Il delitto Rabin: l’agente provocatore e il ruolo dei media

Il capo di Amir, il responsabile del delitto Rabin, era un agente dello Shin Bet

Il primo ministro israeliano è ucciso a Tel Aviv alle 21,30 del 4 novembre 1995: il delitto Rabin si consuma al termine di una manifestazione in supporto agli accordi di Oslo in quella che sarà ribattezzata piazza Rabin. Il responsabile, Yigal Amir, è un militante della destra radicale, cresciuto in una famiglia ortodossa di origini yemenite, ben noto come strenuo contestatore dell’iniziativa di pace.

Amir – nascosto tra la folla – lo uccide con due colpi di pistola alla schiena e ferisce anche una guardia. L’arma del delitto è una Beretta semiautomatica calibro 9×17. Un aspetto interessante e poco noto in Italia della vicenda è che Amir militasse in un minuscolo gruppo estremista, Eyal, il cui leader era un agente provocatore dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna. Da un saggio inedito sull’ultradestra israeliana vi anticipo il paragrafo sulla figura dell’infiltrato e dal ruolo importante giocato dai media nella costruzione della sua immagine

Raviv: sono prigioniero politico

Fa il duro quando lo arrestano la mattina dell’8 novembre. Avishai Raviv, nome in codice Champagne, è un colono residente in Cisgiordania. Quando compare in tribunale dichiara: “Mi considero prigioniero politico in uno Stato dittatura”. In un opuscolo pubblicato qualche mese prima contro il processo di pace e il kapò Rabin aveva scritto: “Nostro fine è combattere i nazisti arabi e i loro collaborazionisti ebrei”. Subito dopo l’attentato – millantando un velleitario passaggio alla clandestinità – si era fatto intervistare dalla radio militare israeliana dichiarando l’estraneità di Eyal ma ammettendo la militanza nel gruppo dei fratelli Amir.

Già denunciato come provocatore

Il suo ruolo provocatorio era stato denunciato pochi mesi prima da un avvocato militante nei Fedeli del Monte del Tempio, un’organizzazione dell’ultradestra religiosa che ne promuove la ricostruzione sul suo antico insediamento, oggi occupato dalla Cupola della Roccia, terzo sito sacro dell’Islam. Howard Grief scrive il 25 agosto 1995 al Jerusalem Post:

“Non sono mai stato coinvolto nel gruppo estremista Eyal ma ho incontrato Avishai Raviv durante una dimostrazione a Gerusalemme dei Fedeli del Monte del Tempio allorché mi aiutò a proteggere Gershon Salomon (presidente del movimento) quando la polizia lo trascinò via dal Mougrabi Gate (uno degli ingressi della Spianata delle Moschee, ndb), facendolo cadere e svenire (…)

Sono sicuro che fu Avishai ad aiutarmi a tenere la gente a distanza. Prima dell’incidente avevo incontrato Avishai Raviv nell’ufficio dei Fedeli del Monte del Tempio, dove era venuto con qualcun altro. Egli invitò il cugino di Gershon Salomon e me al suo appartamento di Hebron ma più tardi mi fu spiegato che era un informatore e che la polizia voleva falsamente associarlo al nostro movimento.

Lui aveva tentato di aprirsi un ufficio nel campus di Tel Aviv con un’insegna Fedeli del Monte del Tempio sulla porta o qualcosa di simile e Gershon lo aveva perciò immediatamente diffidato e diffuso la notizia che lui non aveva rapporti e non era a nessun titolo rappresentante del Movimento. Questo è quello che ricordo dell’agente provocatore Avishai Raviv e del suo falso gruppo Eyal”.

Dal Kach di rabbi Kahane ai servizi segreti

Il servizio segreto se l’era coltivato in giovane età: a 20 anni, nel 1987, da militante del Kach, il movimento razzista del rabbino Kahane [che peraltro era stato ucciso giusto cinque anni prima, ndb] era stato spinto a partecipare alle violenze antiarabe nei Territori occupati, in particolare nella zona di Hebron e Kiryat Arba, e a schedare i militanti radicali contrari agli accordi di Oslo.

Il suo piccolo gruppo si distingue per l’aggressività delle tattiche adottate: pestaggi di arabi innocenti e di esponenti della sinistra israeliana, incendio di autovetture, distruzione delle insegne stradali verso i Territori occupati, scritte sui muri con rabbiosi slogan contro Rabin.

Un curriculum perfetto da controrivoluzionario

Il suo pedigree di militante controrivoluzionario era impeccabile: era stato espulso dall’Università di Tel Aviv per comportamenti violenti e si era trasferito nel santuario dell’opposizione agli accordi di pace, l’università ultraortodossa di Bar Ilan, dove Amir studiava legge. Nella costruzione della immagine di Raviv come leader movimentista un contributo decisivo è assicurato dal barnum mediatico: prima dell’omicidio del premier è filmato mentre mostra una immagine di Rabin vestito da SS.

Un giornalista legato ad Ariel Sharon, Uri Dan, scrive di un testimone che ha udito Raviv sfidare Amir: “Sii uomo. Uccidilo!“. L’occasione: una festa universitaria, alla presenza di diverse ragazze. Una provocazione subdola nei confronti di un giovane “provinciale” e assai timido.

L’istigazione di un giovane timido

Il suo ruolo spinge la frangia più estrema del movimento dei coloni ad avanzare una teoria del complotto: lo Shin Bet , tramite Raviv, ha istigato Amir a organizzare l’omicidio per discreditare la destra radicale. Del resto, durante il processo per l’omicidio, Raviv nega di aver conosciuto il piano e smentisce di essere al soldo del servizio segreto.

La linea di difesa adottata dall’agenzia è che il giovane è solo un informatore. Indagini indipendenti smantellano la menzogna: Raviv non è un semplice collaboratore ma un autentico agente provocatore. In un inquietante gioco di specchi, testimoniando al processo contro Raviv, il comandante Ayalon si attribuisce la decisione di aver consentito alla messa in stato di accusa dell’infiltrato proprio per avallare la teoria cospirativa .

Lo scandalo esplode due anni dopo

La polemica esplode nell’autunno 1997, con la pubblicazione della parte declassificata del rapporto Shamgar sull’omicidio Rabin e il duro attacco dell’indipendente Osservatorio dei Media al sistema dell’informazione mainstream. Così si offre al grande pubblico la vicenda clamorosa di Raviv, cioè del leader estremista che agisce per conto della struttura di sicurezza interna, forte di una garanzia di totale impunità.

Il testo della commissione d’inchiesta si sofferma in particolare sul ruolo giocato dai media nel caso. Le stazioni televisive contribuiscono a promuovere l’immagine e quindi l’esistenza stessa di Eyal. Nel 1991 il tg nazionale diffonde la lettera di minacce indirizzata al leader druso della Società degli studenti dell’Università di Tel Aviv, assicurando così straordinaria visibilità al piccolo gruppo.

Analogo ruolo è giocato da un reportage sulla cerimonia di adesione al movimento, in cui i nuovi membri di Eyal sono ripresi mentre impugnano la Bibbia e una pistola (un endiade a noi ben nota). Un servizio “pezzottato” ma di grande impatto emotivo che assicura un forte ritorno propagandistico a Eyal che si vede così accreditato sulla scena politica nazionale.

Il ruolo della Tv di Stato

Israel’s Media Watch chiede esplicitamente conto al direttore della tv di Stato, Yair Stern della decisione di diffondere il servizio in una fascia di elevato ascolto mentre invita il portavoce della televisione, Tzvi Lidar, a riferire delle verifiche effettuate sull’autenticità dell’evento, sembrando il servizio “costruito”: alcuni incappucciati armati di pistola giuravano sulla Bibbia di essere pronti a uccidere i traditori di Eretz Israel anche se ebrei.

Lidar se la cava replicando che non sa su cosa quest’impressione si fondi e poi, dopo un’altra richiesta, conferma la correttezza del servizio diffuso. La commissione Shamgar è di diverso avviso: “Raviv mantenne i rapporti con i media allo scopo di presentare Eyal come un corpo esistente e ricevette l’aiuto della televisione [Canale Uno] nella produzione della cerimonia di giuramento che non era niente più di un falso”.

La negligenza dei media elettronici – che si sottraggono al dovere di verifica delle fonti – diventa un “fattore di sostegno” al successo di Raviv. Il rapporto condanna esplicitamente la televisione per essersi impegnata, in parte, a creare una realtà virtuale funzionale alla crescita di Eyal, che altrimenti avrebbe continuato a esistere solo nelle intenzioni e nei discorsi di Raviv.

Messinscena a favore dei media

Invece, col consenso dei manovratori, l’infiltrato può titillare i reporter offrendo materiali imperdibili: dall’addestramento dei giovani alla guerriglia urbana alle ronde minacciose sulle strade di accesso a Hebron.

Così pianifica un’irruzione armata all’Orient House, la sede dell’Olp a Gerusalemme Est, ed esalta Baruch Goldstein: la foto del provocatore che prega sulla tomba del “martire” ha ampia diffusione. Il messaggio che passa è chiaro: “Non ci dispiace, naturalmente, che gli arabi muoiano”. Queste azioni banalizzate sono divulgate come rappresentative della Destra. Nessun reporter investigativo né produttore televisivo è intrigato dalla figura di Raviv tanto da mettersi sulle sue tracce e scoprire il castello di falsità da lui costruito.

PS: Processato nel 2000, per non aver prevenuto l’omicidio Rabin, si difenderà sostenendo che la situazione era sfuggita al suo controllo

 

 

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

1 commento su “Il delitto Rabin: l’agente provocatore e il ruolo dei media

  1. INTERNAZIONALE
    4 novembre 2015

    opinioni

    Vent’anni dopo, Netanyahu non ha ancora chiesto scusa per la morte di Yitzhak Rabin
    di NEHEMIA SHTRASLER, Haaretz, Israele

    Sono passati vent’anni e Benjamin Netanyahu non ha ancora chiesto perdono a Dalia Rabin. Lei, forse, lo perdonerebbe. Sono vent’anni che aspettiamo questa richiesta, e il sangue di Yitzhak grida vendetta dalla terra. Non riposerà in pace finché non saranno offerte, e accettate, delle scuse.
    Per vent’anni abbiamo nascosto la questione come polvere sotto il tappeto. Vogliamo solo andare avanti con le nostre vite. È questa la ragione dietro all’assurdo consenso per non mettere sotto inchiesta chi ha guidato la terribile campagna d’odio che ha portato all’uccisione di Rabin. Ma non basta. La ferità non si rimarginerà mai.
    In tutti questi vent’anni non sono mai stati interrogati i rabbini che chiamavano Rabin un moser (informatore), una definizione che, secondo la legge rabbinica, prevede una condanna a morte. Oppure i leader dei coloni che lo hanno definito un traditore, una definizione che comporta l’impiccagione. Non sono mai stati indagati i responsabili delle cerimonie cabalistiche, le pulsa denura, con cui hanno lanciato una maledizione su Rabin invocando per lui una morte crudele.
    Né sono mai stati messi in discussione quei politici, importanti esponenti del Likud, primo tra tutti Benjamin Netanyahu, che sono apparsi su un balcone a Zion Square, a Gerusalemme, infiammando la folla. Avevano visto i manifesti che ritraevano Rabin vestito con un’uniforme delle Ss, ma non hanno protestato, fermato o condannato quanti gridavano “assassino”, “traditore” o “nazista”. E poi c’è stata la manifestazione del 1994 a Ra’anana, guidata da Netanyahu, durante la quale alcuni uomini trasportavano una bara coperta da un velo nero e con sopra il nome di Rabin.
    Una manifestazione contro il primo ministro Yitzhak Rabin e gli accordi di Oslo a Hebron, il 28 settembre 1995. (Jim Hollander, Reuters/Contrasto)

    È vero, Netanyahu non voleva un omicidio. Non s’immaginava che l’istigazione si sarebbe conclusa così. Ma questa sa come guidare la mano verso il coltello o il dito al grilletto. Netanyahu sa bene dove porta l’instabilità fomentata a proposito della moschea Al Aqsa di Gerusalemme.
    A dire il vero, c’è stato un politico che aveva capito a cosa avrebbe portato tutta questa istigazione. Chiese alla folla di moderare i toni, ma a quel punto la folla si rivoltò contro di lui, cominciando a fischiarlo, e lui scese dal palco. Quella persona era David Levy, l’ex ministro degli esteri del Likud che, anche solo per questo, si è guadagnato un posto d’onore nella storia.
    Poi sono venute le elezioni del 1996, alle quali Netanyahu ha sconfitto Shimon Peres per un soffio (trentamila voti). Per questo è chiaro che se ci fosse stato Rabin, che era molto più popolare di Peres, ad affrontare Netanyahu, avrebbe vinto facilmente, portando avanti il processo di Oslo. Oggi ci troveremmo in una situazione completamente diversa: in pace e con accanto uno stato palestinese.
    Con Netanyahu al potere, i palestinesi non hanno niente da perdere. Non hanno alcun orizzonte né alcuna speranza
    La destra sostiene che gli accordi di Oslo hanno prodotto solo vittime e morte. È vero il contrario. Quegli accordi sono stati fatti a pezzi da Netanyahu immediatamente dopo che è salito al potere, nel 1996. Ha aperto il tunnel sotto il muro occidentale, infiammando Gerusalemme, ha provocato un bagno di sangue in Cisgiordania, espanso gli insediamenti, eroso il rapporto di fiducia con Yasser Arafat e volontariamente distrutto ogni possibilità di ulteriore attuazione degli accordi. È questo il motivo di tutti gli attacchi terroristici, tutti gli omicidi e gli accoltellamenti che sono seguiti. Con Netanyahu al potere, i palestinesi non hanno niente da perdere. Non hanno alcun orizzonte né alcuna speranza, solo occupazione, prepotenza, sottrazione di terra, povertà e disoccupazione.
    Non molti lo sanno ma all’epoca Rabin stava anche discutendo col presidente siriano Hafez Assad un possibile accordo di pace. Basterebbe solo ricordare come sia stato in grado di creare delle straordinarie basi di fiducia con re Hussein di Giordania, che hanno poi portato a un accordo di pace nel 1994, per comprendere la sua strategia: la pace porta sicurezza.
    Se fosse stato vivo e ancora primo ministro nel 2002, non si sarebbe mai lasciato scappare l’Iniziativa di pace araba. Avrebbe afferrato quell’opportunità con entrambe le mani, usando gli interessi reciproci che abbiamo con Egitto, Arabia Saudita, Giordania e gli stati del golfo per combattere insieme l’islam radicale e omicida.
    Tutto il contrario di Netanyahu, che non può fare a meno di paura, odio, guerra e disperazione, come ha dichiarato egli stesso appena una settimana fa, citando il libro di Samuele: “La spada divorerà in eterno? Se abbassiamo la nostra spada, la loro ci consumerà”. Questa è la sua visione.
    Ripensandoci, forse, non c’è motivo di aspettarsi che chieda perdono.

    (Traduzione di Federico Ferrone)

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