Il nostro generale, una fiction che non funziona
La fiction sul generale Dalla Chiesa ci sta dando molto da fare. In questi giorni infatti, dopo l’ondata di lettori sui post che riguardavano la storia delle Brigate rosse in coincidenza con le prime puntate, ho deciso di concentrare il lavoro di riordino dei materiali del blog (aggiornamenti, inserimento dei link, elenchi puntati, ecc.) su questa “area tematica”. C’è, come sempre, nelle mie cose, tanta roba. E così mi sembra interessante rendervi partecipe anche della discussione sulla serie televisiva che pure dietro lo schermo della “finzione” offre una ricostruzione storica dettagliata anche se ovviamente “partigiana”. Vi propongo quindi le riflessioni di Davide Steccanella, avvocato e cultore della materia “anni di piombo” (suo il prezioso Gli anni della lotta armata, una cronologia molto accurata
Due anni decisivi
Ieri sera, dopo avere visto su Netflix l’ultima puntata del bellissimo “La vita bugiarda degli adulti” (la giovane protagonista e Valeria Golino strepitose), mi sono guardato su Raiplay due puntate dello sceneggiato su Dalla Chiesa di cui in tanti mi parlavano, e che, in realtà, ben sapendo quale sarebbe stato il “taglio” proposto agli spettatori dalla rete ammiraglia, mi attraeva ben poco.
Ho scelto la parte centrale relativa agli anni 1980 e 1981 che ritenevo la più significativa per i fatti accaduti in quel biennio (il “pentimento” di Patrizio Peci, l’eccidio di via Fracchia, l’arrivo del generale alla Pastrengo di Milano, il “pentimento” di Barbone, la rivolta nel carcere di Trani con l’omicidio del generale Galvaligi, e l’anno dopo il sequestro di Roberto Peci da parte del partito guerriglia di Giovanni Senzani, la P2 ecc).
Angeli e demoni
Solita sceneggiatura che vuole, secondo previsioni, da una parte tutti i carabinieri del generale bravi, buoni e umanizzati, e dall’altra tutti i “terroristi” brutti, sporchi e cattivi, a parte quello che ne fa catturare una marea per uscire di galera lui.
Come sempre (accadeva anche con Marco Bellocchio) i militanti armati di quegli anni sembrano dei trogloditi, esattamente come in altre fiction i mafiosi vengono invece rappresentati in stile Remo Girone alla Padrino e Gotti, anche se poi nella realtà l’impressione che si trae è esattamente opposta. Non è casuale se ci si pensa, perché per i terroristi, siccome agivano per motivi ideologici, occorre ridurne il potenziale intellettivo, mentre per i mafiosi, che invece agiscono per fini lucrativi, occorre innalzarlo.
Nulla di nuovo amen, così come tralasciamo su alcune evidenti incongruenze in alcuni punti, finalizzate alla narrazione che si vuol dare.
La fidanzata di Peci
Maria Rosaria Roppoli, ai tempi compagna del Peci, fatta passare per “manovrata” da altri quando si costituisce rivendicando la propria militanza rivoluzionaria, come se fosse così “strano” agli inizi del 1980, e quindi ancora in piena ”guerra” (parole del generale non mie), che a una che aveva scelto la clandestinità per combattere lo Stato risultasse un osceno traditore un compagno che fa arrestare dalle guardie chi fino al giorno prima gli copriva le spalle mentre lui le combatteva.
Oppure Walter Tobagi che già il giorno dopo l’eccidio genovese di via Fracchia sa che Riccardo Dura era l’assassino di Guido Rossa, quando solo dopo alcuni giorni si arrivò ad identificarlo e solo grazie al volantino delle BR, oppure l’arresto casuale del Peci in piazza Vittorio perché uno dei carabinieri lo riconosce mentre il collega è su una giostra coi bambini, né si capisce come mai sin da subito il Generale avrebbe “intuito” che sarebbe stato il primo pentito delle BR che gli avrebbe fatto vincere la “guerra” (visto che al momento dell’arresto non era neppure uno dei vertici).
Omissioni ed eccessi di fantasia
Si descrive il mancato arresto di Natalia Ligas, ferita dopo il fallito attentato all’avvocato De Vita, come un errore nell’individuarne l’appartamento, ben diversamente ricostruito nel docufilm “Diario di una lotta” di Netflix tratto dalle memorie dirette del colonnello Di Petrillo, si omette di riferire che dopo la rivolta di Trani lo Stato effettivamente schiuse ai militanti l’ Asinara come da loro richiesto.
Si rappresenta un carabiniere che sconvolto umanamente dall’eccidio di via Fracchia chiede di sostituire i proiettili in dotazione con altri più “leggeri”, però solo qualche mese dopo ci sarà a Milano l’esecuzione dei crivellati di colpi alla schiena Walter Pezzoli e Roberto Serafini davanti alla bocciofila Cagnola di via Varesina, e non saranno gli ultimi.
Peccati veniali, ci mancherebbe, ma assai meno veniale è invece avere messo in bocca al Generale, nel colloquio in auto con il figlio, una frase che riassume l’intero senso che gli autori hanno voluto dare a questo lavoro, ancor più, a mio parere, di celebrare il Generale ucciso dalla mafia.
Sono certo che mai il generale che ha combattuto per anni la lotta armata italiana (e che quindi ben la conosceva) avrebbe potuto dire al figlio che gli chiedeva come facesse ad essere sicuro di vincere quella guerra, una frase idiota tipo: “perché sono dei ricchi e non dei veri proletari”.
Il vero scopo della fiction
L’avergli messo in bocca quella, peraltro, clamorosa falsità (BR e Prima Linea sono nate nelle fabbriche, i NAP nel sottoproletariato illegale, e le ricerche successive sulla provenienza sociale delle migliaia di militanti armati di quegli anni attestano oltre il 90 % di composizione operaia o comunque di estrazione economicamente più che modesta), rivela il vero intendimento strumentale della fiction.
Negare che la lotta armata di quegli anni sia stato il punto estremo di un gigantesco conflitto sociale che aveva contrassegnato in diverse forme almeno vent’anni del dopoguerra italiano, e ridurre il tutto alla follia ideologica di alcuni isolati, indotta da chi voleva attentare alla nostra bella democrazia, come dice Sandro Pertini nel discorso di fine anno agli italiani, ha una finalità ben precisa che non credo sia necessario spiegarla.
Fu una guerra, come dice più volte il generale, e la storia da sempre la scrive chi quella guerra la vince, per cui, giudicando il prodotto, resta la buona prova di Sergio Castellitto che anni prima aveva interpretato Tobagi al cinema, il quale, sempre nella fiction (arridaje), si dice “ucciso da un gruppo di giovani bene”.
Costava tanto informarsi prima, visto che erano in sei in quel gruppo di Barbone e non 100, e così scoprire che due di loro erano operai proletari, figli di emigrati di quegli anni socialmente ostili del dopoguerra italico?
ciao,di solito non guardo le “ricostruzioni storiche” e non farò eccezione, ma da quanto hai scritto si deduce che di “fratel mitra” si tace… hanno fatto bene perché far vedere alla gente come si manipola il sistema mediatico potrebbe stimolare un parallelo sulle manipolazioni quotidiane dei fatti ucraini…
…buon lavoro
Puccio
… mi pare che di “fratel mitra” non si parli… forse imbarazza mostrare le manipolazioni del sistema mediatico… la gente potrebbe fare paralleli con le manipolazioni dei fatti d’Ucraìna..
…Puccio