In morte di Servello: la realtà di San Babila e lo strappo con il Msi dopo il giovedì nero

Nella vicenda politica del Msi milanese la tragedia del 12 aprile 1973 è un passaggio epocale, perché segna il momento di rottura e di discontinuità tra l’apparato di partito e la militanza facinorosa che aveva il suo ritrovo e santuario in  Piazza San Babila. Io l’ho ricostruita così nella seconda edizione di “Fascisteria”, a partire da una testimonianza di Maurizio Murelli e mi sembra giusto ricordarla in occasione della morte di Franco Servello

 Piazza San Babila non era frequentata soltanto dai giovani di destra ma anche da malavitosi, ragazzi in cerca d’eroina, travestiti, semplici figli di papà e poi papponi, provocatori, poliziotti che fingevano di essere di destra ma in realtà erano delle spie (…). Alla mattina e nel primo pomeriggio stazionavano soprattutto i più giovani, gli studenti. Di sera invece la piazza era frequentata da militanti politici più consumati che provenivano dai posti di lavoro. Ma arrivavano anche coloro che avevano abbattuto le soglie della legalità e si procuravano il denaro con ogni espediente. E poi c’erano i balordi, ossia i malavitosi che tentavano di rendersi utili ai fascisti

L’omicidio Marino, il 12 aprile 1973, non è solo un incidente di percorso: gli scontri duri, quel giorno, erano una tappa – dopo che il militante della Fenice Nico Azzi si era fatto scoppiare tra le mani l’innesco di un ordigno nel gabinetto di un treno – di un tentativo golpista, «Operazione patria».  Un progetto a rigorosa direzione atlantista, in cui ai militanti neofascisti erano affidati compiti di rottura e di prima linea. Nella primavera 1973 la Dc si avvia a lanciare una doppia manovra per incalzare la sinistra: da una parte archivia l’esperienza centrista di Andreotti ricooptando i socialisti nella maggioranza e dall’altra prepara lo scontro frontale nel referendum sul divorzio. Fallito il tentativo di innescare la discesa in campo delle forze armate con la “doppietta” bomba sul treno- disordini di piazza (un doppio autogol),  Gelli continua a lavorare per un governo di emergenza. Se ne discute in un summit a villa Wanda, con la partecipazione di alti ufficiali dei carabinieri (i generali Giovanni Battista Palumbo, Franco Picchiotti, Luigi Bittoni, i colonnelli Antonio Calabrese e Pietro Musumeci, il procuratore generale di Roma, Carmelo Spagnuolo). Nella storia della P2 è l’unico vertice noto: come modello organizzativo Gelli preferiva tessere un’estenuante tela di rapporti bilaterali, per assicurarsi sempre il controllo della situazione.

La grande repressione seguita all’uccisione del poliziotto chiuse l’esperienza della piazza, anche per il disincanto prodotto dal “tradimento” del Msi, che, travolto dalle polemiche, organizzò la delazione. Qualche sanbabilino si arruolò nelle bande armate “nere”, molti di più divennero malavitosi: tra questi Gianluigi Radice, il segretario del Fronte della gioventù che la sera degli scontri telefona in questura per denunciare Vittorio Loi e incassa cinque milioni di taglia offerti dal Msi. L’“infame” era un picchiatore e bombarolo rispettabile: arrestato nell’aprile 1971 per gli scontri al primo corteo della Maggioranza silenziosa, a novembre era sfuggito alla cattura nell’inchiesta contro il Msi e poi, nel febbraio ’72, in un blitz contro le Squadre d’azione Mussolini. Rivelando un’inquietante coazione a ripetere, negli anni Ottanta Radice, elemento di spicco della mala milanese, è arrestato e si “pente”, mandando in galera decine di complici.

Il carcere è uno straordinario meccanismo di riproduzione allargata della devianza dove molti detenuti politici hanno compiuto il salto di qualità. Eppure la vicenda dell’omicidio del poliziotto dimostra l’assenza di automatismi sociali nella scelta criminale. Vittorio Loi, figlio del pugile Duilio, militante della Giovane Italia, fa parte della buona borghesia: bel ragazzo, alto, corteggiato, abbigliamento ricercato, sportivo (boxe e calcio nelle giovanili dell’Inter), continuamente mostra la durezza impostagli dal fascistissimo padre, che aveva fatto nascere il figlio a Trieste. Vittorio era già stato arrestato per un pestaggio e indagato per un progetto di attentato contro il leader studentesco Mario Capanna. Murelli, 19 anni, è invece di famiglia modesta – un padre portinaio – schivo e taciturno. Per avere qualche lira in tasca si adatta a qualsiasi lavoro. Incastrati da decine di camerati (in tredici smentiscono in dibattimento le dichiarazioni di innocenza di Loi) sono condannati rispettivamente a ventitre e a vent’anni per la morte di Marino. E sarà il borghese a farsi malandrino. Detenuto in semilibertà, nel dicembre 1986 partecipa a una rapina in una gioielleria di Varazze, nella quale è ferita la titolare: sarà condannato a quattro anni e mezzo. Murelli, liberato dopo un interrogatorio sommario in seguito agli scontri del 12 aprile 1973, prima della soffiata che lo incastra scappa. Ma a Firenze, scaricato e senza appoggi, preferisce consegnarsi a una lunga detenzione.

Pochi militanti della destra radicale vent’anni dopo proseguono il loro impegno politico. Molti sono invece passati agli onori (e agli oneri) della cronaca nera. Murelli attribuisce alla contiguità fisica tra “mazzieri” e malavitosi a San Babila – ma anche alla “ricaduta a pioggia di una cattiva lettura dell’Evola di Cavalcare la tigre” – l’irresistibile pulsione criminale di tanti picchiatori e bombaroli, che hanno conservato, dell’antica militanza, le vecchie reti di solidarietà e di reclutamento e il cameratismo. Un campione, significativo nella sua arbitrarietà, dei possibili esiti della militanza missina a Milano nei primi anni Settanta è dato dall’elenco degli imputati del processo per ricostituzione del Partito fascista. Vi convivono terroristi che finiranno nella malavita (per lo più “pentiti”) come (…) Radice o Angeli o carcerati di lungo corso come Giancarlo Rognoni, notabili inossidabili come Franco Servello, brillanti dirigenti giovanili come Ignazio e Romano La Russa, figli di arte che arriveranno a Montecitorio, mentre i loro leader faranno una cattiva riuscita. Franco Petronio, distrutto dall’alcool, Luciano Buonocore, bruciato dall’avventura della Maggioranza silenziosa, che lo costringerà a una lunga latitanza per il Mar di Fumagalli, fino a riapparire alla fine degli anni Novanta e ritentare la carriera politica in Alleanza nazionale, ancora capopolo, alla testa del movimento “spontaneo” delle ronde di quartiere contro microcriminalità e immigrazione e quindi ancora nell’autunno 2007 a ritentare l’avventura di una Destra “dura e pura” con Storace. Qualcuno rientrerà nei ranghi o continuerà a far politica per passione, come il barone Staiti di Cuddia che da deputato avrà il coraggio di rimettersi in lizza, uscendo da un Msi sclerotico e fossilizzato, per giocarsi le avventure della Lega nazional-popolare di Delle Chiaie e poi della Fiamma di Rauti, da cui è espulso per frazionismo con Tilgher, insieme al quale dà vita alla terza edizione del Fronte nazionale..

A differenza di tanti che hanno sofferto della crisi di abbandono, Murelli non ha rimpianti.

 Giudicai il comportamento del Msi vile e squallido, ma mi reputo responsabile di tutto quello che ho fatto. Sono scelte che io rivendico, e non rinnego nulla.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

9 commenti su “In morte di Servello: la realtà di San Babila e lo strappo con il Msi dopo il giovedì nero

  1. Tutto corrisponde abbastanza alla verità’ . Purtroppo solo pochi sono riusciti a rifarsi una vita come Maurizio Murelli. Qualcuno mi può’ dare notizie recenti di Mauro Marzorati che nel 1973 frequentava s.babila e fu implicato nell’attentato al treno TO-ROMA con Nico Azzi ? Ringrazio anticipatamente . Roberto Bacchi

  2. Una precisazione, Duilio Loi, padre di Vittorio non era assolutamente fascista. Era un uomo di destra ma democratico! Egli a dato lustro all’Italia con le sue eccezionali vittorie nel pugilato ma si è anche distinto per essere stato un uomo onestissimo, umile e generoso, che da sindacalista ha lottato duramente affinché ogni ex atleta italiano potesse usufruire di un vitalizio. Purtroppo le colpe ed i crimini commessi dal figlio si sono rivoltati anche contro di lui, ma bollare Duilio Loi come un fascista e quanto di più ingiusto e fuorviante si possa scrivere riguardo ad un uomo e ad un padre che sicuramente ha sofferto molto per gli atti criminosi compiuti dal figlio.

    • Avere un figlio condannato per omicidio di un poliziotto è uno strazio per qualsiasi padre, a prescindere dalle opinioni politiche. Io non trovo oggi riscontri oggettivi sul tasso di fascisteria di Duilio ma non c’è dubbio che la scelta del campione di far nascere il figlio a Trieste ancora sottoposta (o appena liberata) dal dominio inglese gli dà una precisa connotazione politica, diciamo asetticamente ultranazionalista.

  3. Definire di Destra uno che fa nascere il figlio a Trieste è segno di faziosità priva di cultura. Intanto Duilio Loi era nato a Trieste da madre triestina. Inoltre quel territorio subì la violenza comunista delle truppe assassine di Tito. Trieste città martire del comunismo, non città fascista.

    • Loi nasce a Trieste perché il padre sardo era marittimo e imbarcato. Poi cresce a Genova. Quanto alla scelta per Vittorio la ragione la spiega benissimo lei. Peccato che non se ne sia accorto…

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