14 giugno 2009: muore Ivan Della Mea, cantò la disperazione proletaria nell’Italia del boom

Il 14 giugno di nove anni fa moriva Ivan Della Mea, un protagonista del folk revival e della ricerca etnomusicale negli anni 60 al fianco di Gianni Bosio, a mio avviso il più importante autore della canzone politica nel decennio rosso, ben più dei meglio conosciuti Paolo Pietrangeli e Giovanna Marini.

Le ballate della piccola violenza

Ma c’è un filone della sua opera del tutto negletta: il suo essere stato, sin dai primi anni 60, il cantore di una condizione umana proletaria e sottoproletaria terribile, l’aver cioè colto che, al di là delle dinamiche della lotta di classe, la macchina feroce della valorizzazione capitalistica spingeva ai margini e schiacciava i soggetti più deboli. Una antropologia dei vinti lucida e disperata. Da “quell’uomo che incontravo di notte in viale Gorizia là sul Naviglio, quando i vivi dormono sogni tranquilli e per strada girano quelli che sono morti” a “chi fa la vita della taverna all’Olona notte e dì, il perché, la storia vera, mattina e sera non la so neanche io. E’ la canzone del disperato di quello che non ne può più, è la canzone del povero uomo che di stare al mondo non è mica buono”.

Io so che un giorno…

Ivan Della Mea, toscano, canta in milanese le “ballate della piccola violenza”: il giovane disadattato che rompe la gamba alla vicina perché gli ha ammazzato il gatto e si incazza per la condanna alla galera: perché lei è viva e il gatto no, il barbone che ammazza la donna per risparmiarle le sofferenze del cancro. Un femminicidio per amore. E il suo primo album del 1966, Io so che un giorno, ha come storia di copertina la storia di un matto che anche legato al letto di contenzione grida la sua determinazione a resistere al consumismo e al potere omologante del sistema.
Nella prima stesura di questo post, pubblicato il 14 giugno 2018, inserivo la versione live di Claudio Lolli. Nell’introduzione il cantore degli “zingari felici” e del Movimento del ’77 sottolineava, contro il senso comune, come il bianco fosse il colore della morte. Due mesi dopo sarebbe toccato a lui. Un’altra perdita terribile.

In ricordo di Alessandro Di Meo

«La libertà – dirò – è un fatto, voi mi legate ma essa resiste». Sorrideranno: «Mio caro amico tu sei matto, la libertà, la libertà più non esiste». Io riderò il mondo è bello tutto ha un prezzo anche il cervello «Vendilo, amico, con la tua libertà e un posto avrai in questa società». Viva la vita pagata a rate con la Seicento la lavatrice viva il sistema che rende uguale e fa felice chi ha il potere e chi invece non ce l’ha.

“Io so che un giorno” racconta la storia di un compagno e collega correttore di bozze con Ivan alla Mondadori, Alessandro Di Meo. Era salito al Nord dopo aver partecipato alle occupazioni delle terre nel Sannio. “Grandissimo poeta”, si rompe dentro quando la Feltrinelli non gli pubblica il libro su cui aveva messo su tutta la sua vita…
Ivan la racconta alla festa dell’Unità del 2004, dai ricoveri fino alla morte. Per poi ragionare su cosa è oggi l’uomo bianco: non Berlusconi (troppo facile) ma il sistema dell’informazione che ci riduce in pappa il cervello… Grande, Ivan.

Per non far morto Ivan

Dalla pagina che l’Istituto Ernesto de Martino gli dedica, ricca dei contributi profondi e commossi di Alessandro Portelli, Pape Mbawe Diaw, Anna Maria Rivera, vi ripropongo l’attacco dell’intervento di Donato Antonello, che prova a rispondere alla domanda più urgente

Parlare all’operaio leghista e razzista

Ivan Della Mea è morto il 14 giugno 2009 alle ore 1:30. Avevo commentato con lui, alcune ore prima, l’ultimo suo intervento su Il Manifesto del 12 dal titolo Brucia Compagno brucia, una feroce accusa alla dirigenza della cosiddetta sinistra (esclusa, ormai, oltre che dal Parlamento italiano anche da quello europeo e dalla maggior parte degli enti locali che hanno rinnovato le amministrazioni) e, come faceva sempre, indicava una strada da percorrere.
Citava Di Vittorio, Novella, Santi, Trentin, Luciano Romagnoli e pochi altri, fino alla citazione del suo carissimo amico, Primo Moroni, che documentò, su richiesta del Sindacato, come già alla fine degli anni ’80 si stavano sviluppando, in alcune frange della classe operaia, «…razzismo, intolleranza e non di rado fancazzismo ed egoismo e anche antipartitismo per dire anticomunismo sono costanti assai presenti sulle quali nessuna cultura contro veniva attivata e dunque nessuna politica. Si può essere cigiellisti e leghisti e razzisti e lo si è in molti casi. È questa – dice Ivan – io credo la miseria della politica di oggi e della cultura che l’informa».

Chi ha voglia di fare chiarezza su queste contraddizioni? Chi ha la coscienza compagna di dire all’operaio sindacalizzato che discriminare, emarginare, fare pratica costante di razzismo e di differenzialismo significa essere fascisti dentro? Non lo vede, Ivan, questo coraggio né l’urgenza di un fare politica che sia anche fare cultura in questo senso: e cioè in contrapposizione e in rivolta.
Questa urgenza, invece, lui la sentiva e aveva caratterizzato tutta la sua vita: in contrapposizione e in rivolta, sì, fin da quando nel lontano 1956 si iscrisse al PCI, aveva 14 anni.

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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