagni lo conoscono bene, lui le foto, ovviamente, non le venderà ma gli saranno sequestrate durante una perquisizione, nda] . Scatta quando uno, leggermente sciancato, spara a due mani ad alzo zero. Scatta quando tre ragazzini del Cattaneo, uno armato di una 7.65 inceppata due di molotov, si ritirano spalle alla polizia. Uno dei tre sorride entusiasta. Non sa che quella foto, venduta per quattro soldi all’Espresso, gli costerà una condanna a più di dieci anni per concorso morale in omicidio [Oggi quel ragazzo lavoro come dirigente del Comune di Milano, impegnato sul fronte del recupero sociale e c’è chi ha avuto da ridire sul successo del suo reinserimento, nda]. La morte di Custrà passerà alla storia per lo straordinario impatto visivo di quel colpo mediatico.

E questa generazione che non ha avuto il tempo di vivere l’autunno caldo a Milano -avevano 10 o 12 anni al massimo- non crescerà come i fratelli maggiori brigatisti nel culto della classe operaia, ma con l’ossessione dei media.

L’ossessione per i media

Nei tre anni che separano la morte di Custrà e quella di Tobagi il partito armato consuma essenzialmente la sua catastrofe, dalla “geometrica potenza” di via Fani alla Caporetto dei pentiti. Sempre più separato dalle ragioni di un conflitto sociale che pure ne aveva scandito l’ascesa, sempre più chiuso in una logica autoriproduttiva: così alle nuove leve è consentito costituire bande specializzate. I Pac scelgono il carcere, quelli del Barbone di via Solferino la stampa. Nel passaggio dal terrorismo diffuso alla guerra totale lasciano per strada qualche compagno, come la Caterina Rosenzweig, la compagna del Barbone, che pure continua a vivergli a fianco (a casa di lei, e senza rendersi conto di aver messo le mani sul capo dell’ultima banda assassina, lui sarà arrestato in un’operazione routinaria di controllo). La Caterina, racconterà poi ai giudici un infiltrato dei carabinieri in una banda contigua a quella del Barbone, Rocco Ricciardi, lavora al progetto di rapimento di Walter Tobagi, un anno e mezzo prima del delitto. I carabinieri sono informati in tempo reale. Sapranno così anche che la banda del Barbone nei primi mesi dell’Ottanta ha deciso il salto di qualità. E ha ripreso i vecchi progetti.

La caduta del partito armato

E’ una brutta stagione per il partito armato: la campagna di primavera questa volta la sta facendo lo Stato. Il generale Dalla Chiesa e il capitano Pignero grazie alle confessioni di Peci mettono le mani sulla sede della direzione strategica delle Br a Genova. All’irruzione segue una breve, rabbiosa sparatoria: quattro brigatisti muoiono, un carabiniere resta ferito di striscio. Molti sono convinti – e ora, finiti gli anni di piombo, qualcuno lo dice apertamente- che sia stata poco più di un’esecuzione sommaria. Col duplice obiettivo di incastrare Peci a una definitiva collaborazione e di dare una inequivocabile lezione alle Br, che proprio a Genova hanno lanciato una campagna di annientamento contro i carabinieri. I brigatisti capiscono. Le operazioni militari contro l’ Arma cessano. L’alba del 28 marzo è una data trionfale per la lotta al terrorismo. Seguono di poco le rivelazioni di Sandalo, le massicce retate contro Prima Linea, la fuga precipitosa del giovane Donat Cattin, le accuse a Cossiga di aver in qualche modo “favoreggiato” il suo vecchio compagno di partito.

Di fronte all’esplosione della crisi del partito armato la banda Barbone sceglie la strada dell’ arruolamento. Si trasforma in “Brigata 28 marzo”, prepara la candidatura per l’ingresso nelle Br con una campagna contro i giornalisti. Si comincia con la gambizzazione del Passalacqua, già di Lotta Continua, ora alla redazione milanese di Repubblica. La sua sventura: essere amico del China, Francesco Giordano, uno dei sei. Gli altri: Il Barbone, Morandini, Daniele Laus, Manfredi Di Stefano, Mario Marano. Quest’ultimo l’unico con esperienze precedenti in un’organizzazione combattente, le Ucc. La sua fortuna: la banda sta mettendo a punto sul campo tempi e modi dell’escalation.

Un corto circuito mentale

Il passaggio successivo deve essere necessariamente quello dell’omicidio politico. In questa direzione spinge forsennatamente, in pieno delirio di onnipotenza, proprio Marco Barbone. Sarà lui a forzare i suoi compagni più o meno recalcitranti e ancora titubanti la mattina dell’agguato. L’obiettivo scelto è facile dal punto di vista militare, ambizioso e al tempo stesso gratuito sul terreno politico. Nel volantino di rivendicazione, che Barbone stende – a suo dire – saccheggiando a piene mani da riviste specializzate si percepisce appunto uno iato tra la raffinatezza e articolazione dell’analisi generale e la precipitazione e la casualità del passaggio operativo. Per darsi una ragione i compagni e gli amici di Tobagi si scervelleranno poi alla ricerca di un ispiratore, incapaci di arrendersi alla drammatica realtà giudiziaria che proprio quel pallone gonfiato di supponenza e arroganza fosse il responsabile principale dell’omicidio di Walter Tobagi.

Se però dal terreno giudiziario si passa a quello della responsabilità morale e intellettuale è evidente che pochi, all’interno di un intero ambiente politico e culturale, si possono proclamare innocenti davanti alla Storia.

Un assassinio impunito

A gettare ulteriore sale sulle ferite si sarebbero poi aggiunte la sostanziale impunità dell’assassino, il rovesciamento, nella sentenza di primo grado, del rapporto tra responsabilità e pena, le voci su possibili patteggiamenti di Barbone che ha venduto la sua collaborazione per garantire impunità alla sua compagna, e infine, ultima raffica di dolore e sangue, la consapevolezza che grazie alle confidenze di Ricciardi si sarebbero potuti fermare gli assassini prima.

Della vicenda giudiziaria, del caso Barbone, cioè, non fa comunque qui conto parlarne, che a un’altra pagina della nostra recente vicenda appartiene, e delle più oscure. Storia di infamia e di meccanismi inquisitoriali, fondo dell’abisso della nostra civiltà giuridica negli anni dell’emergenza, perché di questa storia, ancor’oggi nessuno può dire “Giustizia è stata fatta”.

IL GIORNALE DI NAPOLI 28 maggio 1990

1 Comment on “Omicidio Tobagi, i Carabinieri non fermano prima Barbone perché puntano alle Br

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