La prima rivolta delle banlieues: un dialogo tra Scalzone e Godani

copertina del libro vademecum con un postscriptum sulla rivolta delle banlieues

Sono passati 18 anni, ormai, dall’autunno caldo francese, la rivolta che letteralmente infiammò le banlieues parigine. Possiamo dire, retoricamente, che i protagonisti di oggi sono i figli dei ribelli di allora, nipoti o pronipoti di immigrati dalle ex colonie. A quegli eventi dedicammo il postscriptum di Vademecum, il volume curato da Josè Mazzei che Immaginapoli dedicò allo sciopero della fame di Oreste Scalzone per l’amnistia, un dialogo tra l’autore e Paolo Godani. Ve lo riproponiamo per stimolare una riflessione. In fondo al post il link per scaricare l’intero volume

POST-SCRIPTUM Dialogo-intervista con Oreste Scalzone su alcune recenti sommosse

di paolo godani

P: dopo aver letto la tua intervista al Corriere della Sera sulla “rivolta delle banlieue”, un caro amico mi ha detto di condividere lo spirito con cui affrontavi la cosa, ma lamentava il fatto che tu non parlassi tanto dell’evento “rivolta delle Banlieue”, quanto piuttosto dei discorsi che, provenienti da ogni parte, hanno come assediato quell’evento. Ho come l’impressione una reazione di questo genere sia il frutto il frutto di antico errore categoriale – se mi è permesso di dire così. Da una parte stanno gli eventi reali, con le loro cause materiali, dall’altro le parole, i concetti, i discorsi, gli apparati “ideologici”. Ci si rifà costantemente al Marx dell’Ideologia tedesca, quello della contrapposizione netta di struttura e sovrastruttura, dimenticando di vedere come, se è per questo, Il Capitale metta concretamente in discussione il carattere meramente sovrastrutturale della cosiddetta ideologia.
Prima di iniziare a parlare delle recenti sommosse, vorrei provare a chiarire in breve, e una volta per tutte, i termini teorici del problema. Direi così: i discorsi, in quanto atti effettivi degli apparati di potere (dalle dichiarazioni dei ministri alla stampa), nonché i discorsi in quanto atti di organizzazioni non direttamente legate a quegli apparati (associazioni, movimenti, partiti “non allineati”), fanno pienamente parte della materialità dell’evento, contribuendo a determinarne la portata e soprattutto il senso. In questo caso, per esempio, la parola “feccia”, rivolta dal ministro degli interni Sarkozy ai rivoltosi, ha contribuito realmente all’espansione della rivolta, nonché all’espulsione immediata dei partecipanti dalla “società civile”. Anche la dichiarazione dello stato d’emergenza ne è in qualche modo una conseguenza. Fatta questa precisazione preliminare, vorrei raccontassi un po’ il modo in cui tu hai visto la cosa.

O: Faccio mia la tua precisazione preliminare e inizio dunque senz’ulteriori“giustificazioni”.

Prendiamo dunque come “punto di attacco” un’angolatura iniziale, un approccio che è meta-discorsivoconcreto”; un po’ come sfogliando una cipolla, o come in uno scavo archeologico: dalla superficie, in questo caso dallarappresentazione di fatti e cose e cause, da rappresentazioni e auto-rappresentazioni, e dal meta-conflitto, conflitto trasferito sul terreno di descrizioni, informazioni,analisi, interpretazioni, anche nel cattivo infinito dell’overload di voci, vociferazioni, immagini, nella fiera delle Opinioni, nei giochi di posizionamento. Anche perché — e in senso tutt’altro che fanta-politico o fantascientifico, e nemmeno in senso banalmente socio-antropologico – anche la parola successiva, interpretazione e commento, cambia, cambia realmente la natura di eventi, di fatti e cose.

Parlando di “ciò che è stato detto”, intendo, in sede di critica del “discorso”, ciò che ha avuto facoltà di formularsi pubblicamente — e poi è stato ripetuto, coscientemente o no, nell’inflazione dell’ Opinione, e in modo vario e diverso un po’ da – quasi – tutte le parti, da bande opposte, con intenzioni, presupposti, autorappresentazioni le più svariate, diverse, a volte ferocemente concorrenti e contrapposte, conflittuali, concorrenti, ignare del terreno comune, della logica complessiva sottostante, che le inserisce in uno stesso ordito.

“Pubblicamente”, dunque in qualche modo sempre dall’alto verso il basso, verso qualcosa che si intende come già strutturato, conformato, “interno”, segnato da omologia – quantomeno nei mezzi e nella relazione dialèttica col “sistema” ; qualcosa che, volente o nolente, piaccia o meno, è “contabilizzabile” nella “società civile”, fino ai suoi estremi margini, ai rovesci, arrovesciati ma in qualche modo competitivi, “concorrenti mimetici” o revanchisti, dunque forzosamente e a dispetto di tutto, e anche di purezze, buonefedi e buonintenzioni, “calchi” arrovesciati, speculari, quale che sia il carattere vitale o mortale di tale concorrenza.

Sommossa, ribellione, rivolta, ammutinamento, insorgenza – conato, minaccia, incoercibile bisogno, desiderio, fantasma di resurrezione, sollevamento e forse presagio d’insurrezione cosiddetta « della – o di, o delle banlieue ». Del getto e del gesto, dell’affioramento, emersione, irruzione sullascena delle fiamme, anche nel senso stretto, ‘fisico’ degli incendi, della rivolta cosiddetta – impropriamente, riduttivamente – “delle banlieue”, “dei giovani e giovanissimi immigrati ‘di seconda generazione’ delle ‘cités’” a Parigi e in Francia, è stato detto di tutto.

Ho detto “cosiddetta, impropriamente”, perché l’insistere nella sottolineatura di una stretta “localizzazione” topografica è già catalogazione che circoscrive; è un’assai riduttiva – in qualche modo rassicurante e neutralizzatrice – ”assegnazione a residenza”, quasi il calare una pertinenza disciplinare,socio-urbanistica, socio-, e magari etno- e psico-culturale e –culturalistica.E’ una lettura dei fatti che privilegia in modo parossistico l’elemento di riterritorializzazione, e dunque proietta – attribuendolo alla “cosa” in modo integrale, esclusivo e totale – una sorta di inconfessato desiderio di “ghettizzazione”.

Certo che – stricto sensu –, l’epicentro sono state delle cité de banlieue, vale a dire quella che, sintomaticamente, si chiama, in qualche modo da tutte le parti, e anche da bande opposte categorizzandola, “la Banlieue”: con questo nome “oggettivo” (e oggettivante) si designano anche, anzi in primo luogo, le genti – moltitudini, folle, bande, sollevazioni, tumulti, condizione, comportamenti, lotte, movimenti etc. Ma, già anche solo sul terreno della fenomenologia dei fatti, i fatti circostanziati, minuti, mess’in fila, va ricordato che l’incendio ha “preso” anche in tutta una serie di città, nelle loro periferie, nei quartieri poveri e densi d’immigrati, del resto della Francia, con qualche rimbalzo anche all’estero.

La “rivolta delle banlieue” èvenuta allo scoperto, al proscenio, il ventisette ottobre scorso. Le virgolette che apponiamo stanno a marcare, tanto per cominciare, il fatto che il termine “rivolta” non è affatto dato come ovvio, per stretta evidente pertinenza  – come invece il più elementare buon senso dovrebbe suggerire – nello “spazio pubblico”. In secondo luogo, le virgolette vogliono sottolineare che il termine “di banlieue” immediatamente circoscrivente, strettamente “territorializzante”, finisce per divenire una modalità di occultamento della portata, di elementi fondamentali costitutivi della natura, della pregnanza di sintomo e presagio, di quanto è venuto prepotentemente in piena luce, alla ribalta; e che forzosamente ri(con)duce tutto ciò, in modo pressante, ad un piano strettamente socioculturale, quasi etnografico, con riferimento “urbanistico”, di regolazione sociale, di “problemi del sistema educativo”.

E’ certo che questa vicenda, questa “cosa”, è stata l’oscuro oggetto di pulsioni negazioniste, di disconoscimenti, occultamenti, tentativi d’invisibilizzazione, “neutralizzazione”, “messa-in-scatola”, museificazione. Da una parte e dall’altra. Poco importano le intenzioni. Possiamo sempre concludere che a fortiori il carattere atroce degli effetti – esiti, risultanti – pone il problema di una radicale critica che decostruisca i dispositivi, le economie libidinali, il “patologico” e le legittimazioni forzose, i delirî, i sistemi di relazioni, le logiche, le inerzie, gli effetti implacabili di giochi complessi d’inter[re-]azioni, i sinergismi, le sovradeterminazioni i malintesi, i mimetismi, gli effetti secondari, l’“eterogenesi dei fini”.

Partiamo dunque da questa, che possiamo variamente chiamare – rivolta, sommossa, ammutinamento, sollevazione, insorgenza… Partiamo da questa sequenza di avvenimenti, da questa ”cosa “, che un rapporto poliziesco dei Renseignement Géneraux (del 23 novembre 2005) ha chiamato – con la lucidità che può esser data dall’inimicizia nella capacità di comprendere il nemico, e di cui i pensatori dell’emancipazione delle genti sfruttate e oppresse (per riecheggiare una fulminante frase di Marx) non eguagliano l’audacia – “insurrezione sociale, senza capi né programma”

P: Insurrezione sociale che, come spesso capita, nasce da una goccia che fa traboccare il vaso o dalla scintilla che fa divampare l’incendio…

O: sì, la scintilla in questo caso è la tragedia di due ragazzi infilatisi a far la fine del topo in una centralina dell’alta tensione per sfuggire ai Robokop attizzatigli contro come pitt-bull, senza permettere di far abbassare l’adrenalina dell’animale braccato. Ma non è un caso né un’eccezione. Purtroppo è la regola. Solo qualche tempo fa, quel Rodomonte teppista, peggio, sobillatore e ‘kapataz’ di Sarkozy ha risposto alla morte di 52 africani (bambini, vecchi, donne, uomini, in quattro incendi di stabili fatiscenti, tuguri affittati a caro prezzo) mandando la polizia a sgomberare di forza, scatenando rastrellamenti di “irregolari”, sans papiers alle uscite dei metrò. Roba da far prudere le mani anche alla gente più pacifica…

P: e infatti…se lo stato d’eccezione strisciante o dichiarato è la regola, almeno in certi luoghi anche l’incendio e l’insurrezione sociale sembrano diventare una pratica ricorrente. Lo dice a chiare lettere il rapporto di polizia che ho citato prima: “c’è ormai da temere il fatto che ogni nuovo incidente fortuito provochi una nuova fiammata di violenze generalizzate”.

O: Direi proprio che l’incendio e l’insurrezione sociale stiano in effetti diventando una forma di lotta e una forma di vita. Una forma, come dire, d’ intelligenza antropologica e sociale”. Rispetto a quegli esangui svergognati che sono gli “intellettuali” di professione – di ceto, redditi, status, nel senso “makhajieskyiano” (in senso critico), o anche gramsciano (in senso ambivalente); e rispetto a quell’altra genìa postribolar/sicofantesca che son i “fabbricatori dell’Opinione”, il più sprovveduto dei “burn, baby burn!” , “champagne-molotov!isti” di intelligenza ne ha da vendere: pur essendo uno sbocco non cercato, bisogna dire che – rispetto a tanti Catoncini e Solonetti delle propaggini più informali, solidariste, associative, di queste famose “classi dirigenti” – sono bastate un po’ di nottate incendiarie a far precipitare i responsabili delle politiche pubbliche ad “annaffiare” di soldi le Associazioni, evidentemente sperando di farne dei luoghi d’intermediazione, di discorsi querimoniali, di risentimenti sottovoce.

E quelle, nelle rispettive “chiavi”, corrispondenti ai loro ruoli e posizionamenti nella tela di ragno della Gouvernance, regolazione-controllo-“formattazione” sociale, mentale, “antropica”; quelle, ciascuna “col colore che crede gli si addica nelle fiere e mercati di vanità e rappresentanze, di crediti, di Propagande, di fondazioni di Banche ed “esibizioni di Pubbliche Moralità” e Intelligenze; quelle, chi da white shit d’altobordo chi da Pigmalione dei sottoposti e “poveri di spirito”, chi da sbirro chi da AnimaBella “dolorista”, chi da implacabile chi da “perdonista”, in fondo sputano nel piatto dove mangiano.

Nell’immediato si sono sollevati contro la caccia all’uomo da anni scatenata nelle banlieues dalle forze di polizia; ma più in generale, e riguardando più da lontano, da prima, si son levati con disperata vitalità, con potenza di persistere nel proprio essere, e con una sorta di obiettiva intelligenza sociale contro una Repubblica democratica che li considera “esuberi” rispetto alla possibilità di una vita che non faccia spesso rimpiangere d’esser nati; contro giornate spese sul marciapiede davanti agli squallidi falanstieri della deportazione dei poveri – immigrati o francesi di seconda o terza classe in testa – più o meno “ad ammazzare il tempo” come in un cortile di prigione; contro una razionalità economica che li riduce in uno stato di manque tossicomane; contro l’assurdo stridente del martellamento propagandistico e pubblicitario e la realtà di uno squallore senz’uscita; contro la “legalità” che li asfissia, e una Legge che oltretutto li disprezza e li umilia.

Solo una manciata di settimane fa, avevo pensato di prender come spunto il tema di un sintomo di storia recente quale la sospensione, il black out di tutte le inerzie sistemiche prodottosi a New Orleans, le due parallele catastrofi, una da miseria, l’altra, qualche giorno dopo, da una ricchezza malata come l’ipertrofìa corporale dell’obesità, come malattia psico-sociale, sociopatìa, bulimìa endoreattiva… – a New Orléans l’ordine eguale-astratto dell’evacuazione risulta demenziale per le zone intere di popolazione che non hanno un mezzo di trasporto; nel Texas qualche giorno dopo l’ evacuazione è bloccata da un gigantesco edema autostradale, prodotto dai mostri 4×4 che ingurgitano benzina, si ingorgano, intasano le strade come una congestione, un’angina pectoris, un’ostruzione pre-infartuale delle coronarie, mentre gli occupanti si avvelenano coi gas di scarico dei

motori accesi. Il punto di vertigine è stato rappresentato dalla Guardia nazionale mandata a sparare a vista a chi eventualmente violasse il “diritto di proprietà”, la “sicurezza dei beni”, andandosi a prendere le merci nei supermarket devastati, allagati inondati, sventrati… la roba doveva marcire al suo posto negli scaffali. Guai a un precedente di appropriazione, di autonomia anche al “grado-zero” dello stato-di-natura, del comportamento animale…

In questo assurdo normativo, in questa manifestazione estrema dell’ibrido capitalismo/Stato come “Coppia” tossicomane, criminal-criminogena, poliziesca e penale, c’è il presentarsi di un’alternativa secca, sovversione o sfacelo, insorgere o andar morendo. Sovversione, o deserto.

p: in questo quadro generale, in cui la domanda sensata non è perché certi fatti accadano, ma perché non accadano più spesso e dovunque, date le condizioni di vita sempre più insopportabili, si potrebbe forse dire che la “rivolta delle banlieues” se presenta qualche tratto in comune con gli episodi di New Orleans soprattutto per quanto riguarda la reazione poliziesca, trova forse il suo antecedente più prossimo in una rivolta come quella del 1992 a Los Angeles, che fu scatenata dal pestaggio di un afro-americano da parte della polizia e si manifestò come l’espressione di un’esigenza di giustizia immediata.
Alcuni hanno parlato di un “Maggio ’68 delle banlieues”. La differenza sta forse nell’assenza di un movimento a indirizzare le sommosse, a sovradeterminare “politicamente” gli incendi e gli scontri con la polizia. Né l’estrema sinistra né le organizzazioni islamiste hanno giocato, in questo caso specifico, alcun ruolo. Un’insurrezione senza capi né programma, come si diceva. E’ questa la novità rispetto alle esplosioni sociali che abbiamo conosciuto in Europa dagli Anni Sessanta in avanti.

O: Non solo il clero musulmano, compresi i tanto stigmatizzati “islamisti ultrà”, non si sono messi alla guida della rivolta, ma al contrario hanno giocato apertamente al “pompieraggio” nei confronti di questa terra davvero bruciata, di quest’ondata tumultuosa di sabotaggio! E tutto il variegato mondo gauchista si è limitato alla richiesta pietosa e pelosa di “aiuti” per i diseredati delle nostre metropoli. Agli araldi della République in salsa “repubblicana”, citoyénnista”, “social-democratica o “liberal-democratica” o demo-social-(comunisto)cratica” (dove “democratico”, poi, va sempre letto come “democrato-cratico”), a tutti questi andrebbe ricordato che secondo la Costituzione del 1793, secondo cioè la loro Rivoluzione, il più elementare dei diritti e il più sacro dei doveri è resistere, sollevarsi in armi contro l’usurpatore e il tiranno, contro ogni forma di dispotismo e oppressione.

Dicevi della vecchia storia di dirigere politicamente i movimenti…anche dentro la tradizione comunista, soprattutto nella versione lassalliano-staliniana che ha caratterizzato il secolo appena trascorso. Il suo segno tragico lo si trova espresso nella traduzione della canzone del movimento operaio nata con la II Internazionale, quella detta socialdemocratica, e poi passata nella tradizione bolscevica della III internazionale: “non siam più la Comune di Parigi che tu borghese schiacciasti nel sangue, non più plebi umiliate e derise, ma la gran massa dei lavoratori”. Senza nessun aspetto di nostalgismo, per quel che valgono le canzoni, dal punto di vista della formazione e della rappresentazione dell’immaginario collettivo, questa è la traduzione di un errore tragico.

C’è una frase di Marx nell’opuscolo sulla Comune di Parigi – Marx che viene definito per questo da Maximilian Rubel (anarchico e grande traduttore di Marx in Francia) “teorico dell’anarchia”, espressione che faceva incazzare tanto i marxisti quanto gli anarchici (ortodossi, anti-marxisti) – una frase che dice all’incirca così: la Comune è la forma finalmente scoperta che mostra come sia possibile per la moltitudine dei proletari governarsi da sé. Ora questa sembra un’utopia, ma è l’unica possibilità. L’intera storia umana, senza voler fare della filosofia della storia, ha una costante da quando ci sono tracce di scritture, di civilizzazioni, di religioni, di matematiche, di letterature e di graffiti: il principio su cui si organizza è un principio di eteronomia.

La gente è governata da imprenditori, preti, rappresentanti etc. Poi all’interno ci sarà la democrazia, la plutocrazia, la timocrazia, l’oligarchia, la monarchia etc., ma l’idea semplice – diceva Brecht – è che il genoma virtuale dell’autonomia (che in senso spinoziano è la potenza, la potenza di persistere nel proprio essere), autonomia che non è la libertà assoluta (che finisce evidentemente in sei miliardi di volizioni, di istanze, di totalità, di assoluto e diventa… altro che homo homini lupus), ma autonomia nel senso di un principio di autorelativizzazione, di riflessività, di autolimitazione, e di comunanza.

Quello che pongo come problema è che la Comune è stata schiacciata dagli versagliesi di Thiers, ma è stata molto più schiacciata dalla penetrazione di Ferdinand Lassalle, dalla sua idea-virus secondo la quale la classe operaia deve prendersi lo Stato come suo strumento nella lotta di classe contro il padrone. Lassalle rompe con Marx quando crea la Società, una sorta di movimento operaio da Stato etico e etnico. E il lassallismo, attraverso Kautsky, passa ed impregna tanto la socialdemocrazia, che va a finire a Noske e ai corpi franchi che ammazzano Rosa Luxembourg e gli spartakisti, tanto il bolscevismo.

Allora la discussione non è tra chi, come Marco Revelli, dice che si deve buttar via tutto, e chi di colpo come Rossanda, Tronti, Burgio etc. dice: “ah no, ma che stai dicendo, non si può fare una rivoluzione senza la violenza”. Verrebbe da dire: adesso lo scoprite? Il problema è di non lasciar passare le aberrazioni, le ignominie che vanno dicendo in giro intellettuali come Tranfaglia, che sono capaci di dar del negazionista e del revisionista a uno che parla delle foibe o dei gulag, e poi cercano di far passare, contemporaneamente, l’idea che Marx è un cane morto – come se Marx c’entrasse col gulag. Omertà sui gulag e revisionismo su Marx. Bisognerebbe fare tutto il contrario!

Il movimento operaio ha il suo periodo d’oro, tra il 1848 e la primavera del 1871, tra il ’48, anno mai abbastanza stramaledetto dai borghesi, e il 18 marzo del ’71, che sarà sempre e comunque la più grande festa del proletariato. C’è un filo da riannodare, che va dalla teoria marxiana alla Comune di Parigi e all’associazione internazionale dei lavoratori. E’ una maledizione quella di legare il destino del comunismo alla forma del socialismo capitalistico di Stato sovietico. Dobbiamo pensare di tagliare quello che c’è da tagliare, ma anche riannodare il filo con la Comune di Parigi. Quella frase, non siam più la comune di Parigi che erano pezzenti e derisi è una frase lassalliana, antimarxiana…

P: forse – se mi posso permettere – il difetto, come si dice, sta nel manico… Cito Gilles Deleuze e Félix Guattari, il primo autore che so a te caro, il secondo tuo amico e compagno di molte lotte in Francia e in Italia, per domandare se il problema non stia proprio in quella “forma finalmente trovata”. Dire che la Comune di Parigi – e con questo torniamo a quanto dicevamo all’inizio sull’effettualità delle parole e dei discorsi – è una forma politica non significa già puntare lo sguardo sull’avvenire della rivoluzione piuttosto che sulla necessità di un divenire-rivoluzionario? Non significa già dichiarare – alla maniera di Napoleone – la “fine della Rivoluzione”?
Sarebbe come dire, e così torniamo al nostro tema: sì, va bene la rivolta, vanno bene gli incendi, ma poi bisognerà pure trovare un terreno di contrattazione con lo Stato. L’ho sentito dire da un compagno italiano (che peraltro ha scritto bellissimi libri sulla “teppaglia”, sulla canaille, sui Lumpen delle metropoli italiane) in un dibattito sulla rivolta nelle banlieues. Gli ha risposto in modo lapalissiano un “militante” benlieuesard di non so quale gruppo: l’affare di chi insorge è l’insurrezione, l’affare dello Stato è la mediazione e il recupero. E infatti, lo Stato francese sta già mandando “aiuti” ai “giovani delle banlieues”. Il “nostro” è – come dici tu – solo la costruzione di un’autonomia possibile.

O: Questo certo, ma quando dico che quella frase sulla Comune di Parigi è un segno tragico, non lo dico solo perché è lassalliana, perché indica alla classe operaia il compito della conquista dello Stato, ma anche e forse soprattutto perché in essa c’è già in nuce una specie di oblio nei confronti di Marx. Mi spiego. E’ una storia lunga.

Tutti noi abbiamo detto almeno una volta nella vita “la proprietà è un furto”, ma questa è un’espressione prudhoniana, alla quale Marx rispondeva: “caro signor Prudhon, per definire il furto bisogna già aver definito la proprietà, e dunque il problema non è il furto, ma la costituzione della proprietà nel modo di produzione capitalistico, ovvero l’estrazione del plus valore! E si tratta di una questione fondamentale, perché è a partire da qui che si distingue l’odio verso il padrone-ladro dalla contrapposizione al padronato come classe che realizza lo sfruttamento nel sistema capitalistico.

p: mi pare tu sostenga una cosa analoga a quella di Foucault, quando dice: tutte le volte che il movimento operaio e rivoluzionario ha lasciato in secondo piano la lotta di classe come lotta economica, è stato costretto a far leva su qualche specie di razzismo, ha finito per pensare al padrone o in generale al nemico non come ingranaggio di un sistema di sfruttamento (come in Marx), ma come un essere malvagio e diabolico…

O: come un sottouomo! E’ quanto è successo, per rimanere dalla nostra parte, con l’antifascismo militante.

p: ed è forse in questo senso, per riprendere una cosa che dicevi verso l’inizio, che la rivolta delle banlieue ha manifestato un’intelligenza sociale. Al di là del gesto, della festa, bruciare le automobili – come sfasciare le vetrine – è, pur ad un livello minimale, l’espressione di una resistenza ad un sistema di dominio e sfruttamento. E’ il segno di un’inimicizia che non stigmatizza il nemico come sottouomo…

O: Dev’essere così. Ma persino in chi arriva a sollevarsi in armi, persino in chi arriva a pensare di uccidere o a uccidere veramente credo si esprima un errore meno tragico, dal punto di vista diciamo antropologico, rispetto a quello di colui che magari non pensando neppure di poter uccidere un suo simile lo considera come un sottouomo. Ci hanno sempre accusato perché parlavamo di inimicizia, perché citavamo Carl Schmitt. Ma non è proprio Schmitt a rifiutare radicalmente, a guardare con orrore alla trasformazione del nemico in sottouomo, in nemico dell’umanità?

p: Vorrei tornare, in conclusione, sull’altra faccia della reazione statuale, quella repressiva. Tra i rivoltosi ci sono circa quattrocento indagati. Dopo la festa, per alcuni, i processi e probabilmente il carcere. Il che ha molto a che fare con quanto si diceva ora: dire, come ha fatto Sarkozy, che i rivoltosi sono “teppaglia” significa appunto trattarli come sottouomini.

O: Adesso, in tanti contano sul fatto che l’ondata di furore che ha incendiato le banlieue sia spenta. Ci contano i Sarkozy di tutte le varianti e sfumature, impegnati a lucrar voti dei settori del corpo sociale capaci di strutturare una xenofobia robusta, di matrice e ispirazione colonizzatrice, in forme di cinismo utilitaristico, a cui è congeniale un modello di mercato delle identità comunitarie disposte a mosaico, come merci in concorrenza negli scaffali di un supermercato: modello, se si vuole, ultra liberal-fascista, che si riserva di trascegliere, di dividere e comandare, di gerarchizzare, selezionare, cooptare.

Ci contano anche gli Chirac e i Villepin (attuale primo ministro), convinti che il pericoloso challenger che è il sunnominato sia uscito ridimensionato e azzoppato dalla prova, e rilanciano la bolsa magniloquenza repubblican-gaullista. Ma non è questo che ci riguarda. Per parte nostra, ora, possiamo provare ad elaborare una risposta adeguata allo stato d’eccezione e alle condanne feroci che hanno già dato per direttissima a questi ragazzi, nel corso di farse processuali. Insieme con altri abbiamo lanciato la proposta di una parola d’ordine di amnistia per i condannati di questa tornata di incendi nelle banlieue. E’ molto probabile che non ci sia alcuna amnistia, ora, proprio per le ragioni che si dicevano. Però bisogna fare una distinzione.

L’emergenza francese è spesso odiosa e prende forme colonialiste, ma è diversa da quella italiana dove purtroppo c’è un’idea cattolica inquisitoriale di giustizia infinita. Qui sono capaci di scendere nei quartieri come parà del colonialismo, come magari in Italia la polizia non fa, però poi, dovesse esserci un’alternanza al governo, si potrà attaccare per il cravattino la sinistra e dire: adesso votate l’amnistia. E’ già stato fatto per esempio sui canaques della Nuova Caledonia nell’88. In Italia non si è ancora stati capaci di chiudere davvero la vicenda degli Anni Settanta. S’insegue la gente a distanza di trent’anni, strumentalizzando in maniera abominevole il dolore, che è comprensibilissimo naturalmente, dei parenti delle vittime.

La “giustizia” dello stato italiano, che per noi era e resta giustizia di classe, non si presenta nemmeno più con la teoria della difesa del corpo sociale – come dicono – ma solo con quella della volontà di soddisfare un umano, troppo umano desiderio di vendetta. E forse di non smettere di minacciare chiunque pensasse di riprovarci. Non basta nemmeno più scontare trent’anni di galera, bisogna pentirsi, abiurare, tacere, nascondersi, scomparire. E i peggiori non sono i leghisti o i post-fascisti, che fanno il loro mestiere. Ma Violante… che aspira ad essere un novello Torquemada, senza riuscire a mostrare nemmeno una traccia di mostruosa grandezza.

Vademecum

Ugo Maria Tassinari è l'autore di questo blog, il fondatore di Fascinazione, di cinque volumi e di un dvd sulla destra radicale nonché di svariate altre produzioni intellettuali. Attualmente lavora come esperto di comunicazione pubblica dopo un lungo e onorevole esercizio della professione giornalistica e importanti esperienze di formazione sul giornalismo e la comunicazione multimediale

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