Lo studente ucciso per sbaglio, un disastro per Prima Linea
I funerali di Matteo Caggegi e Barbara Azzaroni avevano dimostrato che esisteva ancora uno spazio di manovra per Prima linea e una ostilità diffusa nei confronti delle istituzioni su cui fare leva. L’identificazione emotiva di molti nei confronti dei due uccisi esprimeva una persistente solidarietà verso il progetto della lotta amata.
Tutto ciò viene però travolto dalle modalità concrete con cui si materializza la tanto evocata vendetta: un’ennesima forzatura, un’ennesima responsabilità che Pl, con dubbia consapevolezza, si prende e che la precipita in un «terribile vortice di pulsioni di morte, di vita impossibile».
Un fomento generale per la rappresaglia
Nei giorni successivi alla sparatoria del bar dell’Angelo l’intera sede torinese elabora infatti vari progetti di rappresaglia nei confronti delle forze dell’ordine, da quelli più sobri (l’attacco a una volante a lungo pedinata) a quelli più visionari (l’assalto con armamento pesante alla questura).
Fa da sfondo lo «stato di choc» in cui è caduta l’intera comunità di Pl a Torino, amplificata dagli stimoli a vendicare la morte di Caggegi e di Azzaroni che attraversano i luoghi di ritrovo del movimento e le cerchie di amici, familiari e conoscenti degli uccisi. Non esiste un’unica parte responsabile della deriva militare: vertici, base e anche ambienti esterni al gruppo si fomentano a vicenda nel montare i sentimenti di ritorsione.
In questo coro di voci indistinte l’unica che manca è un invito alla calma, una funzione che forse avrebbe dovuto svolgere un effettivo comando nazionale, del tutto latitante però di fronte allo slancio proveniente da Torino. In ultima istanza a imporsi è un opzione che prevede di attirare la pattuglia di una volante all’interno di un bar e a quel punto aprire il fuoco: uno schema che non sembra prevedere particolari rischi, ma che al tempo stesso non fa i conti né con il caso né con alcune decisioni discutibili.
La ricostruzione dei fatti
Proviamo a seguire passo passo l’operazione, con l’aiuto della ricostruzione svolta in sede di giudizio penale. A comporre il nucleo operativo cinque militanti (Bignami, Giai, Scotoni, Laronga e Russo). Il locale scelto per l’agguato è una bottiglieria in via Millio, dove Giai, Bignami e Scotoni entrano all’ora di pranzo del 9 marzo, mentre la coppia Laronga e Russo resta appostata fuori. A Scotoni il compito di vigilare sulle persone presenti al momento dell’irruzione, rapidamente trasferite nel retrobottega, mentre Giai e Bignami si insediano all’interno del bar e telefonano alla polizia richiedendone l’intervento con la scusa di un piccolo furto. Nell’attesa dell’arrivo degli agenti vengono sparsi nel locale, a titolo di firma, dei volantini commemorativi di Azzaroni e Caggegi.
Quando il primo poliziotto entra nel bar avviene subito un contrattempo; difatti Bignami, il più coinvolto emotivamente nella vicenda, alla domanda su cosa sia successo risponde estraendo la pistola e iniziando a sparare immediatamente. In questo modo però gli altri poliziotti sono nelle condizioni di uscire dal locale e per essere colpiti devono intervenire i due militanti all’esterno del bar, armati di un mitra (proprio uno di quelli provenienti dal Libano). Il tutto rende però la sparatoria, durata diversi minuti, incontrollabile e consente ai poliziotti seppur feriti di porsi a riparo dai proiettili. In una scena da western (le bottiglie di vetro del bar infrante dai colpi di arma da fuoco e un impressionante volume di fuoco), altri aspetti sembrano non essere previsti.
Il ferimento di Laronga, la morte di Iurilli
La scelta di far usare il mitra a Silveria Russo è rischiosa, tanto che uno dei colpi ferisce gravemente l’altro militante all’esterno del bar, Laronga. Inoltre, forti della convinzione di concentrare il fuoco all’interno del bar, non si è previsto un controllo della strada. È così che si materializza la conseguenza peggiore dell’agguato: un ragazzo, Emanuele Iurilli, di ritorno da scuola (coincidenza vuole che sia l’istituto tecnico posto proprio di fronte al bar dell’Angelo) svoltando l’angolo della strada si trova nel raggio d’azione degli spari e resta ucciso.
A questo punto il nucleo è costretto a una fuga precipitosa, in condizioni psicologiche precarie, senza poter contare su l’auto rubata crivellata di colpi. È quindi prima sulla stessa volante – che però ha le gomme squarciate – e poi su un taxi abbordato poco distante che viene caricato Laronga, ferito gravemente, in direzione di una base dell’organizzazione.
Il trasporto a Milano del ferito
Il giorno successivo, da Milano arrivano Segio e Donat Cattin per organizzare il pericoloso trasferimento notturno di Laronga verso il capoluogo lombardo dove un medico amico è in grado di curarlo. Il caso vuole che in via Millio quel giorno fosse parcheggiata anche un’auto rubata dalle Br, del tutto estranee all’accaduto, che rischiano di rimanere invischiate (e di invischiare) le prime indagini.
L’episodio avviene in contemporanea con la camera di consiglio del processo ai militanti arrestati 1977; è una coincidenza, ma anche la riprova della scarsa attenzione della sede per il destino dei loro compagni incarcerati. Un’imputata ha infatti ricordato come
è stato in quel periodo lì il fatto del bar, di Barbara Azzaroni e Matteo Caggegi … è successa quella cosa lì, triste e drammatica … seguita poi dalla cosa di via Millio, la mattina in cui i giudici dovevano entrare in camera di consiglio. Tant’è che quella mattina lì Zancan [l’avvocato difensore] aveva i capelli dritti, è arrivato e ci ha detto che se qualcuno di noi aveva in testa di uscire che se lo togliesse, perché non se ne parlava neanche.
Una triplice disastrosa sconfitta
Ma la portata del fallimento di via Millio assume dimensioni più complessive, ben riassunte dalle frasi di due protagonisti dell’operazione. Per la Russo la morte di Iurilli non soltanto «era sconvolgente perché sostanzialmente andavano di mezzo dei civili», ma soprattutto dà «il sentore di cosa potevamo diventare». Ma le parole più nette vengono dal suo compagno Laronga: in quel drammatico 9 marzo noi subiamo una triplice disastrosa sconfitta; era morto un innocente passante, un giovane studente, vittima che anche con la mentalità di allora era fuori da ogni giustificabilità; io stesso ero stato ferito da un componente del nucleo e da quel momento si rompe definitivamente il sottile filo di seta che ancora ci legava al movimento e alla realtà.
L’impatto emotivo della morte di Iurilli è deflagrante: non soltanto all’interno di Pl (a detta di Donat Cattin uno dei partecipanti all’azione, Scotoni, «dopo via Millio, uscì in qualche modo dall’Organizzazione»), ma anche nell’opinione pubblica. In una città come Torino che sembrava assuefatta agli attacchi quotidiani a esponenti delle istituzioni e avversari politici, il funerale del giovane studente, partecipato da migliaia di persone, diventa l’occasione per testimoniare la diffusa estraneità alla pratica delle organizzazioni armate.
Netta condanna da Lotta continua e da Giai
Non giunge meno inaspettata, sulle colonne di “Lotta continua”, la netta condanna di un gesto «ancora più folle della logica della rappresaglia […] la quintessenza del terrorismo». Ai funerali di Iurilli partecipa anche Giai; colui che nei mesi successivi spingerà per perpetuare la rappresaglia non esita ad ammettere l’abbaglio di via Millio:
si era trattato di un’azione in quartiere operaio come San Paolo, con alto rischio di coinvolgimento di civili. Un rischio del genere può essere affrontato soltanto in una situazione di guerra mentre la fase che attraversiamo può considerarsi di guerra soltanto se uno è pazzo. […] Non è vero che tutte le morti siano uguali. È vero che la morte di Matteo pesa come una montagna su di noi ma più ancora pesa la morte del proletario Iurilli. […] Matteo aveva scelto la lotta armata e rischiava la morte consapevolmente. Iurilli no. Voleva un rapporto con la vita. Rischiare di uccidere uno come lui era una forzatura. […] La morte di Iurilli rappresentò per noi una disfatta. Politicamente era un nostro morto, indipendentemente da chi lo avesse ucciso.
Una svolta nell’organizzazione
L’episodio imprime una svolta anche nei rapporti fra sede di Torino e organizzazione centrale. Prima dei fatti di via Millio a livello nazionale si fa fatica a sintonizzarsi sulle frequenze torinesi, libere quindi di percorrere strade autonome. A onor del vero a Milano, in risposta alla morte dei due torinesi, viene pianificata un’operazione volta ad annientare la scorta del procuratore capo Mauro Gresti, che soltanto all’ultimo viene abbandonata. È un dato di fatto però che le altre sedi subiscano l’emotività dilagante a Torino lasciando trascinare l’intera organizzazione in una funesta spirale. Solo dopo via Millio e il ferimento di Laronga, verrà posto un freno allo slancio della sede torinese, attraverso un parziale commissariamento. A scontarne il prezzo principale sono i suoi massimi dirigenti, «ampiamente criticati per il tipo di scelte che abbiamo compiuto e per il tipo di pazzia che abbiamo potuto mettere in piedi», mentre Giai ricorda che dopo via Millio «a Torino (per la situazione emotiva creatasi) non era più riconosciuta autonomia politica».
Antonio Tanturli, La parabola di Prima linea. Violenza politica e lotta armata nella crisi italiana (1974-1979), Tesi di dottorato in Storia dei partiti e dei movimenti politici, Università di Urbino.
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