In morte di Toni Negri. Un gigante del pensiero, un buon maestro

Massimo Cacciari e Toni Negri

È morto un filosofo di rilievo internazionale, uno dei pochissimi italiani contemporanei a esserlo, amico e collaboratore dei Deleuze, dei Matheron, dei Guattari, autore di opere che hanno segnato la discussione politica come Empire, pubblicato con Hardt dalla Cambridge University Press nel 2000 e tradotto in tutte le lingue (in Italia per Bur con il titolo Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione). Augurabile che tutti coloro che vorranno parlare della scomparsa di Toni Negri lo sappiano e lo ricordino, augurabile che gli interventi sulla sua fine non si riducano alla miserabile misura delle cronache nostrane.

Se si dovrà, come anche si dovrà, parlare della sua storia politica, che ciò avvenga all’altezza delle tragedie dell’epoca che ha, e abbiamo, attraversato tra anni Sessanta e Ottanta, senza tirare ancora in ballo le follie giuridico-storiografiche di chi lo indicò come ispiratore, se non addirittura “grande vecchio”, del terrorismo brigatista. Follie che gli costarono anni di galera e di esilio – e ad altri anche peggio. LEGGI TUTTO

Cacciari e il professore

L’attacco dell’articolo sulla Stampa di Massimo Cacciari in morte del “professore” definisce i termini essenziali della “questione Negri”. Un gigante del pensiero, un genio della pre-visione sociale che ha commesso qualche scostumatezza, qualche meschinità. Falli di reazione, appunto, alle feroci infamie che ha dovuto patire da innocente nel processo 7 aprile.
L’accusa di essere il capo delle Brigate Rosse (con cui aveva brevemente flirtato nella stagione che precede l’ “attacco al cuore dello Stato”). Quella ancora più obbrobriosa di essere il mandante del sequestro e della morte di Carlo Saronio. Un frutto del delirio di un suo stretto collaboratore, Carlo Fioroni. Il “professorino” che, pentitosi, gli trasferì l’onere della colpa in un classico da psicoanalisi. Proiezione e rimozione.

‘O trave ‘e fuoco a Pannella

Marco

Così la scelta dell’innocentismo finì per travalicare il campo della difesa giuridica (per altro negando anche qualche evidenza) per farsi battaglia politica. Quanto alla scelta della fuga dopo la decisione di Marco Pannella di negargli i voti per ottenere l’immunità parlamentare, in tanti (ex detenuti) mi hanno spiegato (e convinto) che il diritto all’evasione è più forte e potente del dovere di onorare gli impegni.

La diversa scelta di Tortora

Ammesso che ne avesse presi. E’ per me probabile, invece, che abbia “fatto il furbo”. Lasciando parlare Pannella sulla necessità di portare al limite le contraddizioni della giustizia ingiusta con una tattica gandhiana. Con il deputato che se ne doveva tornare in carcere, offrendo il suo corpo in ostaggio. Ci vorrà, un anno dopo, un galantuomo liberale come Enzo Tortora per dare testimonianza di uno stile radicale nella lotta all’imperante malagiustizia. Anche egli bersaglio di folli e infamanti accuse, si riconsegnerà innocente a un’ingiusta detenzione .

Dei primi passi comuni in politica Cacciari ha parlato all’Ansa, nel giorno della scomparsa di Negri :

“Ho cominciato a fare filosofia e politica con lui sessanta anni fa. Poi ci sono state fasi diverse. Ma Negri è un grande studioso di filosofia e di filosofia del diritto che ha scritto libri importantissimi di rilievo internazionale”.

Dai Quaderni Rossi a Classe Operaia

Qualche anno fa – ricorda l’agenzia di stampa, in un’intervista a la Repubblica, Cacciari rivelò di aver rotto con Negri “quando pensò che il ’68 fosse il preambolo della rivoluzione”. È passata una vita dalle serate a Porto Marghera, punto di riferimento delle lotte negli anni ’60. Quando si apriva la sede del comitato agli operai che uscivano dalla fabbrica e si discuteva con loro.

I due filosofi condivisero l’esperienza di Classe operaia, la rivista nata per rottura dai Quaderni rossi, e che rappresenta il più potente think tank della sinistra radicale degli anni 60 e 70. Una squadra fortissima, fatta di gente fantastica: Mario Tronti (direttore), Sergio Bologna, Alberto Asor Rosa, Rita Di Leo, Gasparo De Caro, Enzo Grillo, Luciano Ferrari Bravo. E poi Gianfranco Faina e Riccardo D’Este, i futuri leader dell’anarco-situazionismo armato. E i giovanissimi Adriano Sofri (22 anni) e Massimo Cacciari (appena venti).

Del resto se, in tutta evidenza, se Quaderni Rossi è una realtà torinocentrica, in Classe operaia prevale il peso del polo industriale di Marghera, dove prende forma, nel 1967, la struttura organizzativa del Potere operaio veneto-emiliano (Negri+Bologna) che andrà a fondare, con la corrente operaista romana di Piperno e Scalzone, nell’estate 1969 Potere operaio

La spaccatura di Classe operaia

E proprio nel ’68 il gruppo si spacca. Da una parte chi vede nell’insorgenza studentesca ma anche operaia l’inizio della “lunga marcia” rivoluzionaria. Dall’altra chi invece (la triade Tronti-Asor Rosa-Cacciari), a partire da un giudizio pessimista sulla potenza dell’autonomia operaia, punta sull’ “autonomia del politico”. Sceglie così l’entrismo nel Pci, per poi diventare del tutto organica al riformismo berlingueriano. Il paradosso è che i primi episodi che anticipano l’autunno caldo hanno luogo proprio in Veneto. Il 19 marzo a Valdagno la rivolta contro il paternalismo dei Marzotto, con la statua del conte distrutta e 200 arrestati. I primi giorni di agosto a Porto Marghera la lotta dura degli operai del Petrolchimico che bocca il polo industriale veneziano.

L’esperienza napoletana

Circoli trontiani sono attivi ancora all’inizio degli anni ’70. E’ il caso – parlo per esperienza diretta – del Centro Carlo Marx di Napoli. Un gruppo universitario che sfornerà una bella squadra di accademici tra filosofia del diritto e scienze politiche. Lì a 15 anni resto folgorato da ‘Operai e capitale‘ mentre non mi prendo per niente con Galvano della Volpe. E già. Perché i miei compagni professori erano andati alla matrice. Il “maestro” dei principali teorici dell’operaismo (da Panzieri e Tronti) è infatti – ma pochi lo ricordano – un gentiliano di sinistra, che da un idealismo critico approda nei primi anni ’40 al materialismo dialettico e al Pci, in cui resterà sempre ai margini dalle filiere di potere culturale e accademico.

PS, sulla generosità intellettuale di Negri

Dalla pagina Facebook di Chicco Galmozzi

Un ricordo fra i tanti, di fuori e dentro, un dettaglio minore ma ora mi è venuto in mente questo. Stava in cella di fronte alla mia. Non avendo meglio da fare stavo leggendo la Fenomenologia di Husserl. Non capendoci un cazzo gli chiesi una precisazione su un passaggio. Dopo poco mi fece portare dal lavorante quattro pagine fitte di spiegazioni. Visto in televisione poteva sembrare antipatico ma non era uomo da talk show…in realtà era persona adorabile sempre disponibile senza alcuna arroganza o alterigia. Un bravo maestro.

Ora toccherebbe spiegare bene quest’idea del “buon maestro” che ovviamente contrasta con la narrazione dominante. E quindi tocca fermarsi e rimandare a una seconda puntata

[1-Continua]

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

1 Comment on “In morte di Toni Negri. Un gigante del pensiero, un buon maestro

  1. TONI NEGRI, I CURDI…E FORSE UN PO’ DI NOSTALGIA

    Gianni Sartori

    Chi l’avrebbe mai detto che un giorno mi sarei – almeno in parte – “riconciliato” con Antonio Negri? Anche se solo al momento della sua dipartita.

    Mi spiego e riassumo. Tanto per la cronaca, di persona non l’ho mai incontrato. Tuttavia tra il 1970 e il 1971 frequentai per incontri e riunioni la vecchia sede vicentina di Potere Operaio (da ora PotOp), la prima, quella di Santa Caterina (tra el Porton del Luzo e le scaete de MonteBerico).

    Oltre naturalmente a decine di manifestazioni sia a Vicenza che a Padova.

    La presenza di “Toni”, come lo chiamavano familiarmente e quasi affettuosamente i due capetti del PotOp vicentino (tanto per far sapere – a noi di bassa manovalanza – quanto lo frequentassero abitualmente), aleggiava pervasiva – una sorta di entità di ordine superiore – nelle conversazioni e nelle discussioni (in genere animate). Diciamo che mentre loro pendevano dalle labbra del “profeta operaista”, anche a distanza, personalmente avevo qualche difficoltà nel decifrarne sofismi e concetti perentori*. Negli anni successivi avevo inoltre criticato, nel senso di analizzato, alcuni comportamenti non sempre coerenti. Per cui, a conti fatti, lo avevo escluso dal mio affollato pantheon personale (dove invece trovavano spazio personaggi anche diversi come Victor Serge, Carlo Rosselli, Lumumba, Ruth First, Durruti, Thomas Sankara…e più recentemente Ocalan).

    Avendo poi, prima per necessità poi per scelta**, svolto per anni attività poco intellettuali, sia come facchino (con le famigerate, anche allora, “cooperative”: in realtà una copertura per il lavoro nero) che da operaio, avevo sviluppato una certa idiosincrasia nei confronti dileader,capetti di buona famiglia e docenti universitari.

    Se poi aggiungiamo – da parte mia – una innata propensione antiautoritaria, si spiega come ad un certo punto (stufo di sentirmi dire con insistenza “…faremo come in Spagna…”, un richiamo al maggio ’37 di Barcellona) presi il largo (pur mantenendo con alcuni, pochi, rapporti di amicizia personale).

    C’era anche dell’altro ovviamente, magari con il senno di poi. Le responsabilità morali di una parte dei dirigenti di PotOp (ma dei romani, non di Negri) nel rogo di Primavalle del 1973 in cui persero la vita i due fratelli Virgilio e Stefano Mattei. Soprattutto l’aver lasciato credere a tanti militanti in buona fede che la responsabilità di quelle due morti orribili andava accreditata ai neofascisti. Paragonandole addirittura – in uno slogan spesso scandito nei cortei – alle stragi (quelle sì opera dei fascsiti) di Piazza Fontana e Brescia.

    Questo proprio non l’avevo mai perdonato a chi presumibilmente era al corrente delle reali dinamiche fin dai primi giorni e non ne aveva parlato. Come poi ammise uno dei dirigenti: “Se Potere Operaio fosse stato veramente un’organizzazione rivoluzionaria…li avremmo fucilati”. Con l’evidente sottinteso che in realtà non lo era, non compiutamente almeno.

    E INVECE…

    E invece ora scopro, se pur tardivamente, che il Negri godeva di grande considerazione presso i Curdi.

    Doveroso quindi da parte mia ripensarci.

    Dato che considero i curdi, in particolare quelli che stanno lottando per il Confederalismo democratico, una delle poche realtà politicamente (e umanamente) decenti sull’attuale globo terracqueo.

    Così ha commentato, rendendogli omaggio, la scomparsa del filosofo il Consiglio Esecutivo del KNK (Congresso Nazionale del Kurdistan): “E’ con grande tristezza che abbiamo appreso della morte del filosofo Antonio (Toni) Negri a Parigi, la notte scorsa” . Aggiungendo, dopo le condoglianze (“profonde e sincere”) alla famiglia che “Toni Negri fu un caro amico del popolo curdo, sempre disposto a fare quanto era necessario per far avanzare la causa del Movimenti di Liberazione del Kurdistan”.

    Spiegando come Negri ( “uno dei maggiori filosofi del secolo scorso” ) fosse un “avido lettore dei libri di Abdullah Öcalan che aveva definito come l’Antonio Gramsci della sua terra”.

    In varie occasioni Negri aveva preso pubblicamente posizione contro quella che definiva senza mezzi termini “la guerra genocida dello Stato turco contro il popolo curdo”, in particolare nel nord e nell’est della Siria invasa dalle truppe di Ankara e dai mercenari jihadisti.

    Non solo. Aveva pronunciato parole inequivocabili anche in merito all’ingiusta detenzione di Abdullah Öcalan in quanto:

    “Come Mandela nel XX secolo, così Öcalan è diventato un prigioniero leggendario nel XXI”.Elaborando una serie di concetti che passo dopo passo si avviano a diventare “i pilastridella costruzione di un nuovo mondo”.

    Commentando il testo di Öcalan “Manifesto per una civilizzazione democratica” aveva scritto: “Mi piacerebbe veramente poter esprimere direttamente a Öcalan il mio rispetto per la sua persone e l’onore che provo nel presentare i suoi libri”.

    Negri considerava questa opera semplicemente “straordinaria”.

    Un libro scritto da un uomo incarcerato e tuttavia capace di “sviluppare un pensiero che distrugge ogni serratura”.

    La testimonianza indelebile di “un leader politico che in condizioni impossibili continua a rinnovare un insegnamento etico e civile per il suo popolo. Un Antonio Gramsci per la sua nazione. Un esempio per tutti”.

    Qui , spiegava Negri, Öcalan affronta il dualismo (classe e civilizzazione)che ha contraddistinto la nostra vita fin dalle origini, dai primordi: “da un lato lo Stato, dall’altro la comunità”. Quello che emerge, sia sul piano antropologico che etnologico, è che la struttura sociale della Mezzaluna Fertile e del successivo sviluppo della società civilizzata sarebbe sostanzialmente “una grande metafora, un paradigma che anticipa la moderna società capitalistica”.Una prova della sostanziale “falsità della pretesa del capitalismo di rappresentarsi come un sistema finale, definitivo”.

    Detto fuori dai denti “che il capitalismo costituisca la fine della storia”, uno statu quo stabile e permanente.

    Una prevaricazione protrattasi in epoca moderna con lo sfruttamento del proletariato e resa possibile anche – o soprattutto – dall’egemonia ideologica perpetrata dagli Stati.Fondamento della coercizione, della tirannia, dell’oppressione

    Invece entrambi i pensatori, burlandosi di questa pretesa infondata, si richiamano alla “lotta (le cui origini risalgono ad almeno cinquemila anni) tra la civilizzazione-Stato e la civilizzazione democratica (costituita dalle comunità agricole e marginali antecedenti allo Stato).

    .

    Come è noto Öcalan individua fondamentalmente tre elementi negativi operanti nella civilizzazione contemporanea: gli Stati-nazione, il capitalismo e il patriarcato. Costitutivi della famigerata “modernità capitalistica”.

    Con l’autonomia democratica il movimento curdo si prefigge di ricreare una società politica e morale decolonizzata, quellache la modernità capitalistica aveva infranto. O almeno ci stanno provando come in Rojava.

    Un superamento anche di quel “nazionalismo primitivo” che identificava l’autodeterminazione delle Nazioni senza Stato con l’aspirazione alla costruzione di un ennesimo Stato-nazione.

    Forse con una certa dose di approssimazione Negri aveva stabilito una qualche assonanza, analogia tra la lotta attuale dei curdi e i “movimenti autonomi della seconda metà del secolo scorso”. In particolare per la loro contrapposizione rispetto ai movimenti terzomondisti del tempo.

    Personalmente non credo sia il caso di stabilire parallelismi tra le insorgenze italiche degli anni settanta e l’attuale resistenza curda. Stiamo parlando di cose assai diverse, per certi aspetti antitetiche. Nel primo caso ci troviamo immersi nel pantano di rapporti sociali in via di frammentazione, dissoluzione. Tra lo sradicamento indotto dalle migrazioni del proletariato meridionale a Torino, Milano e Genova (foriere comunque di lotte straordinarie, forse il “canto del cigno” della classe operaia, ma comunque assai sonoro, dirompente), lo stragismo parastatale a manovalanza fascista e la successiva demolizione del sistema industriale. Con la “fabbrica diffusa”, la dispersione sul territorio dei lavoratori nelle piccole imprese (Veneto docet). Rottura epocale di lotte e rapporti unitari, collettivi.

    Fino all’estremo sussulto del ’77, un rigurgito nostalgico delle classi subalterne (forse ancora una volta “per sé” oltre che “in sé”) al bisogno di comunità, una ribellione disperata all’esproprio totale della vita dal parte del capitalismo.

    A conclusione della sua vita complessa (e non priva di debolezze umane e contraddizioni) Toni Negri (“spinozista” per autodefinizione) si era quindi guadagnato meritatamente la stima dei curdi, interpretando acutamente e valorizzandoil pensiero di Öcalan. Segno che non aveva mai perso la capacità di rinnovarsi, superarsi, rigenerarsi intellettualmente. Alimentando le nuove forme della lotta di classe e di liberazione dei popoli oppressi. Schierandosi sempre, ma senza rimanere invischiato in un polveroso e forse sclerotizzato leninismo.

    Non è cosa da poco per uno nato nel 1933 e considerando l’ampio arco di tempo della sua vita “spericolata”. 

    Gianni Sartori

    nota 1: tra le mie letture difficoltose (di alcune mai arrivato fino in fondo): “La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione” (quello con la copertina di Escher), “La fabbrica della strategia, 33 lezioni su Lenin”, “Marx oltre Marx”, “L’anomalia selvaggia” (su Spinoza), “Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale” (opuscoli marxisti 21)….Nel corso degli anni poi ho spesso ripreso in mano, sperando con l’età di avere acquisito i mezzi per comprenderlo, l’opuscolo “Alle avanguardie per il partito” (della segreteria nazionale di Potere Operaio). Ma invano.

    ** nota 2: come forse avevo già raccontato pur avendo vinto un concorso statale (da insegnante elementare) agli inizi degli anni settanta, ero ritornato alle attività più “manuali” dopo aver scoperto che per insegnare avrei dovuto subire le forche caudine del “giuramento”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.