La verità bisogna dirla per intelligenza

[Un vecchio articolo, di una ventina di anni, nel pieno della campagna innocentista per Mambro e Fioravanti sulla stazione di Bologna. Il periodo è certo dato il riferimento di occasione, l’appello di Funari, ma non ricordo dove l’ho pubblicato].

mambro_fioravantiNon avevo bisogno del drammatico appello televisivo, all’edicola di Funari, per sapere che Francesca Mambro e suo marito Valerio Fioravanti non erano responsabili della strage di Bologna.

Soltanto un cretino in malafede può pensare che due notissimi militanti della estrema destra armata che sono già passati volontariamente in clandestinità per compiere omicidi politici in una capitale ultramilitarizzata si riducano a chiedere documenti falsi a un pesce piccolo del sottobosco criminale dopo aver progettato ed eseguito la più grave strage della pur sanguinante storia repubblicana, vantandosi per altro di aver assistito alla scena, uno travestito da turista tirolese, l’altra, giusto per non farsi notare, tingendosi i capelli di rosso…

Poiché questa è la principale prova a carico: di due che giravano impunemente da mesi in una Roma in stato d’assedio – ammazzando poliziotti, rapinando banche – essendo ben noti a Digos e carabinieri.

Lei si è vista morire tra le braccia il suo migliore amico, ucciso da un ufficiale dell’Arma: ed è l’unica giovane missina – tra le centinaia radunate la sera del 7 gennaio1978 a via Acca Larenzia, per protestare contro la strage compiuta dai Nuclei armati per il contropotere territoriale (due militanti uccisi sulla soglia della sezione Appio Tuscolano) – ad avere il coraggio, lei figlia di poliziotto, di testimoniare in tribunale contro il capitano Sivori. Si è poi messa con Dario Pedretti, il capo del Fuan, arrestato qualche mese prima con mitra e giubbotto antiproiettile, dopo una fallita rapina in gioielleria. Così, quando il 28 agosto 1980 scatta la grande retata per la strage di Bologna, c’è anche per lei il mandato di cattura.

Lui quella volta se la cava ma è già latitante: il mese prima aveva smarrito su un autobus un giubbino con documenti falsi, pistola e cocaina. Nell’ufficio politico della capitale la faccia dell’ex enfant prodige della tv è ben nota come quella di uno dei piùdeterminati pistoleri neri. Eppure Valerio Fioravanti era riuscito a partecipare -tra febbraio e giugno- a due agguati mortali contro poliziotti e a organizzare l’esecuzione del giudice Amato.

Lo ha detto con amore e con rabbia Francesca Mambro, ai giudici di Bologna prima che al grande show del re delle telepromozioni: questa condanna non aggiunge un solo giorno di carcere a noi che abbiamo tre o sei ergastoli da scontare eppure distrugge la nostra vita. Perché noi abbiamo ammazzato – e visto morire i nostri camerati – proprio per affermare il semplice fatto che i fascisti non facevano le stragi ma combattevano il sistema.

Ora invoca la verità, Francesca, e accetta di darsi in pasto ai giornalisti, lei, altrimenti restiva a far mercato delle sue frequentazioni della terra del rimorso. E si offre nuda, facendo violenza al suo pudore, raccontando di quando, ferita alla regione addominale in un conflitto a fuoco – nonostante il giubbotto antiproiettile – pensava di lasciarsi morire. E non dice, però, che deve la vita alla determinazione del suo compagno, Giorgio Vale, che quel giorno, il 5 marzo del 1982, dovette combattere non solo con la voglia di arrendersi della ragazza, ma anche con la determinazione cannibalesca degli altri clandestini dei Nar che a Francesca volevano dare il colpo di grazia, per impedirle di ‘cantare’. Giorgio la abbandonò all’ingresso dell’ospedale, salvandole la pelle, restituendola all’amore della sua vita, Valerio, ma anche a una galera infinita.

Forse Francesca non sapeva, forse la memoria gioca brutti scherzi, ha strani meccanismi selettivi e quando si pesca in una sfera così intima e drammatica, una restituzione distorta non  necessariamente frutto di malafede.

E’ capitato anche a Valerio, quando – per le telecamere di Mixer – ricostruì il suo primo omicidio. Andammo in quella piazza a Cinecittà – raccontò – perché dal carcere ci avevano fatto sapere che lì bivaccavano i compagni che avevano ammazzato i camerati di Acca Larenzia. Prima di fare fuoco ebbi il tempo di fissare lo sguardo con il mio bersaglio: e capii che non c’entrava niente…

Minoli, solitamente così aggressivo e ben documentato, mostrò rispetto per quel silenzio così carico di pathos. O semplicemente non ebbe la prontezza di spirito di chiedergli come mai quella consapevolezza non gli avesse impedito di mettersi a cavalcioni di Roberto Scialabba, ferito e inerme, per sparargli un colpo al volto a bruciapelo per finirlo.

Anche la ferocia di chi uccide così è comunque altra cosa, segna un tipo umano che è agli antipodi dei ragionieri del crimine che seminano la morte abbandonando valige di esplosivo su treni o sale di attesa ferroviaria. Francesca e Valerio appartengono a una generazione che ha compiuto -in anni assai aspri- molti delitti e anche qualche orrore eppure non è stata priva di grandezza. Di quella generazione, che pur all’interno è stata lacerata da empiti cannibaleschi, si tenta qui di restituire, appunto, miserie e nobiltà.

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